“Mi sembravano già vecchi i Rolling Stones, ma Mick Jagger cantava con forza e ironia, aveva questo corpo magro e nervoso: un corpo così resiste a tutto, anche alle delusioni amorose” (foto LaPresse)

Il corpo sociale è imperfetto. Proprio come il mio

Antonio Pascale

Fare i conti con la mezza età, iscriversi a una palestra e ripensare agli anni 80, quando l’Italia si divideva tra chi era rimasto ai cupi 70 e chi si proiettava nel futuro. Un memoir per capire che cosa è andato storto

Nel settembre del 1982, per combattere una delusione d’amore, mi iscrissi in palestra. Avevo 16 anni. All’inizio del 2018, per combattere un’angoscia crescente ho pensato di costruirmi un corpo perfetto in 90 giorni: ho 52 anni.

 

Il fatto è che nel 1982, nonostante la delusione sentimentale, che, appunto, mi procurava dolore e disperazione, sentivo il tempo dalla mia parte. Dopo i famosi Mondiali (e nonostante avessi tre materie a settembre, tra cui inglese) andai a Cambridge, ospite di miei zii emigrati. Fu una vacanza spassosa, non ricordo nemmeno quanti dischi comprai. Tanti – degli Who, Led Zeppelin, Cream e diversi altri – ma uno davvero mi condizionò negli anni a venire: “Still Life” dei Rolling Stones.

 

In palestra, a 16 anni, per combattere una delusione d’amore. Quest’anno per costruirmi un corpo perfetto in 90 giorni

C’era quella canzone, “Time Is on My Side” (di Jerry Ragovoy, ripresa poi dagli Stones). Mi sembravano già vecchi i Rolling Stones, e certo, avevano 40 e passa anni, ma Mick Jagger cantava con forza e ironia, ostentava sicurezza e poi (avrei visto nel primo video del concerto trasmesso dal programma “Mister Fantasy”) aveva questo corpo magro e nervoso, atletico: un corpo così resiste a tutto, figuriamoci alle delusioni d’amore. Se avessi lavorato sodo in palestra quel (mio) corpo sofferente sarebbe potuto risorgere dalla proprie ceneri, più muscoli significava maggiore autostima, maggiore autostima minor dolore: il tempo doveva essere dalla mia parte.

 

Ora, invece, nel 2018, io e il tempo abbiamo litigato, e da qui, credo, l’angoscia. Per contrastare la suddetta mi sono messo a dieta e iscritto in palestra. Ha funzionato a 16 anni, perché non a 52? Certo, è una di quelle prove che impongono obiettivi e regole. A gennaio del 2018 pesavo 73 chili, la circonferenza addominale andava oltre i 98 cm, stavo in zona rischio, la pancia si notava, eccome se si notava (alcune foto prese a tradimento erano impietose) guardavo con invidia mio figlio, tonico e asciutto, cominciavo a cercare su YouTube i tutorial: tutti quei ragazzi con gli addominali scolpiti, e comparando loro a me sentivo che il tempo non era più dalla mia parte, invecchiavo, ingrassavo, scrivevo poco e insomma come si dice: ero fuori dal giro (oltre che dal girovita).

 

Negli anni ho provato vari tipi di diete, funzionano tutte e nello stesso tempo falliscono tutte. Funzionano tutte perché perdi peso e falliscono tutte perché riprendi peso. Siccome mi vanto di essere un tipo scientifico, dopo aver consultato la letteratura in materia (alcuni studi a leggerli bene sono indicativi della difficoltà delle diete, dai, non combatti contro la fame ma contro l’evoluzione, ovvero contro il lungo processo evolutivo che ha plasmato il tuo metabolismo), insomma ho pensato di procedere con una restrizione calorica. Anche perché, a proposito di scienza, di recente due ricerche hanno portato nuovi elementi a favore della restrizione calorica. Da una parte gli studi in questo ambito proseguono ormai da decenni – e sono al centro di un dibattito molto ampio e articolato – ma sono basati quasi esclusivamente su test di laboratorio con animali di vario tipo (dai vermi ai topi), immaginando che gli stessi effetti possano essere riscontrati anche negli esseri umani. Questi due nuovi studi però hanno coinvolto in un caso alcuni primati e in un altro un gruppo di volontari, e qualche conferma sui benefici della restrizione calorica è arrivata e insomma mi sono convinto.

