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Il Foglio del weekend

Amori e psiche. Le molte donne di Jung, padre della psicoanalisi

Sandra Petrignani

Pazienti, ex pazienti, terapeute formatesi con lui, segretarie, semplici ammiratrici. Oltre alla moglie, Emma Rauschenbach, e all’ispiratrice-amante di una vita Toni Wolff, ecco le jungfrauen. Nel “Dialogo” con Aniela Jaffé, l’allieva che più di tutti ha saputo raccontare il Maestro

Le chiamavano con ironia le jungfrauen che in tedesco significa vergini, ma il gioco è naturalmente sulla combinazione di due parole: jung, che vuol dire giovane, e frauen che è il plurale di frau, donna. E dunque le donne di Jung, il fondatore della psicologia analitica, lo svizzero Carl Gustav, che di donne effettivamente intorno – e generalmente adoranti – ne ha sempre avute tante, soprattutto da vecchio. Pazienti, ex pazienti, terapeute formatesi con lui, segretarie, semplici ammiratrici. Oltre alla moglie, Emma Rauschenbach, e all’ispiratrice-amante di una vita Toni Wolff. Tutte intelligenti, brillanti, capaci di lasciare un segno nella storia della psicoanalisi attraverso l’impegno professionale e i libri scritti, anche grazie alla cura, l’incoraggiamento e l’aiuto dello stesso Jung, ma sempre all’ombra del Maestro, persino nel caso forse più famoso e indipendente, quello di Marie Louise von Franz, la grande studiosa della fiaba, non a caso mente della “Fondazione per la psicologia junghiana” e della rivista Jungiana. Le altre si chiamavano Barbara Hannah, cui dobbiamo la biografia Jung, his Life and Work e che – pur di 23 anni più anziana – fu la compagna di von Franz (su istigazione del comune pigmalione, naturalmente); Jolande Jacobi, fra i membri più attivi dell’Istituto C. G. Jung di Küsnacht; Liliane Frey-Rohn, che ha approfondito le differenze delle teorie sull’inconscio in Freud e in Jung; Rivkah Schärf Kluger, studiosa in senso junghiano della Bibbia; Olga Fröbe-Kapteyn, fondatrice dei “colloqui di Eranos” ad Ascona, sul lago Maggiore, dedicati – per ispirazione di Jung – al confronto fra pensiero orientale e pensiero occidentale; Aniela Jaffé, autrice come ghostwriter (ma per volere dello stesso Jung con nome in copertina) del libro più popolare del Maestro,

Ricordi, sogni, riflessioni, una sorta di autobiografia che il vecchio psicoterapeuta si ostinava a non voler dare in pasto al pubblico e che infatti uscì solo nell’anno della sua morte, il 1961. Fu il frutto, quel libro fortunatissimo, dell’infinita pazienza di Jaffé che per anni raccolse, sistemò, trascrisse le lunghe conversazioni con Jung assecondandolo nei mille capricci, indecisioni, voglia di dirsi e ritrosie, sottoponendogli i testi, rivedendoli secondo i di lui dubbi, e poi soprattutto tagliando tagliando tagliando ore e ore di colloqui, pressata da una parte dai ripensamenti del protagonista, dall’altro dagli editori che non vedevano l’ora di pubblicare quel difficile risultato e che volevano, fra l’altro, fare sparire il nome e il ruolo della fedele amanuense.

