Rose McGowan (foto: celebrityabc via Flickr)

Rose McGowan, la "martire" di cui il femminismo non sentiva il bisogno

Manuel Peruzzo

L'attrice a caccia di fama pubblica una biografia infarcita di aneddoti incoerenti che vorrebbero stigmatizzare il sessismo di Hollywood. E in tv, tra le lacrime, supplica il pubblico di considerarla una vittima

Rose McGowan ha sempre saputo che sarebbe stata famosa. Nel recente memoir “Brave” lo ammette in un paragrafo in cui racconta l’infanzia tra i Bambini di Dio, una setta internazionale con una sede anche a Certaldo (Firenze) nata negli anni Settanta da un ciarlatano, David Berg, che professava il sesso come salvezza. A questo punto sappiamo che: passava le giornate in una comune, condividendo gli spazi con tanti bambini e donne con i peli sulle gambe le quali idolatravano gli uomini; andava in gita a Roma facendo elemosina in sandali francescani per poi ottenere cibo; veniva spesso picchiata. Un giorno gli adulti sghignazzano a tavola e solo a fine pasto le raccontano che le hanno servito il suo agnellino, l’unico amico che aveva. Il padre porterà via lei e i suoi fratelli di lì quando Berg inizierà a incitare alla pedofilia. Quel che sembra un brutto film di Lars Von Trier è il ricordo di aneddoti sconnessi per arrivare al punto: sono sopravvissuta a una setta e sono finita per essere imprigionata in un’altra, Hollywood.

 

Nella quarta di copertina, McGowan è presentata come una scrittrice, una regista, un’artista musicale, ex attrice, imprenditrice e femminista/attivista gola profonda. Manca madre dei draghi e c’è tutto, ma nessuno di questi motivi è quello per cui è vagamente famosa: aver interpretato una strega, Paige Matthews, quando Shannen Doherty ha lasciato Charmed (Streghe). Nel libro racconta di quanto fosse un martirio dover memorizzare le battute, e di come Aaron Spelling e i produttori la guardassero come un’aliena: forse perché per sua stessa ammissione non aveva mai fatto televisione, non conosceva la serie, era reduce da alcuni film per adolescenti negli anni Novanta. Anche se lei crede fosse per la discrasia tra un corpo incredibilmente sexy e un modo di esprimersi che non lo era. 

 

"Brave", definito come crudo, onesto e commovente memoir/manifesto, è pieno di incoerenze. Racconta di un’infanzia d’abusi ma ci tiene a restituirci una Toscana da cartolina, tra fienili ulivi e spaghetti; di una adolescenza passata a difendersi per poi essere Pollyanna a Hollywood; di tagliarsi i capelli per non compiacere i canoni estetici imposti alle donne ma tenendo le protesi al seno e i cerotti anti-occhiaia; si racconta come una vittima della sessualizzazione ma tutti la ricordiamo per il nude-look agli Mtv VMA, col fidanzato Marilyn Manson: a quel tempo era “coraggiosa” per aver mostrato il culo “per divertimento”, come rivela a Roseanne Barr, ma oggi scrive che era una sfida a Hollywood, la quale sarà pure “lastricata di corpi di donne”, ma è dove Rose McGowan ha cercato d’entrare per una vita. Il modello intellettuale esibito è Frances Farmer, l’attrice problematica che subì la psichiatria degli anni in cui si credeva nell’elettroshock; i suoi modelli occulti sono: il soldato Jane, Marilyn Monroe e Pippicalzelunghe.

 

Non c’è una sola frase in tutto “Brave” che sia d’aiuto all’emancipazione femminile. È la tendenza, sempre più viva negli ultimi anni, a considerare le nostre vite estremamente interessanti anche quando non lo sono. La genesi travagliata del libro raccontata nella prefazione, una via di mezzo tra il Codice Da Vinci di Dan Brown e 24, con le spie israeliane che la perseguitano per strapparle il prezioso manoscritto e tentare di ucciderla, sembra ancora più lunare considerato quello che effettivamente dice: cose che si possono leggere ovunque, e che hanno detto altre donne prima di lei. Mancano riferimenti intellettuali e politici solidi, sostituiti ovunque dalla propria autobiografia: se vi chiedete se il pugno nelle foto sia più omaggio ai Black Panther o più socialismo ve lo diciamo noi: nessuno dei due. McGowan sostiene che il padre le ha raccontato di essere nata con il pugno alzato, chissà che dolori per la madre.

 

Rose McGowan crede che la sua figura sia così nota che non perde tempo a contestualizzarla, così la si vede piangere e citare Weinstein senza che si capisca mai bene perché (spoiler: le ha fatto sesso orale non consenziente). “Citizen Rose” va in onda su E!, il canale delle biografie hollywoodiane (e già che l’attivismo si faccia sul canale in cui vanno in onda le Kardashian, suo idolo polemico nel libro, è ironico). È una docu-serie in cinque episodi molto ben pagata. Tolte le parti in cui McGowan piange o parla di sé non rimangono che i titoli di coda. La si vede parlare a un convegno #MeToo e sostenere il proprio hashtag #RoseArmy, l’esercito immaginario, dire di avere le spine, promuovere il proprio memoir, terminare l'arringa con: “Sono Rose McGowan, e sono come voi”. Tuttavia l'unica scena in cui è più autenticamente felice è quando l'edicolante la vede sul New York Times e lei lo abbraccia tra le lacrime: un riconoscimento. Il dubbio è che McGowan abbia più bisogno di una buona terapia che di fare da leader a un movimento civile. La puntata pilota si conclude con l'incontro con altre donne sconosciute identificate nel sottopancia, con l'uomo che le ha molestate: se c'è un'immagine simbolica più rappresentativa del fallimento dell'empowerment è questa. Persino Asia Argento cerca di dirle "non sei una vittima, sei vittoriosa", ma lei risponde tra le lacrime di tenerci a esserlo. Ha sempre voluto essere famosa, non leviamole l'unico motivo che le è rimasto per esserlo.

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