 

Ho provato vari tipi di diete: funzionano tutte e nello stesso tempo falliscono tutte, perché perdi peso ma poi lo riprendi

E poi esercizi, plank (tutti parlano del plank e dei muscoli del core e di come sia efficace contro il mal di schiena ecc.), anzi, per la precisione, in tre mesi, ho eseguito nove variazioni di plank, che all’inizio volevo sperimentare ascoltando Glenn Gould e le sue “Variazioni Goldberg”, quasi come se fossi un monaco concentrato sulla musica e sulla meditazione, ma che ho lasciato perdere dopo i primi immediati, dolorosi tormenti fisici e le varie maledizioni lanciate contro me stesso (chi me l’ha fatto fare, stavo così bene ecc.). Quello che in realtà ho capito, quasi subito, è che il corpo accusa il colpo. Nel senso che conserva la memoria del dolore e dei traumi. Così, plank dopo plank, restrizione calorica dopo restrizione, ho cominciato a rivedere e sognare e desiderare la ragazza che a 16 anni mi spezzò il cuore, Valentina. Il suo corpo minuto, snello, e tuttavia morbido, molto elegante. Timida, silenziosa, a volte accondiscendente (ed estremamente eccitante), ma che poi mi aveva lasciato, in maniera molto risoluta (quasi rabbiosa) e per me inaspettata (non era così accondiscendente), per un altro – uno che non ho mai visto e dunque è diventato uno spettro che ancora oggi mi tormenta. Dopo Valentina ho poi cominciato a sentire fisicamente (e non per via della fatica e della restrizione calorica) quel senso di frustrazione, l’angoscia, la bassa autostima che caratterizza ogni abbandono. Sono tornato infine agli anni 80, e sì, uscivo di casa e non mi trovavo o perlomeno non mi sentivo a Roma, nel 2018, a via di Donna Olimpia, ma a Caserta, provincia, bar, motorino, scuola, fughe, impreparato sul registro, trucchi per non essere chiamato alla cattedra, l’allora pentapartito, i missili a Comiso, Craxi e Sigonella, De Mita e Andreotti. Vivevo proprio in quegli anni, fiorivano immagini e scene, musiche, amicizie, viaggi e riflessioni, e Valentina naturalmente.

 

Del resto, gli anni 80, sono o non sono stati il decennio durante il quale è cambiato non solo il mio corpo (questo conta poco) ma anche quello sociale, politico, economico e finanziario? Anni nei quali l’angoscia accumulata per via dei cupi 70 si è sciolta? I morti per strada, le fazioni in lotta senza esclusione di colpi, un certo localismo culturale, la rigidità ideologica, ecco insomma, questo complesso di cose è venuto meno? 

 

Un po’ di conti – mi dicevo per distrarmi dalla fame imposta dalla restrizione calorica. Alla fine delle guerre napoleoniche, il mondo ospitava un miliardo di persone, i ricchi erano solo il 15 per cento, i poveri e analfabeti la parte restante. Cosa poteva fare questo enorme corpo sociale se non pregare e sperare nell’aldilà? Nel 1985 eravamo cinque miliardi e i numeri dicevano che (non solo in occidente) un nuovo ed esteso corpo sociale, più benestante, alfabetizzato, in buona salute, con meno figli, con più speranze e ambizioni pratiche (e meno problemi teologici) chiedeva rappresentanza, voleva esserci, eccome se voleva esserci, ottenere spazio e visibilità, il suo posto al sole.

 

Un nuovo ed esteso corpo sociale, più benestante, alfabetizzato, in buona salute, voleva ottenere spazio e visibilità

Lo strumento era proprio il corpo. Certo, il mio corpo nel 1982 non era così in forma, anzi stavo soffrendo. Per questo andai in palestra, cercando istintivamente una sorta di chiodo scaccia chiodo (il dolore per le flessioni scacciava quello suscitato dall’abbandono), ma in fondo, insieme a me un intero e nuovo ceto sociale fino a quel momento sofferente si iscrisse in palestra, metaforicamente parlando, e cominciò a lavorare o a pompare i propri muscoli.