Adesso è il suo bel viso, accanto a quello del Maestro, anche se in secondo piano rispetto a lui, che trionfa sulla copertina di In dialogo con Carl Gustav Jung (Bollati Boringhieri, 414 pagine, 30 euro, introduzione di Luigi Zoja) ed è il suo nome, Aniela Jaffé, che giustamente spicca in alto. Si tratta infatti della riorganizzazione del tanto materiale rimasto fuori dal volume dei Ricordi, sogni, riflessioni, materiale a cui Jaffé lavorò intensamente negli ultimi anni di vita (morì nell’ottobre del 1991) superando finalmente i tanti contrasti con editori ed eredi, gli uni volevano ancora una volta ridurre la centralità del suo ruolo, gli altri temevano che approfondire la vita intima di Jung (in particolare il rapporto adulterino con Toni Wolff) ne danneggiasse la figura. E comunque doveva passare altro tempo prima che il volume, consegnato dall’autrice a un altro junghiano, Robert Hinshaw, vedesse la luce. Aniela era, come scrive Hinshaw nella premessa al libro: “estremamente colta, dotata di mente e pensiero di notevole vitalità e apertura, maturata attraverso le molteplici sfide della vita”. Sfide che vengono poi raccontate all’interno di un lungo preziosissimo commento storico, di quasi 200 pagine, affidato alla studiosa e amica Elena Fischli e che costituiscono la parte forse più interessante del volume.

E questo senza togliere nulla alla grandezza del pensiero junghiano che vi è esposto nelle pagine centrali con dovizia di riflessioni e ricordi del protagonista in una forma diretta, spontanea e disordinata, che tanto gli somiglia rendendolo vivo e presente. Ma si tratta di temi già abbondantemente noti, almeno ai suoi studiosi. Mentre di Jaffé sapevamo pochissimo. Il ruolo centrale avuto per Ricordi, sogni, riflessioni soprattutto, e poi la cura delle Lettere del Maestro, e i tanti saggi a lui dedicati, nonché la bella ricerca sul mito e quella sul rapporto fra inconscio e parapsicologia che la portò alla stesura di un originale Sogni, profezie e apparizioni (tradotto in Italia nel 1987 dalle Edizioni Mediterranee). Le fotografie raccolte in In dialogo ce la mostrano giovane e carina che suona la fisarmonica e, più avanti nell’età, accanto a Jung, il quale con l’immancabile pipa in bocca la guarda soddisfatto e paterno.

Del resto lo psicoanalista svizzero fu nella vita di Aniela un vero e proprio salvatore, che aveva subito riconosciuto in lei grandi doti intellettuali e spirituali. Nata a Berlino nel 1903 in una facoltosa famiglia ebrea, aveva studiato psicologia infantile con Jean Piaget, filosofia con Ernst Cassirer, amico dei genitori, e arte con Erwin Panofsky. Il fatto che fosse battezzata non impedì al nazismo di stroncarne sul nascere la promettente carriera universitaria. Il matrimonio con il rampollo di una famiglia di banchieri di Basilea, Jean Dreyfus, le permise di sfuggire alle persecuzioni riparando in Svizzera dove comunque anche solo il nome ebreo di lui li esponeva al pericolo. Intorno al 1935, molte università svizzere stavano chiudendo a docenti e studenti di appartenenza ebraica. Aniela, intanto, aveva perso un bambino e saputo di non poterne avere altri. Il matrimonio cominciò a scricchiolare e presto finì trasformandosi in una solida amicizia. Cercò allora una ragione d’esistenza immergendosi nello studio della psicologia junghiana. Cominciò a frequentare i seminari del Club raccoltosi a Zurigo intorno a Jung e diventò amica di Rivkah Schärf e Liliane Frey Rohn.

