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l'analisi

Ecco le incognite che condizionano la durata della guerra in Ucraina

Siegmund Ginzberg

I discorsi dei due leader dei mondi contrapposti: quello di Joe Biden e quello di Vladimir Putin. La questione del nucleare e le perdite nell'esercito della Federazione russa. Giochi nascosti su Kyiv

I discorsi non la dicono mai tutta. Specie i discorsi destinati a uso e consumo pubblico. Figurarsi quelli destinati a restare segreti. Solo messi alle strette da un’analisi spietata i discorsi di guerra lasciano intravvedere qualcosa. E quasi sempre solo a posteriori, a cose fatte. Non sfuggono a questa regola il chilometrico discorso di Vladimir Putin al Cremlino alle Camere riunite e il comizio nella piazza del Castello a Varsavia di Joe Biden. Putin ha parlato per un’ora e 45 minuti. Biden per poco più di 20 minuti. Mi hanno fatto venire in mente discorsi pronunciati molti (ma non moltissimi) anni fa alla vigilia di altre guerre: appena prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, nel settembre 1939, e appena prima dell’aggressione all’Unione sovietica nel giugno 1941. Questa svolta decisiva fu anticipata da un discorso di Hitler e uno di Stalin. Fu Hitler il più prolisso, parlò per oltre 2 ore. Stalin per meno di 40 minuti.

 

Alla vigilia dell’invasione della Polonia, nel 1939, Hitler si dichiarava uomo di pace. Stalin invece aveva riunito in segreto il Politburo per annunciare il Patto Molotov-Von Ribbentrop. Gli spiegò che la guerra era inevitabile, e che la migliore chance per la Russia sovietica era che durasse abbastanza a lungo perché Germania nazista da una parte e Francia e Inghilterra dall’altra si indebolissero a vicenda, dando ad un’Unione sovietica nel frattempo rafforzata la possibilità di fare l’ago della bilancia. Meno di due anni dopo, il 5 maggio 1941, Stalin si rivolse ai cadetti delle accademie militari e ai vertici dell’Armata rossa convocati al Cremlino dicendogli che era venuto il tempo di “passare dalla difensiva all’offensiva”. Gli spiegò che la Germania aveva vinto le guerre solo se la Russia rimaneva neutrale, come era successo nella guerra franco-prussiana del 1870, e che invece la Germania aveva sempre perso le guerre se costretta a combatterle su due fronti, contro l’occidente da una parte e la Russia dall’altro. Non c’è una trascrizione di quel discorso. Gli storici l’hanno ricostruito sulla base degli appunti e dei diari di chi era presente. Le testimonianze non sono concordanti, se non sulla necessità di passare all’offensiva. C’è chi ricorda che Stalin parlò a braccio, e chi invece sostiene che leggeva degli appunti. Pare che avesse fatto già diversi brindisi e fosse un po’ brillo. C’è chi interpretò il discorso come predizione di sconfitta di una Germania presa a tenaglia tra Stati Uniti e occidente da una parte e Unione sovietica dall’altra. E chi invece lo interpretò come un modo per “spaventare Hitler”, farlo desistere dall’idea di un’invasione a breve. La cosa bizzarra è che in base al discorso di “offensiva” di Stalin vennero approntati piani di mobilitazione. Poi giunse un “contrordine compagni”, per non “provocare” Hitler.

 

Stalin evidentemente era incerto. Ma Hitler aveva già deciso. Già a fine marzo aveva fatto un discorso ai vertici della Wehrmacht impegnati nella preparazione dell’Operazione Barbarossa per spiegargli le ragioni dell’imminente attacco all’Urss. Bisognava approfittare dello stallo nella guerra a occidente per fare i conti col “vero nemico”: il giudeo-bolscevismo a est. La dottrina della conquista di “spazio vitale” per la Germania a est era una vecchia idea, risaliva ai tempi della stesura del Mein Kampf. Gli anticipò che sarebbe stata una guerra non solo di conquista ma anche di sterminio: l’esercito avrebbe dovuto collaborare con le SS per eliminare fisicamente i commissari politici bolscevichi e gli ebrei. Alla Russia sarebbe rimasto solo il territorio a est degli Urali, Stati Baltici, Bielorussia, Finlandia e Ucraina avrebbero occupato la Russia settentrionale. Gli disse: “Dobbiamo capire che questa sarà una guerra di annientamento. Se non lo facessimo ci ritroveremmo qualche anno dopo punto e a capo”. Anche di questo discorso di Hitler ai suoi generali abbiamo solo gli appunti dei presenti.

 

I discorsi di Putin e di Biden erano a uso e consumo pubblico. Sono messaggi di fermezza. Entrambi sembrano dire: hic manebimus optime, da qui non ci muoviamo. Ma il diavolo potrebbe celarsi nei dettagli. “Non mollo” è il succo del discorso di Putin. Ha voluto dare l’impressione di volare ben oltre la contingenza. Ha enunciato nei minimi dettagli progetti di lunga durata: previsioni economiche da qui al 2030, investimenti di gran lena, trilioni di rubli di qua, trilioni di là, persino una riforma epocale dell’istruzione pubblica! Come dire: il potere ce l’ho io e me lo tengo, ancora per molti anni. 

