Il pensiero non è così debole
Vattimo demolisce gli idoli della modernità, ma sa essere lieve nella sua filosofia dell’arte e della religione
"I Buddenbrook", il romanzo capolavoro di Thomas Mann, narra le vicende di una famiglia borghese mercantile di Lubecca, per un arco di tempo tra il 1835 e il 1877 e attraverso quattro generazioni. La famiglia passerà da momenti di floridezza ad altri di dissesto, fino alla definitiva rovina. Alla severa etica luterana degli inizi subentrano progressivamente un’inquietudine e inerzia che emergeranno nella fragilità décadent dell’ultimo rampollo, Hanno, appassionato della musica di Wagner. E sarà, se non il Götterdämmerung, il Crepuscolo della famiglia.
La coscienza infelice del borghese, che vive nella lacerazione dell’incertezza del tempo, la sua sorte legata al rischio
Il libro è esemplare, ci fa capire che la borghesia è il ceto sociale che in quanto tale, per così dire, scorre nel tempo: lo scandirsi del tempo ne condiziona l’esistenza. L’aristocrazia è insediata nell’eterno, semmai guarda al passato, a quelle origini fondanti, radici di un albero spesso mitico, che ne illustrano le pretese, non giustificate da una attività economico-produttiva (l’aristocrazia è essenzialmente réntier), ma solo dal diritto divino. Sul lato opposto, il proletariato, nell’interpretazione marxiana – la predominante – aspira ad annullare il tempo, nella deterministica fiducia – profetizzata da Marx, disattesa da Lenin – nella fine della storia dopo la sua presa del potere con conseguente fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e nell’appropriazione del progresso, che conclude definitivamente il suo percorso. Il proletariato marxiano segnerà, con la sua vittoria, la fine del tempo e il fine della storia.
Il tempo è invece coessenziale alla borghesia imprenditoriale e produttiva. Perché? Perché i suoi guadagni, i suoi profitti, nascono dall’interesse, e l’interesse è la somma dovuta come compenso per ottenere la disponibilità di un capitale per un certo periodo di tempo. Il tempo dell’agricoltura è ciclico, ma di per sé non determina il profitto, il rendimento della terra è, di anno in anno, di stagione in stagione, sempre lo stesso. Il borghese invece investe il denaro nella “scommessa” (l’“assicurazione” è una scommessa) che, a una determinata scadenza, il suo denaro gli ritornerà, moltiplicato. Questo tipo di profitto si verificava anche in altre epoche, ma era guardato con sospetto. La chiesa non riusciva ad accettare il concetto che il solo scorrere del tempo possa portare un profitto, aborriva da questa idea. Poteva addirittura essere considerata un peccato, accettabile solo da chi, già di per sé, non potesse aspirare alla salvezza eterna, cioè l’ebreo.
Nel mondo pagano il tempo si concludeva, post-mortem, in un Ade grigio, pallido e spento, l’anima (l’“animula vagula blandula” dell’imperatore Adriano) poteva riacquistare una momentanea vitalità solo abbeverandosi del sangue della vittima a lei sacrificata. Per il cristiano, invece, lo scorrere del tempo porterà, post mortem, a un avvicinamento dell’anima a Dio nell’attesa della Resurrezione: lo scorrere del tempo è ora sotto l’insegna della speranza, è positivo.
Uno spietato cecchino ideologico delle “pretese delle leggi economiche”, dei governi tecnici che si autoproclamano neutrali
Il borghese vive in una analoga attesa, sa che l’attesa è lucrosa, portatrice di rischio ma anche di guadagno. Dovrebbe dunque sorridere fiducioso al domani; invece è triste portatore di una “coscienza infelice”. Hegel analizza il tema della ”coscienza infelice” nella sua “Fenomenologia dello spirito”, avendo come riferimento storico/metafisico le religioni giudaica e cristiana: in tali condizioni la coscienza si sdoppia in una coscienza mutevole, che appartiene all’al di qua e appare all’uomo come inessenziale, caduca, priva di valore, e una immutabile, attributo di Dio. La sua speranza è tutta rivolta al trascendente, ma è “senza compimento”, perché l’al di là è “irraggiungibile”, qualcosa che “nel raggiungimento sfugge o piuttosto è già sfuggito”. Il rapporto della coscienza con l’immutabile, con il trascendente, è quindi un rapporto infelice, che nasconde una lacerazione, una scissione nella coscienza stessa. Hegel attribuisce questa peculiarità al mondo religioso ebraico-cristiano, ma personalmente sono convinto che riesca a concepirla proprio in quanto borghese, partecipe della lacerazione della coscienza vissuta dal borghese. Il quale vive nella lacerazione dell’incertezza del tempo, la sua sorte è precariamente legata al rischio, lui non ha una legittimazione analoga a quella dell’aristocrazia, la certezza metafisica dell’esistenza di Dio (noumeno) è scomparsa, tutto diventa precario, fenomeno, apparenza, l’insicurezza è d’obbligo. Il borghese dubiterà anche di se stesso. “Cogito ergo sum”: io sono esclusivamente perché penso, non ho altre certezze, la mia non può essere che una coscienza “infelice”. L’età borghese è tutta un dubitare, un interrogarsi. Dubita persino di quella “ragione” che pure è la sua massima conquista storica.
