William Hogarth, “Before”, 1730-31

C'è modo e modo di amare tante donne (e tanti uomini). Un libro spiega perché

Annalisa Chirico

Libertine e libertini, lontano dal #MeToo. Don Giovanni bulimico del sesso, Casanova gran sentimentale, Lord Byron eretico dell’eros

La società odia sempre il libertino. E’ il ribelle d’amore, l’eretico dell’eros: pretende di amare fuori dagli schemi, secondo personalissime regole affettive e sentimentali, infischiandosene della morale comune. In “Libertini libertine. Avventure e filosofie del libero amore da Lord Byron a George Best”, a cura di Cesare Catà (Liberilibri, 228 pp., 17 euro), le annotazioni terminologiche sono la premessa di un’antologia impertinente: “dongiovanni” e “casanova” non sono sinonimi. Il primo somiglia a un Weinstein più garbato, non meno infoiato ma senza derive potenzialmente moleste (il consenso della pulzella è d’obbligo). Il secondo è il libertino per antonomasia, l’amatore (o l’amatrice) che manifesta nell’ardore sessuale una precisa visione della vita. Egli è per natura irriducibile al potere del sovrano, allergico alla dogmatica, capace di sovvertire la morale in nome della suprema libertà d’amare. Se Don Giovanni è amorale perché vive nella totale assenza di princìpi morali, Casanova è immorale. Nel XVI secolo Calvino si scaglia in un opuscolo contro la setta “visionaria e delirante” dei libertini: il bersaglio della polemica calvinista non è una banda di rimorchiatori seriali ma la mentalità mistica, ed eterodossa, dei Libertini Spirituali. Don Giovanni è un ingannatore, un playboy incallito, uno che colleziona le proprie prede in un ludico automatismo menefreghista. Sotto sotto è un misogino, di certo è un lothario, un bulimico del sesso. Casanova, invece, è il libertino doc che pratica la lealtà: non manipola, non mente, egli le ama tutte non solo fisicamente ma anche spiritualmente, intellettualmente. A ciascuna riserva gentilezza e cortesia. Che siano maritate o incinte, nobildonne o lavandaie: non fa differenza.

 

Un libro curato da Cesare Catà: un’antologia impertinente che rende merito anche all’universo femminile del libertinismo

Se per Don Giovanni la donna è uno strumento del proprio piacere, per Casanova ogni comunione dei corpi non è mai soltanto un atto sessuale, un amplesso, ma include sempre una dimensione amorosa, sentimentale, legata all’intima conoscenza dell’altro. Nell’assolutezza dei sentimenti il libertino ricerca Dio: l’incontro con il divino non si compie nel sacrificio del Cristo ma nella contemplazione della bellezza cosmica, nel godimento del piacere terreno. Casanova non è meno vorace né seriale di Don Giovanni, ma le sue non sono mai conquiste effimere, ogni donna è attrice consapevole del proprio destino, sa che cosa potrà ottenere da lui e che cosa le sarà sempre precluso, a partire dall’esclusività. Chi nasce Casanova muore tale.

  

Il libertino è anche femmina. In tempi di #MeToo suona forse blasfemo ritrarre la donna come predatrice lussuriosa, insaziabile consumatrice di uomini, incarnazione d’istinti primordiali che divampano senza chiedere il permesso. La bramosia carnale è divenuta, di per sé, scabroso indizio di colpevolezza, con il risultato che conviene mostrarsi casti e compiti, socialmente irreprensibili, sessualmente sonnacchiosi se non disinteressati. E’ bene che le donne si sfoghino sul tapis roulant e gli uomini posino gli occhi soltanto sulle gambe dei tavoli. “Ho speso metà dei miei soldi tra belle donne, auto da corsa e alcool. L’altra metà l’ho sperperata”, firmato George Best, la meteora del calcio nordirlandese che conquista la Coppa dei campioni e il Pallone d’oro nel 1968, anno della rivoluzione sessuale e dell’amore libero. Soprannominato il “quinto Beatle” per il caschetto stile Liverpool, Best incarna lo spirito libertino del tempo, si muove con passo brasiliano sui campi di calcio e con impeto distruttivo consuma una carriera fulminea: la dipendenza dall’alcool e dagli eccessi, incluse le donne, trasformano un talento cristallino (“Maradona is good, Pelé is better, George best”) nell’icona contemporanea del libertino bello e dannato. Eppure, tornando al libertinismo rosa, il furor erotico della donna è ancora tabù nella società contemporanea. Nell’immaginario collettivo il libertino è maschio, non è bastata la serie tv “Sex and the City” per affermare la parità di genere tra le lenzuola.