 

A Caserta, la prima palestra di culturismo aprì proprio all’inizio degli anni 80. Era gestita da Bruno Dell’Aquila, allora campione italiano di culturismo, e una vera icona per gli intenditori – alcuni gay che si muovevano, in verità, ancora nascosti e guardinghi in città, al calar della sera.

 

Dell’Aquila accoglieva noi ragazzi con sagge citazioni, sì, forse non troppo originali: “Un giorno ti sveglierai e non ci sarà più tempo di fare le cose che hai sempre sognato… falle adesso” e tuttavia, a parte che io soffrivo e non volevo sprecare il mio tempo, quindi non mi sembravano citazioni così banali, in tanti ci credevano negli anni 80: fallo adesso e non limitarti a sognare.

 


“Ancora 15 giorni di pena e ce l’avrei fatta: tonicità e tartarughe e con un corpo nuovo avrei affrontato l’angoscia crescente” 


 

Il tempo è dalla tua parte, diventò una specie di mantra. Venivamo dagli anni 70.

 

Conservo delle foto di quegli anni. Davvero, non riesco a guardarle. Non ci vestivamo, no, indossavamo delle cose, rese ancora più brutte dal bianco e nero. Maglioni slabbrati, quelle giacche da becchino, grigio impiegatizio, niente brand. I più in gamba di noi, quelli con un senso estetico più raffinato al massimo si spingevano fino a Forcella per comprare di contrabbando dei presunti Levis 501: originali, dicevano loro. E anche se già dal primo gennaio del 1980 si cominciò a parlare di riflusso e a rimpiangere gli anni 70, il decennio portò novità, globalizzazione e perlomeno un po’ di colore.

 

Conservo delle foto degli anni 70. Non ci vestivamo, no, indossavamo delle cose, rese ancora più brutte dal bianco e nero

Fu il decennio dell’allenamento (al nuovo) ma anche soprattutto della separazione: tra chi rimase negli anni 70 e chi si proiettava nel futuro. A proposito di futuro politico. Nel 1986, a vent’anni appena compiuti mi iscrissi a Democrazia proletaria. Ero eccitato per l’esperienza. Ebbene, alla prima riunione, il caposezione disse che la sinistra doveva ricominciare. Da dove? Boh. Diciamo doveva riprendere in mano strumenti e metodologie di lotta comuni nel decennio ’68-’77. Insomma, nemmeno iniziavo e già dovevo ricominciare dal passato, appoggiare i piedi su un blocco di partenza a me sconosciuto. Pensate come accolgo bene quei discorsi odierni che riflettendo sulla crisi della sinistra dicono: la sinistra deve ricominciare.

 

Bene, torniamo a noi. Metaforicamente parlando, gli anni 80 furono proprio gli anni della palestra, delle piccole e grandi modificazioni del corpo, personale e sociale. La modificazione portò con sé un principio di separazione. Il corpo sociale si divise: tra quelli che non si distinguevano nelle foto scolastiche, tanto erano informi e quelli che dopo sei mesi passati in palestra, si mettevano in posa e flettevano i muscoli. In sintesi, tra quelli che sognavano in bianco e nero e quelli che volevano il colore.

 

Questioni politico-culturali, vecchi schemi e mancato allenamento al nuovo. Non per niente, in un dibattito a distanza tra Berlinguer e l’allora segretario del Partito socialista, Craxi, il primo accusò pubblicamente il secondo di essere un giocatore d’azzardo e il secondo, pare, abbia detto, ma privatamente, ai suoi: “Quello non ha nemmeno la televisione a colori”.

 

Fatto sta che il quartiere dove abitavo fu un esempio della suddetta modificazione e separazione. La successione di strade a sviluppo ortogonale che formava un quadrato con lati di 600 metri costituiva il tipico quartiere casertano impiegatizio. Negli anni 70 significava universalità di gesti e comportamenti. La somiglianza tra le persone del quartiere era verificabile attraverso gli orari di lavoro – in effetti si usciva e si rientrava alla stessa ora, dunque il quartiere si gonfiava e si sgonfiava a ritmi regolari, come un mantice. Ma non solo: quello che accomunava tutti erano le ambizioni e le idee. Eravamo parchi, misurati e spesso mesti, come una domenica piovosa. Le vanterie, le spacconate, erano immediatamente registrate, commentate, e catalogate sotto la voce “azzardo pericoloso”.

