(Foto Pixabay)

L'iperoggetto che però vota e l'iperpoeta Scalfari. Riflessioni sulle non élite

Alfonso Berardinelli

La nota politica di Mughini sul telefonino e un libro di poesie un po’ iper

Roma. 1. Qualche sera fa, nel dopocena della povera Lilli Gruber (povera di argomenti), è apparso Giampiero Mughini e sua è stata la sola battuta che nel corso della mezzora di trasmissione meritava di essere detta e ascoltata. Si discuteva di social e di giovani e Mughini sembrava annoiato più spesso che gli altri due ospiti. Finché a un certo punto, dopo una pausa di riflessivo silenzio, ha detto: “Ero in viaggio in treno da Milano a Roma, avevo accanto un uomo di età matura, il quale per tutte le tre ore non ha mai alzato gli occhi dal suo smartphone continuando a farlo scorrere con la mano” (Mughini ripeteva il gesto della mano) “e alla fine mi sono detto: ‘il suo voto vale quanto il mio?’”. Già, proprio così, questa è la democrazia di cui ci ostiniamo a discutere con argomenti “squisitamente” politici o politologici, senza mettere nel conto dovuto i “coatti” innumerevoli che abbiamo intorno tutti i giorni e a cui attribuiamo l’idealistica qualifica di libere coscienze individuali capaci di compiere, per principio, libere scelte politiche. Alla fine, per concludere con una clausola forte il corso dei suoi pensieri, Mughini si è dichiarato favorevole alle élite, alle élite davvero capaci, eccetera.

 

Si ipotizza e si spera che le élite esistano. Ma esistono? Chi ha in mente e ricorda le élite da cui siamo stati governati nell’ultimo mezzo secolo forse sarebbe indotto nella tentazione di crederle esistenti, le élite, sì, certo, ma poco affidabili, spesso subdole, corrotte, abilissime comunque nell’arte di mentire.

 

La democrazia significa potere del popolo, dobbiamo anche presupporre quindi che il popolo esista. Esiste? Certo, esiste. Ma di che cosa è fatto? Oggi sia il popolo che le élite sono della stessa pasta. Forse quel tipo che Mughini ha incontrato in treno era un politico, un parlamentare, un assessore, un professionista, un docente universitario, un giornalista, uno psicologo… Se non sbaglio la maggior parte dei deputati e dei senatori non fa che accarezzare e far scorrere lo smartphone in Parlamento anche quando dovrebbe ascoltare l’oratore di turno. Mi chiedo perciò in sintonia con Mughini: “E io dovrei votare quelli lì?”. (P.s. Perché le sinistre di tutto il mondo hanno scoperto la pericolosità populista di internet solo quando sono state sconfitte dalle destre? Hanno smesso di credere da un giorno all’altro che “internet è libertà”?).

  

2. E’ uscita la seconda edizione di un libro intitolato “Iperoggetti. Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo” (Nero, pp. 279, euro 20), autore l’americano Timothy Morton, nel quale si dice che viviamo ormai immersi in una realtà popolata di oggetti che crediamo più o meno vicini o lontani, mentre invece ci stanno letteralmente (fisicamente, psichicamente) addosso. L’autore è un tipo spiccatamente versato nell’arte di sorprendere il lettore con effetti speciali teorico-stilistici: nella sua zuppa bibliografica galleggiano Heidegger, Marx e Lacan, Julia Kristeva e José Ortega y Gasset, fisici quantistici, Kant, Hegel, poeti romantici, Emerson, Thoreau, Ruskin… Siamo insomma in area Slavoj Zizek, dove solo gli estremi interessano perché metterli insieme dà una certa scossa. La cosa interessante è comunque l’idea di iperoggetti, i quali, definiti in sintesi, sono “già qui”, “mi hanno avvelenato”, “infestano già-da-sempre il mio spazio sociale e psichico”.

 

Naturalmente in 280 pagine l’autore dice molto di più e spesso si ripete. Ma l’essenziale è presto detto. Lo smartphone è un evidente iperoggetto, o forse chi lo usa e non se ne stacca è l’oggetto di un iperoggetto che l’ha invaso e colonizzato. L’iperoggetto è “così penetrante da riorganizzare la nostra struttura interiore” rubandoci l’esistenza. Gli iperoggetti sono “viscosi”, dice Morton, “si attaccano alle entità con le quali entrano in rapporto”. Quell’uomo in treno si era attaccato al suo cellulare, il cellulare si era attaccato al suo uomo. Due iperoggetti. Chi sceglie cosa? Dov’è la libertà, dove la libera scelta, il libero uso di un mezzo in vista di un fine?

 

3. Avendo comprato Repubblica ed essendomi trovato in mano “L’ora del blu”, cioè le poesie di Eugenio Scalfari, eminente giornalista, scrittore, filosofo, pensatore politico e ora anche poeta, mi è stato impossibile non pensare che avevo a che fare con l’iperlibro di un iperautore. Anche Scalfari come un iperoggetto è “viscoso”, si attacca ai lettori e (per così dire) “ne riorganizza la struttura interiore”. Si dice che nessuno compra né tantomeno legge libri di poesia, salvo due o tre eccezioni. Quindi Scalfari è senza dubbio, oggi, il poeta italiano più letto. Ma non si tratta di Scalfari, si tratta di una letteratura, di una cultura, fatta sempre più di iperautori e di iperlibri che ti si attaccano addosso. Libri non letti da lettori ma da speciali iperlettori che leggono solo iperlibri. Libri non da divorare, ma che divorano.

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