Qualche distinzione occorre però farla. Nell’Inghilterra culla della cultura dell’interesse, del rischio, l’insicurezza è sentita come fattore positivo. Il progresso è nel rischio, un fattore – in definitiva – “probabilisticamente” calcolabile. E’ nelle culture e nelle filosofie continentali – molto colbertiane o comunque poco amanti del rischio e del suo calcolo empirico – che l’incertezza è fonte di pessimismo. Nel Novecento l’autoflagellazione giunge al parossismo. “Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo”. Con queste parole si apre “La crisi della civiltà” (1919) di Johann Huizinga, denuncia delle tragedie che il Novecento avrebbe affrontato. Huizinga mantiene però ferma la fiducia in una prospettiva europea e internazionalista capace di coniugare la conquista di istanze morali e sociali al mantenimento di saldi e tradizionali principi liberali.
Huizinga fu inascoltato. Intorno a lui, dopo di lui, fiorirono pensatori negativi, quando non apocalittici. “Quando sorse, negli anni Venti, la teoria critica si era ispirata all’idea di una società migliore; aveva un atteggiamento critico verso la società, e altrettanto critico nei confronti della scienza […] speravamo sarebbe giunto il tempo in cui questa società avrebbe potuto essere realizzata in vista del bene di tutti […]. Il cammino della società che infine cominciammo a vedere, e quale oggi lo giudichiamo, è completamente diverso…”. Così Max Horkheimer sancisce la conclusione di un’esperienza di prim’ordine nel panorama europeo, quella Scuola di Francoforte che ebbe come maestri, oltre ad Horkheimer, Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse.
Da allora molto è cambiato. La borghesia nella sua forma classica è sparita, come del resto gli altri due ceti storici, l’aristocrazia e il proletariato. Al loro posto è subentrata la “società fluida”, una società globalizzata di indistinti proletari/piccoloborghesi. E’ sparita la coscienza ” infelice” – ma consapevole – del borghese, l’orizzonte è ora occupato da una sorta di universale “infelicità senza coscienza”, sottoposta, schiavizzata e violentata da un capitalismo digitalizzato, robotizzato e anonimo. Rispetto all’era del capitalismo classico, l’infelicità senza coscienza e il capitalismo robotizzato globale hanno ingigantito a dismisura le disuguaglianze, le violenze, l’avidità del potere e le sofferenze. Il nichilismo trionfa. E il massimo esponente del nichilismo in cui finisce con lo sprofondare il pessimismo di Huizinga è indubbiamente Heidegger, fascinoso, oscuro e responsabile di vaste propaggini intellettuali. Tra le quali, con l’intermediazione di Hans Gadamer, c’è Gianni Vattimo: “La filosofia non ha a che fare con fatti, bensì con interpretazioni: la realtà di cui parla è la Wirklichkeit, ciò che produce Wirkungen, cioè effetti su soggetti, mai eventi astratti misurati geometricamente”… “La verità è ciò che rende liberi”.
L’età borghese è tutta un dubitare, un interrogarsi. Dubita persino di quella “ragione” che pure è la sua massima conquista storica
A Vattimo, docente di filosofia, saggista e polemista agguerrito, la cultura deve molte cose importanti, ma la sua rinomanza forse è dovuta a una succinta formula – cui ha arriso un successo incredibile – che definisce buona parte del pensiero contemporaneo, e ovviamente il suo, come “pensiero debole”. In una recente intervista al Corriere, Vattimo lo definisce come “un pensiero capace di articolarsi nella mezza luce”… “i problemi di cui soffriamo sono legati alla dogmatizzazione”… “Thasky diceva: ‘piove’ è vero se, e solo se, piove”. Il pensiero come ermeneutica categorica insomma non si occupa di “fatti” – Vattimo ce ne ha avvertito – ma di “interpretazioni”. Incontrai Vattimo per la prima volta al convegno “Teoria e prassi del Partito Radicale” dell’aprile 1978. Quale altre forza politica può dire di aver posto come suo metodo interpretativo e di iniziativa lo sperimentalismo, la verifica continua, il flessibile pragmatismo al posto delle antiche, cristallizzate formule ideologiche o religiose delle altre forze e formazioni politiche? Questa, se non una teoria filosofica, non è una “ermeneutica” della prassi? E invece Vattimo si è fatto via via interprete e paladino di soggetti politici che professano un pensiero più che forte: utopico e, insieme, cristallizzato (come ogni pensiero utopico).