 

Ma Bruno Dell’Aquila stava arrivando, i Rolling Stones cantavano a 40 anni di età il tempo è dalla mia parte. In verità, qualcuno parlava (e molto prima degli anni 80) non di cambiamento ma di omologazione.

 

Prendete il famoso saggio corsaro di Pasolini contro la televisione, era il 9 dicembre 1973. Il modello consumistico, che PPP chiamava Centro, aveva pian piano allargato il proprio raggio d’azione, fino a inglobare la stragrande maggioranza degli italiani: “Il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza”. Articolo non privo di interesse. C’era una volta l’Italia, contadina, originale, ricca di culture che ora si andava omologando, anche per colpa della tv. Va bene, ma cosa davano alla tv il 9 dicembre del 1973 di così devastante? E insomma, meno male che c’è il Radiocorriere online. Due canali televisivi. Su Rai uno, alle 11 la santa messa, poi “A come Agricoltura”, poi “Canzonissima Anteprima”, il telegiornale, “Oggi le comiche” e siamo alle 14.30, quindi uno sceneggiato televisivo, “D’Artagnan”, “Canzonissima” (Pippo Baudo con Mita Medici), sintesi di un tempo partita calcio, telegiornale, Carosello (fine, per me), poi terza puntata di “Eleonora”, sceneggiato sulla scapigliatura milanese.

 

Nell’86 mi iscrissi a Democrazia proletaria. Alla prima riunione, il caposezione disse (anche allora) che la sinistra doveva ricominciare

E sul secondo? Si cominciava alle 11 con la sintesi di avvenimenti sportivi, poi Tv dei ragazzi, alle 20 “Il poeta e il contadino” con Cochi e Renato e si finiva con “Racconti italiani”. Pasolini se la prendeva con quella televisione che oggi definiremmo di qualità, aveva davvero capito la portata del cambiamento o lo temeva e basta?

 

Ora, riguardando indietro (e considerando le sfumature storiche) mi sembra che negli anni 70 ci fosse un’Italia in bianco e nero, molto omologata (chiesa e partiti erano i grandi educatori e imponevano dei canoni culturali) e tanto provinciale, un corpo addolorato, forse per via di quella fame contadina, delle delusioni, delle religioni e di un certo pensiero mesto e crepuscolare che impediva e combatteva ogni salto in avanti – per essere precisi, dei quattro miliardi di persone che popolavano il globo il 50 per cento era in estrema povertà, l’altro 50 per cento ne era uscito o si avviava a farlo.

 

Vita facile per gli intellettuali. Diciamo che tenevano a bada le fughe (culturali) in avanti (omologazioni), un po’ come i preti tendono a controllare i peccati di carne. Questa mestizia si è dissolta a partire dagli anni 80. Il mondo, quasi cinque miliardi di persone, stava sperimentando nuove modalità di produzione. Che, ci piacessero o no, stavano cambiando le carte in gioco.
La prima avvisaglia del nuovo mondo, almeno nel mio quartiere, fu rappresentata da Capodistria: alla televisione abbiamo cominciato a vedere qualcosa di nuovo oltre le frequenze note. Ci furono, cioè, quelli di noi che cominciarono a montare sul tetto l’antenna, allora molto particolare, per potere ricevere le frequenze di Capodistria. Il motivo era molto semplice: film soft core a tarda notte. Erano dei pionieri. Non solo nel campo dell’elettrotecnica. A breve sarebbero diventati quelli della diaspora del quartiere. Voglio dire, l’antenna per ricevere Capodistria altro non era che la griglia di partenza della globalizzazione. Fuori dalle vecchie frequenze note batte un mondo nuovo e un nuovo ritmo. Vai in palestra, allenati, scaccia via quel tempo passato e quel dolore e lo potrai vivere, nuove frequenze nuova vita. Lo diceva anche Bruno Dell’Aquila.

 

Ecco, durante gli anni 80 il mio quartiere si divise tra quelli che vedevano Capodistria e quelli che erano rimasti sulle frequenze Rai. I primi hanno cominciato a modificare il corpo sociale, antropologico, culturale e politico.