 

La bramosia carnale è divenuta, di per sé, scabroso indizio di colpevolezza, con il risultato che conviene mostrarsi casti e compiti

E dire che già a cavallo tra l’anno che precede e quello che segue la nascita di Cristo, un femminista ante litteram come Ovidio, nei panni di praeceptor amoris, pubblica un poema didascalico dal titolo “Ars amatoria”, un compendio di consigli pratici rivolti alle donne sull’approccio, la conquista e la gestione delle avventure amorose: dal disprezzo per l’abbronzatura alle posizioni sessuali più strategiche in base alla corporatura di ciascuno; dai complimenti più gettonati alle frasi da non pronunciare mai onde scongiurare figuracce e pubblici scandali. Si apprende che è meglio diffidare del maschio narcisista: “Non vi dia alla testa chi sulla testa / porta troppa roba, di quelli che sono fissati/con i risvoltini dei propri pantaloni, non vi ingannino / un abito alla moda o sgargianti anelli sulle dita. / Spesso è un infingardo quello che, tra tutti, / è vestito meglio, e si è innamorato, più che di voi, / del vostro abito firmato”. A letto la donna “non si dia tregua di mugolii e sospiri sensuali / e non vi sia nei vostri giochi timore di dire termini impropri”. Nel rifiuto dell’obbedienza ai mores prevalenti, Ovidio ribalta il paradigma dell’epoca: non esiste un universo dogmatico e trascendente al quale l’amore debba conformarsi. Il tratto fondamentale del libertinismo, com’evidenzia Cesare Catà nel brillante saggio introduttivo, consiste nella “preminenza della libertà dell’amore a prescindere da qualsiasi chiesa, da qualsiasi precetto moralistico, da qualsiasi tradizione”. Ogni essere umano – uomo o donna che sia – ha diritto di raggiungere l’apice del soddisfacimento psicofisico. I precetti ovidiani non riguardano i metodi più efficaci per massimizzare il godimento maschile ma suggeriscono alle lettrici gli escamotage per vivere molteplici passioni sessuali con più uomini simultaneamente assicurandosi ogni volta che l’intercorso sessuale sia davvero gratificante per se stesse.

      

Nella Venezia del Cinquecento le gesta erotiche di Veronica Franco scandalizzano i benpensanti. Nei suoi versi la ricerca dell’assoluto

Nella Venezia del Cinquecento che, a distanza di due secoli, sarà teatro delle mirabilia di Casanova e, più tardi, di Lord Byron, le gesta erotiche di Veronica Franco scandalizzano i benpensanti. La “cortigiana onesta”, come si chiamano quelle d’intelletto per distinguerle dalle “cortigiane de lume”, decanta le proprie arti amatorie, celebrandole e pubblicizzandole. Dai versi di stampo petrarchesco trapela la ricerca mistica dell’assoluto, del divino, che si materializza nel corpo e nell’immanente piacere terreno. Quando la peste scoppia in città, l’Inquisizione la accusa di stregoneria, e lei, nel 1580, si difende da sola nel processo, pronuncia in prima persona l’arringa ed esce assolta. “Così dolce e gustevole divento, / quando mi trovo con persona in letto, / da cui amata e gradita mi sento, / che quel mio piacer vince ogni diletto, / sì che quel, che strettissimo parea, / nodo de l’altrui amor divien più stretto”.

   

Tra le campionesse del libertinismo rosa si staglia la figura di Aphra Behn, detta Eaffry, la “scrittrice-meretrice” per eccellenza. Sesso, omosessualità, impotenza maschile, violenza carnale: la penna di Astrea, il suo nom de plume, affronta temi scabrosi con l’ironia sferzante di una libertina doc. Nel poema “La delusione” racconta l’incontro bucolico tra il pastore Lisandro e la pastorella Cloris, con il primo che desidera ardentemente possedere la fanciulla ritrosa. “E ora, senza rispetto, senza alcun timore, / il suo essendo un amore che non ammette misura, / Lisandro cerca di strappare l’Oggetto dei suoi Voti, / avanza, avanza e palpeggia, e afferra / quell’altare dove agli dèi dell’Amore s’immola il sacrificio”. La scena, che potrebbe diventare preludio di uno stupro, si trasforma nell’occasione per una messa alla berlina del maschio impotente giacché, sul più bello, il pastore fa cilecca coprendosi di ridicolo. Come molte altre donne controcorrente, Aphra Behn subirà la damnatio memoriae fino ai tempi di Virginia Woolf.

