Gli attori Kirk Barge nei panni di Shylock, Alan Steele (Antonio) e Nicole Copper (Portia) in "Il mercante di Venezia" a Glasgow (Getty Images) 

Le tremende vendette che continuano a muovere la politica internazionale

Siegmund Ginzberg

Alimentano i conflitti peggiori (e non portano alla vittoria)Da Shakespeare al medio oriente, dall'Iliade al 7 ottobre, la linea sottile fra risposta legittima e punizione spropositata. È la matematica della rappresaglia

La vendetta continua a muovere il mondo. L’importante è vendicarsi, verrebbe da dire parafrasando il barone Pierre de Coubertin. E certo per vincere bisogna partecipare. Ma la partecipazione, come la vendetta, non dà la vittoria. Vendetta, risposta, ritorsione, rappresaglia sono “inevitabili”, dicono da una parte e dall’altra. Ma al tempo stesso si dosa il come e il quando. C’è un’aritmetica della vendetta. Guai a strafare, suona l’avvertimento da più parti, da amici e nemici, ma soprattutto da amici. Vendetta chiama vendetta. Ma, di vendetta in vendetta, prima o poi rischia di finire in tragedia.

 

Gli autori elisabettiani avevano fatto della “Revenger’s Tragedy” un intero genere a sé. Amleto è ossessionato dalla vendetta

   
In effetti, da Sofocle ed Euripide a Shakespeare, la vendetta è l’argomento principe delle tragedie. Gli autori dell’Inghilterra elisabettiana avevano fatto della Revenger’s Tragedy un intero genere a sé. Amleto è ossessionato dalla vendetta. Finisce che si ammazzano l’un l’altro, dopo molti altri lutti: lui, il fratello della sua amata Ofelia, lo zio Claudio che ha ucciso suo padre, la mamma adultera. Persino il conquistatore norvegese Fortebraccio, abituato alle battaglie, resta sconvolto dalla scena di massacro che gli si presenta nel finale. Zeppi di orrori della vendetta sono il Macbeth e il Coriolano. Storia di tremende vendette, grondante sangue, mutilazioni e orrori è il Tito Andronico, la prima delle tragedie di Shakespeare. Il tema della vendetta ricorre in quasi tutti i 34 drammi del First Folio. Revenge, revenged, vengeance, avenge, avenged ricorrono 259 volte nel corpus delle opere. 


Alla vendetta si richiama, nel Mercante di Venezia, Shylock, quando gli viene chiesto perché si ostina a pretendere mezza libbra di carne dal suo debitore insolvente. A che mai gli potrebbe servire? “A farne esca per i pesci. Se non altro, nutrirà almeno la mia vendetta. Mi ha danneggiato, mi ha bloccato mezzo milione, ha gioito quando perdevo, deriso i miei guadagni, disprezzato la mia gente, mandato a monte i miei migliori affari, scoraggiato i miei amici, incoraggiato i miei nemici, e per quale ragione? – Io sono ebreo. E non ha occhi un ebreo? Un ebreo non ha mani, organi, arti, sensi, affetti, passioni; non è nutrito dallo stesso cibo, ferito con le stesse armi, soggetto agli stessi mali, curato dagli stessi farmaci, riscaldato e raffreddato dagli stessi inverni ed estati […]? Se ci pungete noi non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate torto noi non ci vendichiamo? Se siamo come voi nel resto, anche in ciò vi somigliamo […] la vendetta! […] Ma sì, la vendetta. Nella cattiveria (villainy) che mi insegnate non mi sarà difficile superare i miei istruttori”. (Il Mercante di Venezia, Atto III, scena I, 48 e seguenti).