 

Eppure, all’inizio quelli di noi che ancora non ricevevano Capodistria non gli avrebbero dato un lira. Sinceramente parlando, gli antennisti erano uomini considerati un po’ rozzi, usavano dei profumi troppo forti, di quelli che lasciavano una scia lunga, da un marciapiede all’altro, non leggevano mai un libro, a stento sfogliavano la Settimana enigmistica, ma solo d’estate e riducendo tutto l’impegno ai cruciverba facilitati. Per non parlare del senso dell’umorismo, spesso greve. Raccontavano barzellette, di continuo. Erano nevrotici e non poco, nemmeno dormivano la notte, un po’ perché guardavano i soft core un po’ perché, dicevano in giro, avevano un sacco di pensieri in testa.

 

Davvero credevamo che i pensieri notturni degli antennisti potessero portare un miglioramento delle condizioni di status? Parliamoci chiaro, ci dicevamo tra noi: quelli sono uomini un po’ cafoni che indossano il pareo sulla spiaggia. Ma dove si è visto mai? Ma dove vogliono andare? Che strada può fare un uomo che si cambia il costume bagnato sulla spiaggia, indossando il pareo? Chi credono di essere? Non passò molto e Bettino Craxi si fece fotografare sulla spiaggia di Hammamet con il pareo – e tra l’altro cominciarono a circolare voci che anche Craxi si cambiasse il costume in spiaggia, avvolto appunto dal pareo o da un asciugamano.

 

Nel mio quartiere il vecchio e parco, religioso ceto medio si divise, da una parte le case in bianco e nero, dall’altra le colorate ville in collina

Del resto, ormai è noto, Craxi è stato il primo politico italiano a offrire una diversa rappresentazione del corpo – personale, prima che sociale e politico. Il corpo democristiano, fino agli anni 80 ancora imperante, era misterioso, costantemente coperto da divise d’ordinanza. Craxi, milanese alto un metro e novanta, vestiva senza seguire nessun consiglio dettato dell’allora pur nascente industria della moda. Indossava, invece, un giubbotto di pelle e usava di frequente semplici jeans. E’ stato il primo politico a evidenziare la canottiera, o meglio, la maglia della salute, portata sotto le camicie bianche. Si può considerare a tutti gli effetti un pioniere. L’effetto culturale del nuovo corpo, all’epoca fu così dirompente che né la canottiera di Bossi sfoggiata nel 1994 in occasione dell’incontro di pace con Berlusconi né la bandana di Berlusconi indossata nel 2006, nella storica passeggiata in compagnia di Blair e consorte, sono riuscite a offuscare.

 

L’attrice Sandro Milo, per esempio, in un’intervista sul canale History Channel, per la serie “Storia proibita degli anni 80”, ricorda l’effetto seduttivo e inebriante che aveva sulle donne il corpo di Craxi, il torace possente, spesso bene in vista. L’aria dell’uomo sicuro di sé, a cui si perdonava tutto, anche l’arroganza e lo sguardo sfuggente. Quando il 16 giugno 1983 il comico Benigni, durante la Festa dell’Unità, sollevò Enrico Berlinguer, segretario del Pci, i due corpi piccoli, magri, con costole sporgenti e scapole alate, che evocavano povertà e cattiva alimentazione, sembrarono distanti anni luce da quelli che con più forza seduttiva cominciavano a calcare le scena politica.

 

Gli antennisti quindi divennero da un giorno all’altro uomini interessanti. Con un sacco di idee. Certo non ben definite, ma quello che davvero contava non era il valore dell’idea ma la confezione. La confezione era sostenuta dal colore e dall’ottimismo. In effetti, gli antennisti spargevano ottimismo come la scia di profumo.

 

Negli anni 80 ci siamo arricchiti, ma la separazione si è incancrenita: di qua gli “antennisti”, di là quelli delle frequenze ordinarie

Alcuni di loro si arricchirono e nel mio quartiere il vecchio e parco, mesto, religioso ceto medio si divise, da una parte le case in bianco e nero, dall’altra le colorate ville in collina, da una parte quelli che ancora ricevevano frequenze (televisive e radiofoniche) ordinarie e quelli che presero a riceverne sempre di nuove, da una parte chi lavorava sul corpo e lo mostrava e chiedeva cittadinanza, dall’altra quelli che si lasciavano andare al tempo che fu. In quegli stessi anni anche il capitalismo stava per cambiare. In Italia, nella prima metà degli anni 80, c’erano quattro importanti capitalisti, nell’ordine: Gianni Agnelli, Raul Gardini, Carlo de Benedetti e Silvio Berlusconi.

