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Da Erdogan a Putin: i leader sul lettino di Freud

Siegmund Ginzberg

Quanto è difficile per i figli disconoscere i padri. Lo diceva il fondatore della psicoanalisi. E non vale solo per gli individui, ma anche per le masse, per partiti, movimenti e capi politici. Le radici tagliate e il problema del consenso

Tra i pochi ricordi della mia prima infanzia c’è la paura del buio. Dormivo nell’unica stanza da letto con i miei genitori. Mi tranquillizzava quando, allungata la mano attraverso le sbarre del lettino, incontravo la mano calda di mio padre. Per Sigmund Freud il nostro bisogno disperato di autorità, di qualcuno o qualcosa cui appigliarsi per superare le paure, nasce dalle angosce infantili, dalla paura di venire abbandonati dai genitori. Si tratta di un tema che il padre della psicoanalisi avrebbe approfondito, elaborato e rielaborato per tutta la vita, spaccando il capello, pardon l’angoscia, in quattro, estendendolo dalle nevrosi degli individui a quelle dei popoli. Jung avrebbe ulteriormente allargato la ricerca, occupandosi di come quelle angosce primordiali sono state narrate nei miti e nelle favole che ci vengono raccontate da tempi immemorabili. Era interessato ai ricordi, ai sogni, ai simboli che riaffiorano dall’inconscio collettivo. Aveva un’età piuttosto tarda, 82 anni, quando scelse di curare e trascrivere i suoi sogni e ricordi d’infanzia nei primi due capitoli della sua autobiografia. 

E’ sempre difficile, penoso, disconoscere i padri. Tutti i padri. Anche quando sono motivo di imbarazzo. Nikita Kruscev aveva disconosciuto Stalin al XX Congresso del Pcus, nel 1956. Qualche anno dopo, nel 1964, lo fecero fuori senza complimenti, in un golpe di partito. Michail Gorbaciov ci aveva riprovato a metà anni 80. La sua perestrojka accantonava non solo Stalin, ma lo stalinismo come sistema di potere. Perse il potere, e anche l’Unione sovietica. Putin si è consolidato tornando a papà Stalin (attenzione: non a Lenin, per lui non abbastanza nazionalista, lo rimprovera addirittura di aver svenduto l’Ucraina ai tedeschi). Per essere più precisi, è risalito ancora più indietro nell’albero genealogico, è tornato ai nonni e bisnonni: agli zar. Perché stupirsi che Giorgia Meloni (chiedo scusa, non riesco a chiamarla Giorgia e basta, sono cresciuto nel Nord Italia, dove – tra la gente del popolo, non tra gli intellettuali – c’era l’abitudine di riferirsi pudicamente col cognome anche al proprio coniuge) faccia tanta fatica a disconoscere i propri padri putativi, il Movimento sociale, la fiamma, Almirante, Mussolini e il resto?
Senza voler scadere in quella che lo spassoso Crozza chiama psicobanalisi, è evidente che per qualcuno il bisogno del padre, il richiamo dell’autorità sono più forti che per altri. Succede quando la figura paterna è venuta a mancare in tenera età. O quando si teme di perdere il consenso, l’approvazione, la protezione della figura paterna, o di quella che la sostituisce: il clan, il partito, la chiesa a cui si appartiene, o addirittura Dio, o i propri demoni interiori… Decisiva, nelle diverse tappe dello sviluppo della psicologia infantile, sarebbe la “paura dell’abbandono”, l’angoscia di non meritare più la fiducia, la protezione, la comprensione, l’amore dei genitori. La paura di restar soli, orfani, indifesi. Il periodo critico sarebbero i primi due anni di vita. Ognuno di noi passerebbe attraverso diverse fasi, diversi conflitti. Per qualcuno la sindrome dell’abbandono non si supera mai, le ferite non riescono a cicatrizzarsi, il conflitto sfocia in nevrosi, diventa patologico. E’ come se rifiutassero di diventare adulti, restassero bambini impauriti e arrabbiati, angosciati per i possibili rimproveri. C’è chi sostiene che succeda non solo agli individui, ma anche ai movimenti politici, persino alle nazioni. 