 

“Non ci stancheremo di sostenere l’Ucraina”, il succo della replica di Biden. Ma lui non può dirsi certo che resterà alla Casa Bianca anche dopo il 2024. Né che la sua America non si “stancherà” di sostenere l’Ucraina. Tutte cose già dette, a ben vedere, sia da parte di Biden che da parte di Putin. Quando da un momento all’altro ci si può attendere un’escalation, è significativa anche l’assenza di novità. Diversa poi l’atmosfera in cui si sono tenuti i due discorsi. Aria quasi di festa, volti sorridenti ad ascoltare Biden. Niente parate, slogan e sbandieramenti invece per Putin, ma le facce scure, tirate della sua nomenklatura. Le telecamere che si aggirano senza pietà tra espressioni poco convinte, senza un briciolo di entusiasmo, persino annoiate (qualcuno sembrava addormentarsi). Anche il giorno dopo, alla parata pubblica per l’anniversario della guerra – che Putin si ostina a chiamare Operazione speciale – si sono notate più lacrime che sorrisi.

 

Il veleno, nel caso del discorso di Putin, era in coda. C’è chi ha titolato: Putin cancella il trattato Start (Strategic Arms Reduction Treaty), che congela a 1.550 per parte le testate atomiche e a 700 i missili in grado di trasportarle fino agli Stati Uniti. Gli uni e gli altri i limiti li hanno raggiunti nel 2018. Le previste ispezioni erano cessate causa Covid. Sia da Mosca che da Washington si sono affrettati a precisare che si parla di “sospensione”, non “cancellazione”. Il Trattato scade nel 2026. “Unfortunate and irresponsible”, molto spiacevole e irresponsabile, la reazione del segretario di stato Usa Blinken, che si è però affrettato a ribadire la volontà di negoziare un nuovo trattato, che sarebbe “chiaramente nell’interesse della sicurezza del nostro paese (gli Stati Uniti), e anche nell’interesse di sicurezza della Russia”. Gli acrobati sul trapezio non bruciano la rete salvavita. Al momento si manovra per ridiscuterla, rappezzarla. E non è neanche vero che Putin abbia preannunciato la ripresa dei test nucleari. Per essere precisi ha detto che “qualcuno a Washington” starebbe pensando di riprendere i test e che i suoi dovrebbero “essere pronti a testare armi nucleari se necessario”. Mettendo subito dopo le mani avanti: “Naturalmente noi non lo faremo per primi. Ma se gli Stati Uniti li fanno, li faremo anche noi”.

 

Niente di nuovo sul piano delle minacce. Il numero due di Putin, Medvedev, fa da anni il duro, minaccia il ricorso alle atomiche a ogni piè sospinto. Zelo sospetto: così rischia semmai di passare per candidato alla successione, cioè a fargli le scarpe. Anche Putin ha ricordato spesso di avere missili nucleari (basta un minuto perché arrivino lì, aveva elegantemente avvertito l’interlocutore Boris Johnson), e di tanto in tanto annuncia di averli messi in allarme. Ma il guaio è che nessuno gli presta più attenzione. L’atomica ce l’ha, e abbastanza da distruggere il pianeta. Ma, come apprese a sue spese il Pierino della favola, non puoi evocare troppo spesso il lupo invano, pena che nessuno ti dia più retta. L’ultima è la rivelazione, nel discorso di martedì scorso, che da una settimana avrebbe messo in stato di combattimento i sistemi strategici con base a terra. Continua a citare nuove modernissime supertecnologiche terribili armi. Il pericolo è che, finché non le usa, nessuno gli creda.

 

E comunque non gli è così facile ordinare di sparare un’atomica. Nemmeno un’atomica tattica, locale. L’amico cinese non glielo perdonerebbe. Gli ha già detto in tutte le maniere che questa è la linea rossa che Pechino non può consentire in alcun modo venga superata. E non è detto che glielo consentirebbero i suoi militari. Il presidente degli Stati Uniti ha il potere assoluto di ordinare il ricorso al nucleare, senza dover chiedere il consenso a nessuno, né al Pentagono, né alla Cia. In Russia è il presidente a poter ordinare l’uso di ordigni nucleari in combattimento, o anche solo un test nucleare. Ma per farlo ha bisogno del consenso sia del ministro della Difesa che di quello del capo di Stato maggiore. Se in America Biden ha la valigetta nucleare che lo segue sempre dappresso, in Russia, oltre a Putin, ce l’hanno anche Valerij Gerasimov e Sergei Shoigu. L’ordine deve essere confermato simultaneamente da tutti e tre. 