 

Nella percezione pubblica rappresentavano ancora capitani d’industria che rischiavano i propri soldi e portavano avanti un progetto riconducibile a un capo, cioè a un corpo visibile e materiale. E tuttavia si assisteva alla nascita del capitalismo azionario e di conseguenza broker, promotori e consulenti finanziari cominciarono a solcare il mare magnum del capitalismo, offrendo un po’ a tutti e spesso senza sforzi, la possibilità di ottenere interessi fino al 20 per cento. Si assisteva a un effetto muscolare, allenati ora e otterrai in futuro un corpo migliore.

 

Lo sappiamo, non sono mancati gli effetti dovuti agli steroidi. Per esempio, nel 1984 i conti economici italiani costituivano un vero paradosso. Gli italiani avevano un livello di vita molto alto, compravano casa, cominciavano a viaggiare spesso all’estero, avevano scoperto la qualità delle acque minerali. Eppure restava intatto il mistero (economico): da dove prendevano i soldi, visto che i dati ufficiali della produzione non giustificavano il tenore di vita?

 


“Gli anni 80 furono proprio gli anni della palestra, delle piccole e grandi modificazioni del corpo, personale e sociale” (in queste pagine, illustrazioni di J. C. Leyendecker, 1874-1951)


 

Due furono le risposte. La prima: i dati ufficiali della produzione erano ricavati prendendo come riferimento quelli che pagavano le tasse. Evidentemente erano pochi, quelli che pagavano le tasse. La seconda risposta arrivò dal Censis: l’economia sommersa. Scambi non tassati, ore di lavoro non dichiarate, evasione fiscale ecc. Il tutto, calcolò il Censis, per una cifra pari al 20 per cento. Effetto steroide. Il nuovo corpo (politico, antropologico) sembrava reale e immaginario allo stesso tempo, viveva nel presente ma rimandava i costi al futuro.

 

Il capitalismo – e quello italiano era una pallida (e inquinata) emanazione di quello internazionale – stava per diventare azionario. Questo significava che ora il manager doveva rispondere agli azionisti. Di conseguenza, più aumentava il valore dell’azione, ovvero della singola parte, più il corpo finanziario dell’azienda acquistava forza e credibilità. La domanda adesso era: quanto vale una singola azione? Quanto vale, cioè, la singola parte? La risposta non era per niente scontata: risultava complicato misurare il valore dell’azione al momento. Se il presente era in bianco e nero, meglio guardare al colore che sarebbe venuto. Ottimismo.

 

Per questo motivo schiere di nuovi antennisti, cioè broker e consulenti finanziari, una specie fino a qualche anno prima non eccessivamente diffusa, cominciarono a promettere che l’azione tal dei tali nell’immediato futuro avrebbe acquistato valore. Appunto, bastava crederci con ottimismo. Se compravo un’azione certo che il suo valore sarebbe aumentato, allora anche un altro avrebbe fatto la mia stessa mossa. Un sentimento (o un’illusione) ottimistico-personale poteva diventare valutazione e misura collettiva.

 

Dunque il valore di un’azione cominciò a essere definito secondo una proiezione futura. Non più quanto vale oggi questa singola parte, ma quanto sei disposto a spendere, oggi, considerato che il corpo complessivo, cioè, l’azienda quotata in Borsa, acquisterà nel futuro un valore più alto? I consulenti promettevano, per esempio: la mia macchina di sei posti ospiterà in futuro 20 persone, dunque aumenterà il suo valore, non ti resta che fidarti di me e credere nella promessa a venire. Non importava nulla che la macchina avesse sei posti (e forse chissà, c’era il rischio che avrebbe continuato ad averli), perché se io credevo che nel futuro poteva averne 20, le quotazioni salivano e quei posti attiravano altri miei simili. L’ottimismo come (necessario) strumento finanziario.