Paul Auster, il prolifico scrittore newyorchese appena scomparso, sosteneva di aver scritto in realtà “sempre lo stesso libro”, cioè “la storia delle mie ossessioni”. Il punto focale delle sue ossessioni, scandito in tutte le declinazioni possibili, è un padre assente. Anche Kafka ce l’ha col padre. Ce l’ha con le sicurezze della generazione del padre contrapposte alle proprie insicurezze e angosce. Sviluppa il tema con ferocia inaudita in racconti come La metamorfosi. Accortosi che il figlio Gregor Samsa si è trasformato in scarafaggio, la madre ha un collasso, mentre il padre lo ferisce a bastonate. Il conflitto col padre assume la durezza nuda e spietata di un rasoio affilato quando, nella celebre Lettera al padre, lo rimprovera: “Eri giunto così in alto con le tue sole forze, e di conseguenza avevi una fiducia illimitata nella tue opinioni […]. Dalla tua poltrona governavi il mondo […]. Solo il tuo punto di vista era giusto, ogni altro era demenziale, stravagante, folle, anormale”. 


Non mi piacciono, non mi convincono le filosofie psicanalitiche della storia. Non credo affatto che Hitler, Mussolini, Stalin, Putin, Mao e soci si possano spiegare con traumi infantili irrisolti. Ma mi è capitato di leggere il Mein Kampf, da Adolf Hitler di Stefano Massini (Einaudi, collezione di teatro). E’ un testo limpido e poetico, che si legge come si beve un bicchier d’acqua. E’ tutto basato, parola per parola, sull’autobiografia che il giovane Hitler dettò mentre era incarcerato per il fallito colpo di stato del 1923, e su altri suoi scritti e discorsi. Esordisce con un conflitto padre-figlio, tra il padre che gli elenca i vantaggi di una vita “a paga fissa”, e lui, Adolf, che invece vuole “cambiare la storia”. Mi frulla un pensiero irriverente: anziché Mein Kampf, quel programma autobiografico, che avrebbe poi realizzato alla lettera, avrebbe potuto intitolarlo: “Io sono Adolf”.

Restiamo ai padri e alle madri. Certo non sono tutti uguali. Freud, ispirandosi alla Psicologia delle folle di Gustave Le Bon, testo ottocentesco ma premonitore dell’epoca in cui sterminate folle in delirio avrebbero inneggiato a dittatori sanguinari nelle piazze d’Europa (ma poi anche in Corea e, col plauso adorante della migliore intellighenzia europea, nella Cina della Rivoluzione culturale), aveva identificato due tipologie di figure paterne: da una parte il tirannico “capo dell’orda primitiva”, che esercita il potere assoluto in modo arbitrario e si fa obbedire ispirando terrore; dall’altra il persuasore, il capo politico o religioso, o anche militare, che si fa valere con la forza morale delle sue argomentazioni, dando ed osservando delle regole. Tra questi padri severi, ma allo stesso tempo gentili, protettivi, annoverava Mosè e il Cristo. Mosè era stato abbandonato dalla madre nelle acque del Nilo per salvargli la vita. “Padre mio perché mi hai abbandonato?”, sarebbero state, secondo Matteo e Marco, le ultime parole di Gesù sulla croce.