 
Shylock viene sconfitto dall’abile e colta Porzia, travestita da avvocato (le donne potevano nel 1500 fare le regine – e che regina Elisabetta I ! – ma non gli avvocati), con l’argomento che ha ragione sì a chiedere vendetta, pretendere che vengano rispettati i contratti, ma ha torto nel pretendere un eccesso di vendetta. Prenda pure la sua libbra di carne. Ma sarà condannato a morte se verserà anche una sola goccia di sangue. Shylock ha fatto male i suoi calcoli. Accecato dalla sete di vendetta ha voluto essere ripagato più di quanto gli spetta. E i suoi nemici veneziani ne approfittano per portargli via tutto. Il Mercante è una commedia. A differenza che nelle tragedie non muore nessuno. Ma fa lo stesso accapponare la pelle.


Israele, è chiaro, doveva e poteva vendicarsi per il 7 ottobre. Ma si è reso colpevole di eccesso di vendetta. E’ questo il rimprovero che gli viene mosso da Biden, e da quasi tutto il resto del mondo. Può e deve difendersi. Ma senza esagerare. Può e deve reagire alle minacce proferite e messe in atto da chi vuole male a Israele e agli ebrei, da chi nemmeno li riconosce e vorrebbe cancellare lo Stato ebraico dalla faccia della terra. Ma entro certi limiti. Può, anzi deve rispondere all’Iran che per la prima volta ha provato a crivellarlo di missili direttamente, e non più solo per interposti hezbollah o houthi. Ma in modo proporzionato. C’è tutto un codice, una matematica della vendetta. C’è un problema di proporzionalità. Senza la quale si passa dalla parte del torto. E, cosa più grave di tutte, passando dalla parte del torto si rischia di perdere sostegno, alleati, insomma di perdere la guerra. 


“Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, ferita per ferita, bruciatura per bruciatura, livido per livido”, prescrive la legge di Mosè (Esodo, III, 21, 23). La legge del taglione, che ricorre in almeno tre formulazioni nella Bibbia. Si tratta, secondo molti esegeti, di una codificazione del diritto che prende il posto della vendetta. Così come fece poi la tragedia greca. Frena la vendetta prescrivendo un minimo di proporzionalità. E’ anche il parere di Agostino, il quale, in polemica con i manichei, vi vede uno strumento per “smorzare il fuoco, evitare che si propaghi, anziché attizzarlo”. 

  

La legge del taglione è a ben vedere moderazione di una vendetta che invece di per sé è eccesso, sproporzione, di crescendo in crescendo

  
La legge del taglione è a ben vedere moderazione della vendetta, non vendetta. La vendetta è invece di per sé eccesso, sproporzione. Tu mi fai un torto, io rispondo con una punizione spropositata. E così via, di crescendo in crescendo. La quantificazione della vendetta, la sua aritmetica e la sua geometria, i suoi eccessi, la sua progressione esponenziale, le sue iperboli, sono un tema molto presente, e molto studiato nel teatro elisabettiano. C’è chi nota che l’Inghilterra di quel primo boom dei commerci e della finanza aveva importato dall’Italia la partita doppia e si esercitava anche in letteratura in una contabilità di dare e avere in termini di torti e vendette. Altri controbattono che la vendetta per sua natura eccede l’equilibrio del dare e avere. Non può che eccedere, uscire dalle righe.

 
La vendetta è un fatto collettivo, non individuale
. Se gli individui sono portati a vendicarsi è anche perché sono spinti dalle convenzioni, dal clima sociale e culturale in cui agiscono. Vale per il gruppo, il clan, e anche per gli stati. C’è chi sostiene addirittura che la vendetta sia stata il motore della storia. E’ tutta una storia di vendette l’Iliade, a cominciare dal motivo per cui i greci assediano Troia (la sottrazione di Elena al marito). Così come sono una storia di vendette le Guerre persiane narrate da Erodoto. Ma, grossomodo negli stessi secoli, nella Cina degli stati combattenti, i confuciani che pure consideravano un dovere la vendetta individuale – un obbligo assoluto per il figlio vendicare il padre assassinato – negavano agli stati il diritto di fare guerre per vendetta. Le facevano, le guerre, ma per motivi più solidi. Quasi tutto quello che vorreste sapere sulle guerre per vendetta, fino ai giorni nostri, lo trovate in un saggio recente della studiosa della George Washington University, Rachel M. Stein: Vengeful Citizens, Violent States: A Theory of War and Revenge (Cambridge University Press, 2019). Vi si teorizza addirittura che la vendetta, la punizione dei torti sia alle origini di tutte le manifestazioni della violenza umana, e di tutte le guerre, comprese quelle dei nostri tempi. Un tantino meccanico, esagerato. Tra le tesi c’è la constatazione che anche alle democrazie capita di fare guerre di vendetta e l’individuazione di un nesso matematico, statistico, con tanto di tabelle, cifre, grafici, tra la propensione della popolazione di un determinato paese a vendicarsi (magari con la pena di morte) dei propri criminali, e la propensione dello stesso paese a ricorrere alla forza contro le minacce proferite, messe in atto, o anche solo percepite, dall’esterno.  