Il suo ultimo libro, “Essere e dintorni” (La Nave di Teseo, 422 pp., 22 euro), è una raccolta di conferenze, lezioni, seminari, convegni, “inviti qui e là”, uniti però da “un filo conduttore… ben saldamente unitario”. Proprio per questo è una eccellente introduzione, o guida, al suo pensiero. Vattimo vi prende a bersaglio, vi ironizza e vi demolisce gli “idola” della modernità e della società capitalista nella sua forma globalizzata, in una schermaglia continua, efficacissima. Nulla si salva. “L’esigenza di certezze sicure e indubitabili… è imposta dalle auctoritates”, si tratti degli insegnamenti del “papa di Roma” o delle “pretese delle leggi economiche e in generale dei valori a cui la politica dovrebbe ispirarsi”. Per esempio, le pretese di una democrazia che voglia “imporsi in tutto il mondo attraverso le guerre, anche in violazione degli ordinamenti dei popoli” , magari per “abbattere i dittatori (Gheddafi, Assad): bisogna stare molto attenti, iniziative del genere si presentano avvolte in un’aura di sacralità” spesso utilizzata “per coprire l’imposizione ideologica degli interessi di determinati gruppi”. Lo stesso dicasi per le “leggi economiche, che si presentano spesso come oggettive, cioè naturali come la legge di gravità, e come il risultato di ricerche ‘scientifiche’ da parte di soggetti apparentemente neutrali…”. Questo bisogno di oggettività “metafisica” non è nuovo, “la sua storia corrisponde a quella dell’umanità, o almeno a quella dell’homo sapiens, dell’homo politicus che vive in società e che ha di fronte relazioni di potere. L’animale mitologico delle foreste, se mai è esistito, nell’età del bellum omnium contra omnes non aveva bisogno di metafisica per legittimare le proprie pretese di potere…”. Siamo di fronte alla trascrizione filosofica della sequenza iniziale del film di Kubrick “2001. Odissea nello spazio”, con gli scimmioni subumani che, grazie alla “metafisica” che si presenta loro come misterioso monolite caduto dal cielo, scoprono la potenza distruttiva, ma finalmente umana, delle primordiali clave ricavate da ossa di animali. Per fortuna, da questa critica nietzschianamente oltranzista Vattimo salva le leggi di gravità di Galileo e Newton, evidentemente non influenzati da dannose “auctoritates”.
Vattimo si è fatto via via interprete e paladino di soggetti politici che professano un pensiero più che forte: utopico e, insieme, cristallizzato
Vattimo è uno spietato cecchino ideologico, un interprete scevro di dubbi nella condanna per quella modernità di cui si è addobbato il capitalismo, con la sua religione del profitto. “Oggi gli scienziati si servono di macchine e laboratori costosi ed elaborati, che li obbligano a cercare finanziamenti pubblici o privati a cui rendere conto…”, ecc. E tale certezza apodittica viene confermata quando, ricordando una affermazione di Heidegger per il quale “la vera emergenza nella nostra situazione è la mancanza di emergenza”, cioè di “opposizione”, Vattimo arriva a sostenere che nel nostro tempo ogni forma di opposizione è “scomparsa”, perché “in ogni paese” viene richiesto “di adeguarsi a una serie di prescrizioni dettate da economisti che si pretendono puri tecnici”, livellando le sorti del globo alla condizione – lamentata dal Marcuse degli anni Sessanta – dell’“uomo a una dimensione”. Anche l’Italia soffre di questa anomalia dei governi “tecnici” autoproclamantisi neutrali, una anomalia a suo tempo favorita o prodotta, sostiene Vattimo, da una decisione “sostanzialmente autocratica” dell’ex presidente della Repubblica Napolitano (“di provenienza comunista” ma “da molti anni schierato su posizioni di moderatismo atlantico”) che convince Silvio Berlusconi a dimettersi promettendogli “probabilmente” la “cancellazione dei suoi numerosi processi”, e chiama al governo un professore di economia, Mario Monti, “fondamentalmente legato alle grandi banche internazionali”.
Ciò che rende il libro, nonostante le sue premesse ideologiche, leggibile e persino utile è la scioltezza e leggerezza con cui l’autore si muove nell’analisi di fenomenologie specifiche di quel mondo che pur sembra, a priori, condannare: si scorrano, per esempio, le considerazioni sull’arte, molto flessibili e aperte anche di fronte a problematiche scottanti e controverse, quali il rapporto tra arte e mercato o la tendenza dell’arte contemporanea allo sfondamento e superamento dei “confini” (le distinzioni crociane…) tra le diverse forme espressive; oppure le riflessioni sul fenomeno religioso, pur letto a partire dall’esperienza europea o, meglio, da quella “filosofia della religione” che è “disciplina” europea, occidentale, senza la quale “il fatto stesso” di chiamare religioni certe lontane esperienze socioculturali non sarebbe stato possibile (lo stesso può dirsi per certe espressioni culturali “dei popoli primitivi” che gli europei definirono senz’altro come opere “d’arte” assimilandole ai propri criteri e gusti). Quando si addentra in queste tematiche Vattimo mette proficuamente in atto le sue tesi sul “pensiero debole”, i suoi ragionamenti e giudizi si fanno largamente condivisibili.
Intervista a Gabriele Lavia