La paura dell’abbandono è forse nel Dna dell’umanità. Il cucciolo dell’uomo nasce indifeso, non potrebbe sopravvivere abbandonato a sé stesso. E’ una vecchissima storia quella delle tensioni tra padri e figli e figlie. E tra madri e figli e figlie: Freud, uomo della prima metà del Novecento, era forse portato a sottovalutare un tantino il ruolo delle madri rispetto a quello dei padri. Ne abbonda la grande letteratura di ogni epoca. La tragedia greca ha fornito spunti, temi, definizioni indelebili alla psicoanalisi moderna. Elettra che uccide la madre per vendicare il padre. Edipo che uccide il padre, e così via. E’ evidente che Amleto, il principe di Danimarca immaginato da Shakespeare, ha grossi problemi irrisolti con padre e madre. Oltre che con sé stesso. E’ lo spettro del padre a spingerlo alla vendetta, rivelandogli di essere stato avvelenato dallo zio adultero. E per giunta (“O horrible. O horrible, most horrible!”) a tradimento, impreparato, “nel fiorire dei miei peccati, senza estrema unzione, senza potermi confessare” (Amleto atto I, scena 5- 76-80). C’è chi ritiene che uno dei dilemmi di Amleto, nonché dilemma personale, storico, dello stesso Shakespeare, sia quello dell’Inghilterra dell’epoca, in bilico tra cattolici fedeli al Papa di Roma e la Corona protestante, che aveva abolito il Purgatorio, e quindi mandato liberi a spasso gli spettri vendicativi della guerra civile. 

All’insegna di una tremenda incomprensione (mettiamola pure così) tra padre e figlie si svolge la tragedia di Re Lear. “I vecchi scemi ridiventano bambini, e quando si mostrano viziati vanno trattati con le cattive oltre che con le buone”, spiega una delle figlie assetate di ricambio al potere, e delle spoglie che comporta. Lo spettatore non può che stare dalla parte del vecchio, anche se è un tantino rimbambito. Il conflitto di generazioni è tema ricorrente anche nella letteratura russa. Padri e figli di Turgenev lo fissa negli anni 60 dell’Ottocento. Ai padri, aristocratici, abbarbicati a ideali antiquati, immobili nella loro privilegiata sclerosi, si contrappongono i figli, democratici, materialisti, nichilisti. Rifiutano valori, principi, tradizioni, fedi: l’importante, dichiarano con arroganza, è vivere senza illusioni, senza palliativi, senza falsi idoli. 


Nel Ramo d’oro, l’immaginifica opera di antropologia culturale antichistica di James Frazer, abbiamo un sacco di figli che uccidono i padri, di sudditi che uccidono il re. Eva Cantarella ci ha raccontato da par sua come e perché nei miti e nelle favole dell’antica Grecia i figli disconoscevano i padri (Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico, Feltrinelli 2015), e nella Roma antica ai figli poteva venire una gran voglia di ammazzare il genitore (Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Feltrinelli 2017). Per combinazione pare prevalessero ragioni economiche, non psicologiche, più simili, sotto certi aspetti, in qualche modo a quelle che contrappongono oggigiorno gli interessi di giovani e pensionati. Conflitto generazionale esacerbato laddove i giovani diminuiscono e il numero dei vecchi cresce esponenzialmente, come avviene da decenni in Italia e in Europa, come comincia a succedere anche in Cina.

Comunque stiano le cose, sarà il caso di togliersi dalla testa la pretesa di forzare qualcuno a disconoscere i propri genitori. Anche se suo padre è un poco di buono. La cosa è ancora più difficile se si tratta di un “Padre della patria”. Pater patriae: così aveva accortamente accettato di farsi chiamare, 2000 e rotti anni fa, il giovane Ottaviano. “Per questo mi chiamarono Augusto”, fece incidere su pietra e su bronzo. Gli imperatori successivi recepirono la memoria del Cesare progenitore, anche quando si ammazzavano l’un l’altro in guerre fratricide e in golpe di palazzo, o condannavano il predecessore alla damnatio memoriae. In Turchia, Erdogan comincia ad essere tardivamente in difficoltà anche perché gli rimproverano di aver disconosciuto il padre della patria turca per antonomasia. Mustafà Kemal, detto Atatürk, fu nazionalista e dittatore. Ma laico. Gli islamici e i religiosi di tutte le confessioni lui li metteva in riga. E li metteva in borghese. Mi hanno fatto sempre un po’ impressione le foto di Angelo Roncalli (poi Papa Giovanni XXIII) ritratto in borghese, nella Istanbul degli anni Trenta. Anche al Nunzio apostolico era proibito, come ai ministri di tutte le altre religioni, farsi vedere in abiti religiosi per strada. Atatürk significa “padre dei Turchi”. Il nome gli fu dato, per decreto del Parlamento, nel 1934, quando furono introdotti per legge i cognomi all’occidentale. Provateci a dire agli americani che dovrebbero rinunciare a George Washington e ad Abraham Lincoln. O ai cinesi che dovrebbero disconoscere Mao. Il suo ruolo di “padre della patria” se l’è conquistato quando nel 1949 disse, dal balcone della porta Tienanmen (Porta della Pace celeste): “La Cina si è alzata in piedi”. Magnifico programma. Ma non proprio originale. Fa una certa impressione leggere, in conclusione della pièce di Massini, che la ripetizione ossessiva nei comizi di uno slogan identico, l’esortazione “Germania rialzati in piedi!”, segna l’esordio della strepitosa carriera oratoria del Führer.  La Cina, si capisce, non ha nessuna intenzione di tornare a mettersi in ginocchio. Senza contare che liberarsi dai padri è ancora più difficile per una cultura confuciana, improntata da millenni alla pietà filiale, alla subordinazione assoluta ai genitori. 