  

Trump promette un repulisti totale. Un analogo principio aveva segnato l’accesso al potere di Orbán in Ungheria e di Kaczynski in Polonia

  
La vendetta continua a muovere la politica internazionale. Ma anche le politiche interne. Il motore di un’eventuale nuova presidenza Trump in America si preannuncia come una vendetta feroce contro chi ha ostacolato il suo primo mandato e, soprattutto, la rielezione: i giudici, gli altri contropoteri, i giornali, le tv, i militari, i servizi di intelligence che l’avrebbero “tradito”. La vendetta di Trump minaccia tutti i “cattivi”, “maligni”, “demoniaci” che gli hanno dato fastidio. Promette un repulisti totale. E proprio per questo ha seguito.  Un osservatore acuto, Ivan Krastev, ha ricordato che un analogo principio di vendetta aveva contrassegnato l’accesso al potere di Viktor Orbán in Ungheria nel 2010, di Jaroslaw Kaczynski in Polonia nel 2015. Si sono vendicati dei nemici anziché puntare alla pacificazione, alla ricomposizione. Le destre estreme della vendetta fanno un punto d’onore. 


L’Ucraina vuole vendicarsi dell’aggressione russa. Putin deve vendicarsi delle perdite subite. La Cina non può permettersi di perdere la faccia su Taiwan. Israele e Iran hanno un bisogno assoluto, esistenziale, di mostrarsi l’uno più duro dell’altro. Chi si mostrasse debole rischierebbe di essere sbranato dall’opposizione interna. E farebbe da calamita a un crescendo di aggressione. La minaccia di vendetta deve essere credibile se vuole avere un effetto deterrente. Essere irragionevoli non è un demerito, è diventato un asset. “Israele deve essere considerato alla stregua di un cane pazzo, troppo pericoloso perché lo si disturbi”, è il detto attribuito a Moshe Dayan (che pure pazzo non era e sapeva moderare la vendetta). Ripenso a Shakespeare e al rapporto stretto che c’è nei suoi drammi tra vendetta e pazzia, o la finzione di pazzia. Il messaggio degli ayatollah nel lanciare centinaia di droni e missili contro Israele sarebbe: “Siamo pazzi abbastanza da provocare il cane pazzo, quindi siamo più pazzi di voi”. Ma per affermare il principio di vendetta, nel minacciare vendette più tremende di quelle precedenti, potrebbero essersi giocati le ambizioni nucleari. L’atomica è sì e no tollerabile in mano a una potenza “responsabile”. Non a chi minaccia di usarla per vendetta. 


Eppure da Teheran si erano fatti in quattro per preavvertire che la risposta all’uccisione del generale e di altri ufficiali dei pasdaran nella loro sede diplomatica a Damasco sarebbe stata “calibrata”. A Teheran ora parlano di “nuova equazione” (riecco che spunta la matematica): a ogni azione una rappresaglia. Ma accresciuta, non più necessariamente proporzionale. E rapida, nel giro di minuti, non più a rilascio ritardato. Israele non ha l’abitudine di promettere rappresaglie “misurate”. Washington ha provato a convincerli che a questo punto avrebbero potuto chiudere lì il round, dichiarare il match pari e patta, accontentarsi di quel che appare una vendetta tentata ma fallita, incassare l’abbattimento di quasi tutti i droni e missili, grazie all’aiuto non solo Usa ma anche di Giordania, Iraq e sauditi. 