Fu grazie alla loro mediazione che lo conobbe e Jung, rimasto impressionato dai sogni di quella donna fragile e provata, le offerse di prenderla in terapia, esonerandola dal pagare un onorario che lei non avrebbe potuto permettersi e inserendola in piccole e grandi ricerche che qualcosa le permettevano di guadagnare. Jung era ammirato dal genio mite di Aniela e dal suo coraggio. Era stato molto in ansia quando la giovane paziente aveva deciso di tornare a Berlino per mettere in salvo gli anziani genitori facendoli scappare appena in tempo in Inghilterra. Nel 1940, dopo la capitolazione della Francia, quando anche in Svizzera si temette un’invasione tedesca, la famiglia Jung prese Aniela con sé in un rifugio che avevano allestito nel Cantone Vallese. Per tutto questo e per altri atteggiamenti e comportamenti del celebre psicologo verso gli ebrei, Jaffé lo difese sempre dalle accuse di filonazismo che gli sarebbero state mosse in seguito. Ebbe a dire fra l’altro: “Ho iniziato la mia analisi con lui nel periodo peggiore del nazismo, e all’inizio il problema ebraico era in primo piano. Se io, con la mia estrema sensibilità, avessi avuto il minimo sentore di ciò [ossia di un atteggiamento antisemita di Jung], mi sarei immediatamente offesa. In realtà, invece, quelle conversazioni mi hanno a poco a poco guarito dal mio complesso ebraico o senso di inferiorità”.

In realtà Jung aveva nei confronti della politica, come di ogni altro aspetto della vita pratica, compreso il modo di fare il terapeuta, una posizione originalissima di totale libertà e individualismo che potremmo definire anarchica e che molti hanno analizzato e approfondito da diversi punti di vista senza poter arrivare ad affibbiargli etichette di nessun genere. Eviteremo dunque di farlo adesso, tornando invece alle jungfrauen. Per dire che oltre alle personalità già menzionate, che si possono tutte ritrovare nell’imprescindibile Oltre l’Ombra. Donne intorno a Jung (Borla, 1995) della psicoterapeuta napoletana Nadia Neri, vanno sicuramente aggiunte Sabine Spielrein e Christiana Morgan. Grande amore della giovinezza la prima, di cui molto si è parlato (anche grazie a due film: quello di Roberto Faenza, Prendimi l’anima del 2002 e quello di David Cronenberg, A Dangerous Method del 2011): non rientra esattamente nella figura di allieva adorante, anzi non era tipo da farsi mettere i piedi in testa e, oltre a sconvolgere l’appena iniziata quotidianità matrimoniale di Carl e di Emma, ebbe un ruolo centrale nel conflitto che separò i destini scientifici di Freud e di Jung.

L’americana Christiana Morgan è invece forse la meno nota delle jungfrauen. Non risulta che intrattenesse col Maestro una relazione intima oltre quella terapeutica, nonostante l’irrefrenabile libertà di costumi e la capacità di intessere rapporti sentimental-sessuali multipli, ma lui era estremamente affascinato dalle visioni che la paziente americana era in grado di produrre a getto continuo e la vedeva in terapia ogni giorno, anche due volte al giorno. La chiamavano “immaginazione attiva” ed era il prodotto di una specie di stato di trance. Oltretutto Christiana era una brava artista e quindi in grado di disegnare le sue visioni che mandavano in visibilio Jung per le risonanze archetipiche che vi scorgeva. E questo mentre il marito di lei, William Morgan, si trovava in terapia con Toni Wolff. Senza dimenticare che l’amante di Christiana, lo psicoanalista Henry Murray, si era formato appena un anno prima, il 1925, proprio a Küsnacht con lo stesso Jung. E del resto non aveva proprio Jung spiegato a Freud, quando ancora erano in buoni rapporti: “Il prerequisito di un buon matrimonio è la licenza di essere infedele”? Licenza prevalentemente se non esclusivamente maschile, però. E infatti anche con Christiana, Jung tentò la normalizzazione in senso femminile, cercando di convincerla a lasciare Henry per fare un figlio col marito. Tanto, sosteneva, il suo amante ideale era lui, Carl Gustav! Soltanto ideale, beninteso.