A scrollare di dosso dalla Cina Mao ci aveva provato un segretario del Partito comunista cinese che avevo conosciuto quando facevo il corrispondente da Pechino negli anni 80. Si chiamava Hu Yaobang. Oltre alla demaoizzazione aveva grilli di “riforma politica”, cioè di democrazia pluralista, di abbandono del sistema di partito unico. Non lo convinceva il gioco del bilancino per cui i meriti di Mao superavano i demeriti. Hu fu segato senza complimenti da Deng Xiaoping, che pure era il suo padre politico putativo. Deng era stato tra le vittime di Mao. Ma riteneva che senza più padre della patria, senza Mao, si rischiava un “cambio di dinastia”, la cosa più catastrofica nella multi millenaria storia cinese. Erano stati i funerali di Hu a scatenare nel 1989 le manifestazioni degli studenti per la democrazia conclusasi con la strage di piazza Tienanmen. Nella Cina di Xi Jinping, dove si onorano tutti i padri più severi, da Mao agli antichi imperatori, di Hu (e della democrazia) s’è persa la memoria.


Tutti quanti, padri, figli e nipotini, hanno sempre prestato un’attenzione ossessiva alla narrazione, al modo in cui venivano raccontate le cose. Hanno girato e rigirato la storia, o la favola che dir si voglia, a seconda delle convenienze. In Cina hanno continuato a farlo più a lungo di chiunque altro, lo si è fatto per millenni, ogni dinastia ha regolarmente bruciato i libri, ritoccato gli annali, seppellito le storie di quelle precedenti. Talvolta anche gli autori di quelle storie. In Russia, Putin si è sempre dato un gran da fare per aggiustare la narrazione. Fino a concludere perentoriamente, nel 2019, praticamente alla vigilia dell’aggressione all’Ucraina, che “il patriottismo è l’unica ideologia possibile in una società democratica [sic!] moderna”. 

Via il marxismo-leninismo, via la lotta di classe, via l’internazionalismo delle sinistre e delle classi lavoratrici, via le utopie egualitarie. Quel che resta è il nazionalismo imperiale. Al posto del mito della Rivoluzione russa, si è via via ingigantito, nel quarto di secolo putiniano, il mito della “Grande guerra patriottica”. Con i dovuti riaggiustamenti rispetto alla versione originale, che celebrava la vittoria della Russia di Stalin contro l’aggressione hitleriana. Libri scolastici e linea dettata ai media hanno seguito passo passo l’evolversi delle esigenze della propaganda. Del tutto scomparso ovviamente qualsiasi riferimento al fatto che la Russia che sconfisse Hitler in quella “Guerra assoluta” dal 1941 al 1945 era alleata con l’America di Roosevelt e l’Inghilterra di Churchill (mentre prima del 1941 si era legata a Hitler, Stalin aveva fatto un patto col diavolo). Ora, per giustificare la guerra, per spiegare l’obiettivo della  “denazificazione” dell’Ucraina, è indispensabile dare dei nazisti a tutti quanti, da Zelensky a tutti coloro che lo sostengono: la Nato, l’America, l’Europa, l’intero occidente. A tutti, tranne che ovviamente ai nazisti e ai fascisti veri, doc, nostalgici o neofiti, alla destra ultrà che il Cremlino continua ormai da tempo a sostenere e finanziare, in America come in Europa. Non è chiaro se per confondere e destabilizzare, o anche per affinità elettive.

