Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

Non c'è più tempo da perdere sulla scuola. Serve un Piano Marshall per non tornare indietro

Agostino Miozzo

L’auspicio è che questa grave crisi possa aiutare la rinascita del sistema, trasformando i limiti e le criticità del sistema in opportunità e possibilità di crescita

Il 4 marzo del 2020 sulla base di valutazioni della comunità scientifica che vedeva nell’ambiente scolastico un potenziale rischio di aumento del famoso Rt (l’indice di trasmissione del virus), il governo approvava un dpcm che ordinava la chiusura temporanea delle scuole di ogni ordine e grado. Quell’indicazione scientifica mirata a proteggerci dal Sars-Cov-2 ha di fatto scoperto un vaso di Pandora, evidenziando i mali antichi del mondo scolastico ai quali ci eravamo probabilmente assuefatti, considerando il malfunzionamento della scuola un aspetto marginale rispetto a ben altri problemi di cui soffre da tempo il nostro paese.

 

L’indicazione degli scienziati non poteva certo tener conto del fatto che, suggerendo il distanziamento e l’isolamento temporaneo di otto milioni di studenti, sarebbe emerso il disastro delle classi pollaio, della cronica carenza di personale, il dramma dei trasporti, il deficit di disponibilità tecnologiche, la totale assenza di sistemi sanitari dedicati alla scuola (il medico scolastico, rimasto nella memoria del tempo di scuola degli anziani).

 

Fra poche settimane inizierà un nuovo anno scolastico e devo confessare che non vedo fiori e prati verdi a disposizione dei nostri giovani, ma piuttosto una sempre brulla, sofferente savana. Una riflessione storica è doverosa se si vogliono comprendere a fondo le criticità che abbiamo di fronte, evitando facili entusiasmi e valutando le prospettive con lucido pragmatismo. Partirei anzitutto da una considerazione politica: negli ultimi vent’anni siamo riusciti a nominare “solo” 12 ministri dell’Istruzione, che hanno governato quel ministero mediamente per un anno e otto mesi a testa; a mio parere un tempo sufficiente solo per capire come non perdersi negli sterminati corridoi di Viale Trastevere e magari per conoscere i dirigenti del ministero e quelli inviati presso le istituzioni locali. Non so bene, e devo confessare che non ho avuto nemmeno la curiosità di andarmi a cercare l’informazione, quante riforme siano state fatte in questi anni. Quello che è certo è che gli ultimi dodici ministri ben poco hanno potuto o sono riusciti a fare per sanare i gravi limiti strutturali della scuola, pur riconoscendo l’esistenza nel paese di aree di eccellenza accanto a realtà decisamente arretrate.

 

Nel suo spietato cinismo relazionale, la pandemia ha imposto regole comportamentali che per la scuola hanno previsto la Dad, la mitica e famigerata didattica a distanza. Uno strumento di formazione straordinario per garantire la continuità didattica in situazioni di crisi, ma una iattura incommensurabile quando da strumento di emergenza diventa sostituto permanente della didattica in presenza come, purtroppo, è avvenuto in Italia dalla fine di febbraio del 2020.

 

Il Covid ha quindi reso evidenti deficit non legati alla diretta responsabilità di un ministro o di un presidente del Consiglio ma piuttosto a una storia antica di malgoverno della politica italiana nei confronti della scuola del nostro paese. Quali responsabilità si possono imputare alla ministra Azzolina, visto che ha assunto l’incarico al ministero il 10 gennaio 2020? Tre settimane dopo il governo approvava la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, e poche settimane dopo il Cts suggeriva la chiusura delle scuole per ridurre la diffusione della pandemia. Altrettanto difficile è imputare al ministro Speranza o alla ministra De Micheli responsabilità sullo stato di salute degli ospedali del nostro paese piuttosto che delle metropolitane o dei trasporti su ruota nelle città. Come si usa dire ricorrendo a una metafora militare, la guerra – nel momento in cui ha inizio il conflitto – si combatte con l’esercito che si ha a disposizione; si possono fare “miracoli all’italiana” ma sanare il deficit strutturale è altra cosa.

 

Una spietata verità esce dagli esiti di questa battaglia combattuta con le scarse risorse a disposizione e, nonostante tutto, non ancora persa solo grazie alla dedizione e allo spirito di sacrificio di centinaia di migliaia di persone appassionate del loro lavoro: la scuola dimostra di essere sempre stata la cenerentola della politica italiana nella totale incapacità di considerare il settore come strategico per la crescita e lo sviluppo del nostro paese.

 

Il Covid ha evidenziato queste criticità anche perché questa “emergenza perfetta” ci dice che le misure per lottare contro la pandemia sono l’esatto contrario di quanto fatto negli ultimi decenni in ambito scolastico mettendone in risalto tutti gli elementi di criticità: il virus vuole il distanziamento e noi abbiamo le classi pollaio; noi abbiamo antichi arredi scolastici con banchi doppi e lui impone il distanziamento di almeno “un metro dalle rime buccali” tra gli studenti.

 

L’età media della popolazione docente della scuola italiana è in buona parte nella fascia a rischio essendo sopra i sessant’anni, e il virus predilige questa fascia di età. Abbiamo i trasporti sovraffollati e il virus ama il sovraffollamento. Per ovviare alle criticità esistenti è stato indispensabile adottare la Dad ma nessuno era preparato a questa nuova forma di educazione a distanza: non c’erano tecnologie disponibili per tutti, gli studenti non ne conoscevano il senso e la modalità, gli spazi privati degli studenti e dei docenti ove operare in Dad non sempre, direi anzi raramente, consentono un’adeguata connessione e la corretta partecipazione a ore di insegnamento da remoto.