 

Il mondo cambia, noi ancora separati: 50enni che vogliono tornare giovani e giovani che arrivano a 50 anni senza ottimismo

Tanto per dire, Carla Corso (leader storica del movimento prostitute) in un’intervista parlava di Everardo Dalla Noce, corrispondente da Piazza Affari per conto della Rai. La Corso ricordava con estrema simpatia la figura di Dalla Noce: era stato capace di farla entusiasmare per la Borsa, un luogo che lei credeva fosse riservato al Gotha della finanza. Fu bello, racconta la Corso, “scoprire che potevi entrare in banca e ordinare 1.000 azioni della Sip” (la vecchia società telefonica italiana). Carla Corso concludeva che Dalla Noce le aveva dato un senso di onnipotenza. Certo, questo senso di onnipotenza veniva somministrato da Dalla Noce, una degna persona certamente, ma con una specializzazione nella cronaca sportiva. Chissà se è stato un caso o si tratta di un’interpretazione sensata, magari ex post: alla modificazione del mio corpo negli anni 80 corrispondeva una modificazione collettiva.

 

La palestra allora mi fece bene, allontanò i pensieri cupi e rafforzò la mia autostima. Del resto il tempo era dalla mia parte e pensavo a colori. In fondo la proiezione verso il futuro non era sbagliata in sé: i vecchi strumenti si mostravano arrugginiti e il mondo procedeva con dinamiche nuove.

 

E’ passato il tempo, siamo nel 2018. In 90 giorni di esercizi, siccome ho seguito con rigore certosino la mia restrizione calorica, sono dimagrito, la circonferenza addominale è scesa a 89-90 cm. Ancora 15 giorni di pena e ce l’avrei fatta: tonicità e tartarughe e con un corpo nuovo avrei affrontato l’angoscia crescente. Andava già meglio, mi sentivo meglio. E però… Mancavano pochi giorni al termine dell’esperimento. Sono sceso a Caserta per una commissione e ho incontrato Valentina. Per carità, è stato piacevole, ma sapete che cosa mi ha detto? Che stavo male, sembravo malato, sciupato. Dovevo mangiare di più, a parte che gli uomini di 52 anni con le tartarughe sono volgari. Sarà stato questo incontro o chessò che altro, ma ho cominciato ad avvertire una certa stanchezza. Tuttavia invece di cedere ho intensificato gli esercizi e una sera durante il plank mi sono bloccato con la schiena. Ho lanciato varie maledizioni all’indirizzo di tutti, Valentina, gli anni 80, le tartarughe e il corpo perfetto.

 

Solo allora, sdraiato sulla schiena, gli occhi chiusi, mi è venuto in mente un altro ricordo. E sì, gli anni 80 con tutte quelle frequenze nuove promettevano abbondanza di canali ed effetti speciali e tuttavia, chi più chi meno, in quegli anni ci siamo arricchiti, sì, anche quelli che per forza volevano ripartire dal bianco e nero. Però non siamo riusciti a capire quello che stava accadendo, anzi la separazione culturale si è incancrenita secondo un banale sistema binario: da una parte gli antennisti, dall’altra quelli delle frequenze ordinarie, il bianco e nero e il colore, i palestrati e quelli che non lo erano, quelli che acquistavano oggi e pagavano (forse) in seguito e quelli che contestavano chi acquistava, in generale. Ritmo moderno e ritmo passato.

 

Ci siamo fatti la guerra in casa, i due club hanno cominciato a ridere l’uno dell’altro. Una contraddizione culturale. Ero andato in palestra, avevo fortificato il mio corpo, avevo studiato e tuttavia invece di gettare dei ponti fra le isole, guardavo dall’alto in basso e ridevo di chi non frequentava la mia stessa palestra, per così dire. Godevo dei benefici del decennio ma preferivo buttare i costi sugli altri. Un esempio della separazione e dell’incomprensione culturale? Ecco appunto, bloccato con la schiena, mi sono ricordato di una cosa. All’epoca ridevo molto del mio parentame contadino. Non parlavano bene l’italiano, storpiavano i verbi, usavano parole a sproposito, credevano nelle fattucchiere, abitavano in case povere, cucina e stalla annessa. Una puzza… Vestivano sempre di nero, fustagno e maglietta di lana pesante. Ah, zappavano. Tutto il giorno. Loro zappavano e io leggevo e ascoltavo musica. Ricordo una mia zia, completamente curva. Ma non gobba, davvero: il busto era piegato in avanti a formare un angolo retto con il terreno. Che ironia tra noi cugini più colti e con ambizioni creative.