Via Marx, via Lenin, può rientrare Stalin. Non lo Stalin capo dei comunisti e dei proletari di tutto il mondo, ma lo Stalin nazionalista grande russo, edificatore della grande potenza industriale e militare russa, che si è conquistato un posto nel Pantheon accanto a Ivan il Terribile e a Pietro il Grande. Via quindi ogni riferimento alla memoria della repressione staliniana. Memorial, l’associazione fondata nel 1989 per tenere vivo il ricordo delle vittime del Gulag, e che era diventata simbolo dell’apertura della Russia al resto del mondo, è stata chiusa a fine 2021 con l’accusa di agire “per conto di interessi stranieri”. Cancellate, in corso d’opera, anche iniziative che riconoscevano la responsabilità dell’Nkdv di Stalin nell’assassinio e nella sepoltura in fosse comuni a Katyn di 22.000 ufficiali, politici, giornalisti, professori e industriali polacchi. Il primo a chiedere scusa era stato Gorbaciov nel 1990. Ma ancora nel 2010, cioè già in piena èra Putin, la Duma russa aveva riconosciuto la responsabilità sovietica nel massacro dei prigionieri polacchi. Lo facessero oggi sarebbe considerato un crimine, un’inaccettabile denigrazione della patria russa e delle sue forze armate. “La Federazione russa rispetta la memoria dei difensori della patria e protegge la verità storica. Non è consentito sminuire il significato dell’eroismo del popolo nella difesa della patria”, recita l’articolo della Costituzione russa introdotto nel 2020. Poi sono venuti, di anno in anno, inasprimenti delle pene previste per “lesa narrazione ufficiale”. 


Non esiste una narrazione neutrale. A ogni narrazione, a ogni modo di raccontare la storia, corrisponde una specifica linea di azione politica. E viceversa. La glasnost, la trasparenza, la scelta di dire anche verità scomode, sul passato come sul presente, si era accompagnata alla proposta di Gorbaciov di portare la Russia – che allora si chiamava ancora Unione sovietica –  in una “comune casa europea”. Gli era costato caro in casa. Anche perché una parte dell’Europa e dell’occidente non si era fidata (cosa legittima, visto i trascorsi). Ma soprattutto perché si era rifiutata di appoggiare, aiutare, incoraggiare il nuovo corso. Fu un errore storico. Grave, perché le occasioni storiche sprecate non è detto si ripresentino. Caduto il Muro, caduta l’Urss, caduto Gorbaciov ci si era cullati nell’illusione della “fine della storia”, che l’occidente e la democrazia avessero vinto una volta per tutte, e andasse pure a remengo la Russia con tutti filistei. Le cose non stavano così. Sappiamo com’è invece andata. Il ritorno di Putin a narrazioni da epoca di Guerra fredda, l’immagine di un’Europa e un occidente che vorrebbero accerchiare, o addirittura distruggere la Russia fa da sfondo alla scelta di invadere l’Ucraina. E il peggio è che non sappiamo ancora come potrà andare a finire. 