 

Tra i paesi europei siamo stati uno di quelli che hanno risposto al Covid semplicemente chiudendo le scuole e lasciando gli studenti in Dad per mesi. Abbiamo poi avuto realtà regionali che hanno adottato una variegata scelta di decisioni che andavano da chiusure estemporanee (lasciando i grandi centri commerciali aperti) all’indicazione di lasciare libera scelta da parte delle famiglie se mandare i figli a scuola o meno, a incomprensibili, e senza alcun criterio scientifico, chiusure estemporanee dei vari cicli delle scuole.

 

In emergenza lo scorso anno molte cose sono state fatte, come la modifica dell’arredo scolastico che, piaccia o meno, ha visto l’acquisizione in pochi mesi di più di un milione di nuovi banchi singoli, incluse le tanto contestate sedute innovative (i banchi a rotelle), il recupero di un numero considerevole di nuovi spazi per consentire lo snellimento delle classi sovraffollate, il reclutamento di un gran numero di nuovi insegnanti e la messa a disposizione di dieci milioni di mascherine chirurgiche al giorno distribuite alle singole scuole.

 

Molto si è letto in senso critico su queste operazioni che, da tecnico di emergenza, devo riconoscere sono state, comunque le si voglia guardare, operazioni ciclopiche. Al netto di sempre possibili errori gestionali (involontari, dolosi o colposi che siano, di cui si dovrà eventualmente occupare la magistratura), lo sforzo per rispondere alle nuove esigenze è stato enorme.

 

Molti sforzi sono stati fatti, ma non abbastanza per poter convivere con le regole spietate della pandemia che anche a causa della variabile “varianti” probabilmente rimarranno immutate. Dall’inizio di quest’anno sono state finalmente introdotte le vaccinazioni per l’intera popolazione. Non voglio qui entrare nel merito della questione che ha rappresentato molte criticità per i tempi delle forniture e le modalità comunicative; interessa però sottolineare che a oggi duecentomila tra docenti e personale della scuola non ha ancora ricevuto il vaccino e solo un 3 per cento dei giovani tra i 12 e 19 anni ha avuto le dosi utili alla loro immunizzazione.

 

Ancora troppo pochi se si vuole immaginare un inizio del nuovo anno in sicurezza allontanando il più possibile lo spettro della Dad che ci potrebbe quindi accompagnare per molti mesi a venire. Siamo a metà luglio e fra un paio di mesi, cioè domani, otto milioni di studenti e un milione e trecentomila tra docenti e non, torneranno alle loro quotidiane attività. Di mezzo ci sarà il meritato periodo di vacanze d’agosto dove vedremo milioni di persone muoversi all’interno del paese e all’estero, una variabile che non aiuterà di certo il programma vaccinale coordinato, con grande fatica, dall’ottimo generale Figliuolo. Il Cts ha già, giustamente, messo i paletti scientifici per garantire, in un momento ancora critico della pandemia, un corretto rientro in sicurezza dei nostri giovani e di tutto il personale a scuola: distanziamento, mascherine, igiene; gli stessi mantra da mesi entrati nel nostro quotidiano vivere.

 

Volendo quindi essere realisti e non immaginando di poter fare nuovi miracoli, la scuola soffrirà ancora a lungo e il prossimo anno scolastico sarà vissuto in una variabile condizione di emergenza che purtroppo imporrà ancora scelte drammatiche per gli studenti, penso principalmente alla Dad che rischia di avere continuità.

 

Vi è però il grande auspicio che questa grave crisi possa aiutare la rinascita del sistema, un’evoluzione darwiniana che vede trasformare i limiti e le criticità del sistema in opportunità e possibilità di crescita. L’Unione europea ha autorizzato un grande piano di rinascita delle nostre stremate economie, la scuola beneficerà di parte importante di queste risorse.

 

Mi permetto di dare un consiglio non richiesto al presidente Draghi: soffermi la sua attenzione per qualche momento non solo su aspetti importanti ma a mio parere marginali della questione scuola. Questa è un’occasione unica e irripetibile per far fare un salto di qualità alla nostra miope visione politica imponendo di guardare al futuro dei nostri giovani consolidando quelle fondamenta che oggi sono deboli, fragili e non adatte a resistere ai frequenti e sempre più violenti “terremoti” che hanno sconvolto e che nel prossimo futuro sconvolgeranno sempre più il nostro paese.

 

La scuola ha bisogno di un Piano Marshall, che deve essere attuato con risorse umane, materiali e amministrative straordinarie; risorse che purtroppo non possono essere trovate all’interno delle esistenti strutture gestionali e amministrative. Le emergenze hanno sempre una fase del loro ciclo che vede il ripristino delle “normali condizioni di vita”, fase condotta con mezzi e strumenti normativi straordinari. Non si esce dalla palude con i metodi e gli strumenti dell’ordinaria amministrazione; io non ho mai visto questo miracolo, soprattutto nel mio paese.

 

La Protezione civile insegna che quando si vogliono raggiungere obiettivi ambiziosi,  risultati sorprendenti si raggiungono anche in tempi relativamente contenuti; da lì poi si riparte per una nuova vita. Ma l’ambizione ha un prezzo, signor presidente. Un prezzo che dobbiamo pagare se vogliamo spalancare le porte ai nostri giovani non per aiutarli a partire ma per metterli in condizione di restare.

 

Agostino Miozzo
già coordinatore del Comitato tecnico-scientifico

 

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