Ci si sta rassegnando alla “inevitabilità” della risposta. L’inevitabilità – proclamata da una parte come dall’altra – viene fatta discendere dal fatto che l’avversario avrebbe superato una soglia, un limite. “Inevitabile” non dice quando. Non è detto valga l’idea che la vendetta vada servita fredda. Né che sia una punizione efficace prolungare l’attesa di un colpo costantemente temuto. In previsione di un attacco l’Iran avrebbe sgomberato alcune delle proprie basi in Siria. Un attacco a installazioni militari iraniane in Siria o in Libano, o un’operazione “chirurgica” contro esponenti dei pasdaran, o un assassinio mirato tipo quello del 2020 a danno di Mohsen Fakrizadeh, considerato il “padre” del nucleare iraniano, a rigore non rappresenterebbe una escalation, una soglia nuova. Israele non ha mai smesso di farlo. Cosa diversa sarebbe un attacco a installazioni nucleari, o militari, o infrastrutture petrolifere in Iran. Sarebbe fattibile. Sono anni, forse decenni che i piloti dell’Idf si stanno addestrando su questo tipo di obiettivi. Anche gli attacchi cibernetici hanno precedenti. Sono passati quindici anni da quando erano riusciti a infilare il virus Stuxnet nel software dell’impianto per l’arricchimento dell’uranio di Natanz, nelle viscere profonde della montagna. Che ci sia la tentazione di chiudere una volta per tutte la questione con le maniere forti? 

  

Una cosa è usare le portaerei come deterrente a sostegno dei “non fatelo”. Altra cosa pensare che si possa fare in Iran quel che si fece in Iraq

  
La bomba non si ferma con punture di spillo. La bomba si ferma se si annienta chi se la vuole fare. Oppure se lo si convince che è nel suo interesse rinunciarvi. Né l’una cosa né l’altra paiono al momento fattibili. Ma è evidente che si escludono a vicenda. Quel che di accordo sul nucleare era stato tessuto da Obama e dall’Europa è stato a suo tempo disfatto da Trump. Chi è familiare con quella trattativa che si svolse a Ginevra ricorda che sul tavolo c’era anche il riconoscimento di Israele da parte dell’Iran. Una guerra all’Iran è per fantasie malate. E’ roba da dottor Stranamore. Anche se c’è chi ci crede, o fa finta di crederci. Qualcuno nel governo Netanyahu, ma certo non nel Pentagono di Biden. Una cosa è usare le portaerei come deterrente, come argomento a sostegno dei don’t, dei “non fatelo” intimati a ripetizione dalla Casa Bianca, e mezzo inascoltati. Altra cosa pensare che si possa fare in Iran quel che vent’anni fa si fece in Iraq. Sarebbe comunque proprio l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno.  


Tutto sembra continuamente, faticosamente, pericolosamente in bilico. Si aspettano le elezioni americane. Ma non è detto che la valanga tenga fino ad allora. Per stabilizzare ci vorrebbe una soluzione complessiva. Ma non si può convincere qualcuno a un accordo di convivenza, se non lo convinci che non vuoi distruggerlo. Vale per l’Iran, così come vale per la Russia, o per la Cina. Gli ayatollah sono terrorizzati dalla prospettiva di un cambio di regime, di perdere il potere. Ma nessuno in Iran può davvero volere la guerra. Nemmeno chi è al potere, nemmeno i pasdaran beneficiati dal regime. Gli è bastata quella sanguinosissima combattuta negli anni 80, una, forse due generazioni fa, contro l’Iraq di Saddam. Bisognerà però anche convincerli che i patti di Abramo non sono diretti contro di loro, non hanno come obiettivo accerchiare l’Iran sciita con un nodo scorsoio di paesi sunniti. Un po’ meno logica della vendetta, un po’ più logica dell’interesse, della convenienza insomma. O non se ne esce.

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