Succedeva anche che i coniugi Morgan parlassero fra loro lì sul lago di Zurigo, nel portico dell’Hotel Sonne, dove abitualmente dimoravano i pazienti che venivano da lontano. Si scambiavano descrizioni delle loro visioni facendo libere associazioni ad alta voce. I presenti sotto quel portico non potevano non ascoltare e quindi intervenire mettendo a confronto le proprie altrettanto attivissime immaginazioni. Insomma, era tutto un generale scendere pubblicamente nel profondo fra jungfrauen e jungherren in quel di Küsnacht, in un’eccitante, davvero stravagante maniera di concepire la psicoanalisi. Ma erano gli anni Venti, un’epoca di per sé innovativa e “ruggente” in tutti i campi, figuriamoci in quello di una non ancora strutturata scienza, o pseudoscienza che fosse. Freud, al quale comunque qualcosa sarà arrivato dei poco ortodossi comportamenti terapeutici dell’ex pupillo, sarà inorridito. Da più di un decennio si era consumata la rottura fra loro, talmente incolmabile che Sigmund rifiutò sdegnosamente persino l’aiuto (anche in denaro) che Carl aveva tentato di prestargli quando l’Associazione psicoanalitica – di cui era diventato presidente – si era piegata agli ordini del nazismo di escludere gli ebrei. Una rottura che, almeno per Jung, restò una ferita mai del tutto rimarginata se Anna Freud, come si legge ora nel libro In dialogo, volendo pubblicare le lettere che il padre aveva scambiato con lui, si vide opporre un netto rifiuto: Jung infatti non se la sentiva di rileggere quelle lettere per poter dare il consenso. Rimandava tutto a dopo la propria morte.

Avevano sicuramente personalità agli antipodi, i due grandi padri della psicoanalisi. C’è per esempio un capitolo in questo libro che racconta il rapporto affettivo intrattenuto da Jung con le cose. Qualcosa di impensabile in Freud, che da grande collezionista qual era, aveva con gli oggetti un rapporto di possesso e perfezionismo. Confessa Jung a Jaffè: “Mi devo informare di quel che vogliono le cose, esse mi dicono quel che desiderano e io devo servirle” e parla di participation mystique al pari di ciò che provava verso certe donne (per esempio verso Christiana Morgan). “Anche lo scrivere mi giunge come una claim. Il foglio dice ‘voglio essere scritto’ e in quel momento – e in quel momento soltanto – mi ritrovo la giusta disposizione e riesco a scrivere”. E comunque per scrivere doveva trovarsi in mezzo alle sue cose, possibilmente in solitudine, e nelle sue due case: nello studio zeppo di oggetti della dimora borghese di Küsnacht dove riceveva i pazienti, o in quella di Bollingen, la casa “dell’anima”, casa-torre costruita con le sue mani una quarantina di chilometri più in basso, sempre sul lago di Zurigo, il luogo del suo amore con Toni. Diceva: “Io soffro sempre se non posso stare da solo”.

Da solo, sì, ma con una donna pronta a prendersi cura di lui.

Come gli accadde dopo la morte di Toni nel marzo 1953 e dopo la morte di Emma nel novembre del 1955 (e per inciso di entrambe, argomento sempre evitato, parla finalmente In dialogo). Carl sarebbe vissuto ancora fino al 6 giugno del 1961. Fu proprio Emma, avvicinandosi alla fine, a chiedere alla nobildonna inglese Ruth Bailey, che il marito aveva conosciuto molti anni prima durante un viaggio in Africa e che era diventata la simpaticissima amica di entrambi, di trasferirsi dall’Inghilterra a Küsnacht per stare vicina al vedovo, quando fosse venuto il momento. E così fu. Ruth, all’oscuro di psicologia, attese perfettamente al suo compito, arrivando persino, e di sua iniziativa, a trascrive gli ultimi sogni di quell’uomo eccezionale sempre oniricamente molto attivo. La vediamo accanto a Jung sorridente e partecipe in diverse fotografie con l’aria di una complice più che di una badante qualsiasi. E quando Jung si spense, lei non fece altro che togliere il disturbo. Prese discretamente la sua roba e se ne tornò in patria.

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