 

Lord Byron è isolato da chi gli sta attorno. E’ lo sfacciato attentatore al bagaglio di valori e norme comuni. Le malinconie di Casanova

Londra, anno domini 1824. Il sole, stranamente, risplende nel cielo d’aprile, e quarantasette carrozze vuote, nere, listate a lutto, avanzano lentamente verso la chiesa di Maria Maddalena, a Hucknall Torkard. George Gordon Lord Byron è spirato. E il suo amare eversivo, il furor indecente che l’ha spinto tra le braccia di uomini e donne trasformano la tumulazione in una liberazione. Il corteo è muto: nessuno canta, nessuno prega. Lord Byron è odiato. “Non per le sue poesie ardite e innovative – scrive Catà – non per le sue posizioni politiche fuori dagli schemi, non per i debiti di famiglia che non aveva estinto, ma anzi ingrossato, non per il disdegno che mostrava per la stessa classe nobiliare cui egli appartenenza. Lo odiavano per come faceva l’amore. E per come pensava l’amore”. Da otto anni il liberale Lord Byron non è più ammesso, di fatto, alla Camera dei Lord, la sua è una presenza sgradita nel milieu che conta al punto che egli decide di auto-esiliarsi: prima, per lungo tempo, nella bella Italia; poi, per pochi mesi, nella Grecia fatale dove incontra la morte. Lord Byron è un eretico dell’eros, isolato da chi gli sta attorno. Gli indignati che marciano silenti verso la chiesa non sopportano di lui non tanto l’appetito sessuale né la propensione all’innamoramento fedifrago, quanto l’ostentazione disinibita di comportamenti “devianti” secondo i mores dell’epoca. Lord Byron è lo sfacciato attentatore al bagaglio di valori e norme comuni, è l’archetipo del dissoluto da demolire. Esattamente come il Don Giovanni (Don Juan) protagonista del suo poema più bello e scandaloso, accolto dalla critica come un testo osceno e oggi considerato unanimemente come la miglior opera concepita in lingua inglese tra il “Paradise lost” di Milton e il “Prelude” di Tennyson.

  

Al centro della fabula, cui s’ispira l’omonimo film con Marlon Brando e Johnny Depp, non c’è il porco infoiato ma l’amore “dolce e terribile” della donna. Primeggia la libido femminile, un universo di spasimi e ardori che Byron descrive con inusitata perizia. Nel poema byroniano le donne non sono prede inermi, in balia dell’impeto maschile, ma si rivelano invece abili seduttrici, fameliche compagne di alcova, e in questo c’è la macroscopica rottura di un tabù culturale. Don Juan s’innamora, giovanissimo, dell’amica di sua madre, Donna Giulia, antesignana delle cougar contemporanee. Poi si dedica alle orge con le ancelle, non disdegna i flirt omosessuali, fugge con una ragazza musulmana di nome Leila, cede alle lusinghe della zarina Caterina II di Russia al punto di diventarne amante… Che siano nobildonne o povere disgraziate, Don Giovanni concepisce il sesso come una livella che annulla il divario sociale. La passione con Haidée, figlia del pirata Lambro e orfana di madre, è lieve e idilliaca, i due insieme sono dimentichi del mondo. “Era il momento. Sulle sponde solitarie intersecarono / i loro cuori in un ermetico patto. Ebbero stelle / per fiaccole nuziali, bella luce sulla loro bellezza, / per testimone l’oceano, e la loro grotta quale camera da letto, / benedetti e congiunti dal loro sentimento. / A far da prete fu la Solitudine, che li dichiarò marito e moglie”.

   

Praga, 29 ottobre 1787. Al Teatro degli Stati va in scena la prima dell’opera buffa di Mozart dal titolo “Don Giovanni”. In platea siede l’uomo che ha ispirato Lorenzo Da Ponte per la figura del Burlador con una passione sfrenata per il gentil sesso. Lo spettatore speciale è un veneziano, sulla sessantina, dai capelli canuti e gli occhi ancora brillanti sul volto rugoso. Al termine della messinscena, mentre il pubblico applaude, l’uomo scivola via, con un velo di malinconia. Rientrato al castello di Waldstein, dove non lo attende nessuno se non i volumi della sontuosa biblioteca che cura per il conte di cui è ospite, quella notte il vecchio sorride, nostalgico. Passa in rassegna le innumerevoli donne della sua vita. Troppe per ricordarle tutte. Chissà perché gli sono cadute ai piedi, in fondo lui non era poi così bello. La ragione è forse da ricercare altrove: nulla affascina più dell’accorgersi di essere adorati. E lui le ha adorate tutte. Lui le ha amate tutte. “Essendomi nato per il bel sesso, l’ho sempre amato e mi sono fatto amare più che ho potuto”, parola di Giacomo Casanova.

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