 

La ragione di questa regola, che risale quando c’era ancora l’Urss, è impedire che i militari possano avere il sopravvento sulle decisioni dei politici, anche in una situazione di emergenza sul campo, e che, per converso un leader politico, magari in difficoltà, possa scatenare l’apocalisse di testa sua. L’ultimo leader russo che avrebbe potuto farlo era Stalin. Che i militari, sia pure terrorizzati da Putin, acconsentano all’unisono a scatenare il conflitto nucleare è remota. Specie se si tiene conto delle evidenti rivalità e frizioni ai vertici delle forze armate, e tra questi e gli “ausiliari” cui Putin aveva dato sempre più corda. Il sulfureo capo delle milizie Wagner, Evegeni Prigozhin, ha appena dato apertamente del “traditore” all’uno e tacciato l’altro di voler deliberatamente “distruggere” il suo esercito privato. In effetti i mercenari della Wagner hanno subito negli ultimi tempi perdite spaventose in Ucraina. Al punto che Prigozhin ha da poco annunciato la sospensione del reclutamento nelle proprie file di carcerati, che venivano arruolati con la promessa della liberazione. Prigozhin non ha dato spiegazioni, ma si sa che, oltre alla scarsa disciplina, ne morivano troppi, quindi si rivelavano più d’impaccio che di aiuto. Secondo gli Ucraini la Russia sta perdendo in queste ultime settimane oltre 500 soldati al giorno. Le perdite russe totali, dall’inizio della guerra, sarebbero oltre 200 mila. Putin nel suo discorso non vi ha fatto nemmeno cenno. Ma è dubbio che anche la peggiore autocrazia possa permettersi a lungo un’emorragia di queste proporzioni. Per meno, l’Unione sovietica aveva dovuto ritirarsi dopo dieci anni di guerra dall’Afghanistan. Ed era caduto il regime comunista.

 

Sappiamo più o meno com’è andata. Nessuno può ancora essere sicuro di come andrà a finire. Nel 1939, e ancor più nel 1941, Hitler era sicuro di vincere. E di vincere in fretta: le Panzer-Division non erano attrezzate per l’inverno. Stalin era un po’ meno sicuro di vincere nell’immediato. Alla lunga ebbe ragione lui. Ma alla lunghissima ebbe torto. Come Stalin, come i suoi modelli Ivan il Terribile e Pietro il Grande (e come Hitler) Putin non è abituato ad ascoltare consigli, decide tutto da solo, in gran segreto. Ma si sta mostrando un allievo scarso rispetto ai maestri. Quando sento dire che la vittoria è vicina per l’Ucraina, mi viene un brivido. Personalmente glielo auguro di tutto cuore. Ma suggerirei maggiore prudenza. Anche per scaramanzia. Cantar vittoria prima che finisca non ha mai portato bene, a nessuno. Ci sono campi in cui è azzardato fare previsioni perentorie. Putin non ne ha imbroccata una scatenando la guerra. Pensava che sarebbe durata pochi giorni, che Zelensky sarebbe stato eliminato o sarebbe fuggito, che l’Ucraina si sarebbe sgretolata, che l’Europa si sarebbe spaccata e separata dall’America. Ha ottenuto l’esatto contrario di quel che si proponeva. Dio non voglia però che possa avere ragione alla lunga. Anche Biden ha sbagliato previsioni: le sanzioni non hanno morso come si pensava, Putin può ancora vantarsi che l’economia russa non è al collasso, e che Cina e India, e altri terzi, non sono affatto allineati contro la Russia. 

 

Più incerti ancora gli sviluppi a breve. Ho letto e sentito dire, più o meno autorevolmente, di tutto e il contrario di tutto. Sono cambiate le posizioni delle parti direttamente interessate, oltre che dei sostenitori dell’una o dell’altra. Kyiv dice ora che vuole riprendersi tutta l’Ucraina occupata illecitamente, Crimea compresa. Washington non è in grado di dire il contrario o fischiare fallo (vale, come nel calcio, la regola del vantaggio), anche se quasi tutti gli addetti ai lavori lo ritengono impossibile, controproducente e pericoloso. Per Kyiv in primo luogo. Riconquistare la Crimea potrebbe richiedere tale tanto impiego di truppe e mezzi da sbilanciare i vantaggi sinora acquisiti dagli ucraini, e far precipitare la bilancia in senso opposto. Non gli basterebbero tutte le armi finora promesse. La più ragionevole delle ipotesi è convincere Putin che rischia di perdere davvero anche la Crimea. L’ovvia controindicazione è che se davvero rischia di perdere la Crimea ricorra a mezzi davvero disperati. La tremenda partita a poker texano è in pieno svolgimento. Conosciamo le carte aperte sul tavolo. Non quelle che hanno in mano. Venire a vedere chi bluffa potrebbe rivelarsi tragico. Ci eravamo fatti l’idea che le due parti si posizionassero per essere in grado di arrivare al negoziato ciascuna in posizione più favorevole. Ci si aspettava una resa dei conti, uno show down in primavera, subito dopo l’esito della controffensiva russa e della contro-controffensiva ucraina. Potrebbe durare parecchio di più.   

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