Il non riuscire a fare i conti coi padri vale anche per i padri di partito. Ed è ancora più complicato per partiti che hanno più di un padre. E’ bastato che nel Pd si presentasse una tessera con gli occhi di Enrico Berlinguer perché saltasse su qualcuno a proporre per le tessere successive un ritratto di De Gasperi. Non ci si libera a cuor leggero dei padri. Sono parte della tua eredità. Anche del sangue elettorale che scorre nelle tue vene. Non si inventano partiti a tavolino. Ma leader coraggiosi e lungimiranti cambiano i partiti. Togliatti aveva fatto la svolta di Salerno, ma non aveva rotto con l’Urss. Il Pci di Berlinguer sì. A Mosca l’avevano capito. A Washington no. Ho conosciuto l’ambasciatore di Carter a Roma Dick Gardner. Mi ha fatto una certa impressione sentirgli dire, nel film su Berlinguer di Veltroni, che aveva consigliato di non aprire al Pci perché Berlinguer continuava a dire bene della Rivoluzione d’ottobre! Gianfranco Fini aveva disconosciuto il fascismo. Mal gliene era incolto. Giorgia Meloni non vuole mollare le origini, il Movimento sociale, la fiamma, e il resto, insomma quello che la collega alle origini del movimento che lei guida. Ha forse ragione chi dice che è futile chiederle di dichiararsi antifascista. Mettiamoci il cuore in pace: non lo farà. 

Il rifiuto di un taglio netto con le radici fasciste sembra non averle causato finora grossi problemi in Italia. Potrebbe costarle più caro in Europa. Mi ero fatto l’idea che la sua ambizione fosse essere accettata in una possibile futura maggioranza “tipo Ursula” (popolari, socialisti e tanto da lei vituperati moderati tipo Macron). Sembra che abbia cambiato linea. “Mai con la sinistra”, cioè mai coi socialisti, ha detto a Pesaro. Ci crede davvero o è solo per qualche voto in più? Meloni, si sa, è atlantista ma non è molto europeista. Ha buoni rapporti con Biden, ma si troverebbe assai più a suo agio con un presidente Trump. Si capisce che voglia tenere il piede in due staffe. Nell’Europa del dopo elezioni potrebbero magari accettarla, facendo di necessità virtù, in una maggioranza allargata ai Conservatori che lei presiede. Ma non può non rendersi conto che mezza Europa storce il naso al suo pedigree e ai segnali di deriva autoritaria, lesiva dei diritti, all’ambizione, non troppo nascosta, di fare la donna sola al comando. Le sarà molto più dura imbarcare, oltre al già ingombrante album di famiglia, tutta la zavorra sovranista e illiberale: i tuttora appestati di Alternative für Deutschland in Germania, Orbán, Salvini e Vannacci, la Le Pen e i camerati di Vox. 


Dipende da come andranno le europee. Non ci sono previsioni sull’esito complessivo.  Solo sommatorie di sondaggi nazionali. Elezioni così complesse hanno già riservato sorprese. Facevo il corrispondente dalla Francia quando alle europee del 1994 i partiti che si alternavano al governo a Parigi, socialisti e gollisti, subirono una batosta epocale, che nessuno si aspettava, e vinsero populisti prima sconosciuti, tipo Bernard Tapie. Soffia un brutto vento. Nelle colossali elezioni indiane, Modi si appresta a vincere un terzo mandato raccontando che i 200 milioni di musulmani indiani sarebbero degli “infiltrati”. Con buona pace del padre dell’Indipendenza, il venerato Gandhi che predicava la convivenza di tutti e di tutte le religioni. In America Trump era già stato eletto già una volta, nel 2016, raccontando che migranti e delinquenti stanno invadendo l’America. Potrebbe essere rieletto con lo stesso argomento, più il vittimismo per la persecuzione che starebbe subendo dai poteri forti: giudici, giornali, establishment democratico, finanza, La narrazione è tutto. Sotto la narrazione niente. I contenuti passano in secondo piano. Sembra non importi più molto come stiano le cose, ma come si racconta la favola. Io bevevo quelle che mi raccontava mio padre, saltando di palo in frasca, interrompendosi nel bel mezzo di un racconto per cominciarne un altro. A Giorgia Meloni va dato atto di aver intuito per tempo quanto vale la narrazione. Si era ripromessa di “cambiare la narrazione”. Su tutto, ma in particolare su 25 aprile, liberazione, fascismo, antifascismo. In altre parole sui padri. Detto fatto. 

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