 

Ricordo ancora che l’unico che non rideva era mio padre – ex contadino – che allora gestiva un settore all’ispettorato agrario di Caserta. Ogni volta che andavamo a trovare i parenti, mio padre si innervosiva e batteva i pugni sul tavolo: dovete togliere questa stalla da qui! Dovete comprarvi un trattore, dovete usare gli agrofarmaci, quest’uva è una merda, tutta piena di peronospera. Ci sono contributi per questo genere di cose, vi preparo io la domanda, ma per dio, fate qualcosa. Fatica sprecata, pensavo io, so’ cafoni. Però mio padre era molto testardo e alla fine i miei parenti sono passati dalla zappa all’erbicida, hanno tolto la stalla dalla cucina, razionalizzato gli ambienti.

 

Così, migliorando la produzione i soldi (pochi) sono cominciati a entrare e i miei parenti, a metà degli anni 80, con molto ritardo sulla media, si sono decisi a ristrutturare la casa. Sapete da chi sono andati a comprare mattonelle e sanitari? Da un antennista del mio quartiere, uno che si era arricchito vendendo articoli sanitari, uno con la scia di profumo che si sentiva a distanza di chilometri, uno che si cambiava il costume in spiaggia, uno che aveva un negozio piccolo e poi negli anni 80 era diventato “Il principe del Bagno”. Uno con l’insegna da rubrica Cuore.

 

Non dimenticherò mai la faccia dei miei zii contadini quando dissi loro: ma quello è un cafone, ma perché avete preso i mobili da lui? Come un cafone? Così una brava persona, ci ha fatto un buon prezzo, tutto in comode rate. Ecco, per colpa della separazione culturale non capivo il mondo. Desideravo cambiarlo e lo condannavo e mentre (culturalmente) lo condannavo il mondo continuava a cambiare e più cambiava più ridevo e meno potevo contribuire a offrire soluzione ai costi. E sì, ridevo ma il mondo e l’Italia stavano cambiando. Grazie all’innovazione tecnologica i consumi si espandevano, e, in buona parte, in Italia, si facevano strada e con più forza, proprio quelle imprese che si occupavano del settore dell’igiene (bagni e arredi) dell’arredamento e degli elettrodomestici. Quindi mentre io non mancavo di fare ironia sui venditori di tazze da bagno e bidet, su Aiazzone e altri mobilifici, i miei parenti si servivano da loro. In quel periodo Berlusconi – questo bisogna riconoscerglielo – intuì una cosa: doveva intercettare quegli interessi, pur minori e trasferirli sulle sue reti, togliendoli così alla Rai. Eliminare la concorrenza, insomma. Non originale come strategia, ma a lui l’impresa riuscì – grazie a un credito bancario e all’appoggio politico, anche perché le grandi banche erano controllate, allora, dallo stato. La forza di Mediaset? La pubblicità. In concreto Mediaset può servirsi dei due terzi del mercato pubblicitario, mentre la Rai può trasmettere solo un quinto della pubblicità. La Rai si serve di 400 imprese maggiori (Fiat, Ferrero) e Mediaset di 800 imprese minori, e mi chiedo quante imprese con nomi bizzarri ci sono e quante avrebbero suscitato in me incontenibili e sdegnose risate.

 

Poi ci sarebbe da esaminare se questo cambiamento abbia prodotto grandi e concrete espansioni sui mercati esteri. Insomma, facciamo i conti: fiction, libri, format e quant’altro fa cultura spendibili sui mercati internazionali? Poco o niente. Mica riguarda solo Mediaset, dai. E’ un problema italiano. E’ questa la causa della mia angoscia odierna? La sensazione di aver sprecato tempo ed energia e ottimismo? Di aver mancato una promessa? Di aver riso troppo? Per quanti esercizi abbiamo fatto, per quanti discorsi abbiamo prodotto, e accuse, scuse, giustificazioni e altro, alla fine, il tempo è passato e io, il mio quartiere, noi tutti, dopo trent’anni siamo da una parte ingrassati dall’altra rimasti piccoli e provinciali. Anche se avessi un corpo perfetto non potrei capire il corpo del (nuovo) mondo. Forse dopo tanta fatica stiamo ancora agli anni 80 (e da qui il trauma). Il mondo sta cambiando ma noi siamo ancora separati: cinquantenni pessimisti che vogliono tornare giovani e giovani che arrivano a 50 anni senza ottimismo. E niente, alla fine, le tartarughe non mi sono venute.

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