Palazzo Chigi, illuminato con i colori dell'Italia (LaPresse)

Girotondo costìtuzionale

Premierato? Parliamone. Idee trasversali e controcorrente per non perdere un'occasione

La riforma modello Meloni non è granché ma offre la possibilità di fare un passo in avanti, più lontano dallo status quo. Migliorare il testo si può. Le proposte di Quagliarello, Ceccanti, Morando, Sileoni e D'Amico

Le riforme oltre la noia

Nonostante il cambiamento della forma di governo sia inutile oggetto di attenzione da oltre quarant’anni, vi sono delle buone ragioni per aprire un pubblico dibattito sulla proposta di premierato avanzata dal governo. La discussione, innanzitutto, è suggerita dalla storia delle istituzioni che ci ha insegnato come le riforme vadano in porto quando meno te lo aspetti e per motivi, il più delle volte, inintenzionali. Visto che si è messo in moto il processo, è dunque bene prendervi parte. Forse andrà come è fin qui sempre andata ma se una serie di fattori dovessero allinearsi, non esserci stati sarebbe peccato mortale. Anche un’altra ragione può essere desunta dai classici. Essi prescrivono che non siano i governi a fare le Costituzioni, in quanto essi derivano dalle Costituzioni. Sarebbe per questo un bene che l’eventuale riforma sia approvata con la maggioranza dei due terzi: nessun potere di veto alle opposizioni ma nessuno sconto alla maggioranza sulla necessità di percorrere tale via. Oltre le questioni di metodo ve ne sono altre di merito e una si impone su tutte: lo stato penoso nel quale versano le nostre istituzioni. Il procedimento legislativo produce leggi a tal punto fatte male da pervertire il rapporto tra il legislativo e il potere giudiziario, perché spesso obbliga quest’ultimo a “inventare” la norma. La rappresentanza politica poi, obbedisce a una “legge ferra”, per la quale la classe politica espressa da una legislatura è sempre peggiore di quella precedente. Tutto ciò porta a ritenere che di una riforma ci sia urgenza e, per questo, è bene fissare pochi ma essenziali “principi non negoziabili”.

Nel campo delle istituzioni certamente si può inventare. I padri della V Repubblica, ad esempio, hanno inventato. Alcuni principi, però, non possono essere violati. Nel nostro caso: limitarsi a prevedere il nome del premier indicato sulla scheda renderebbe tutto più semplice perché ci si potrebbe più facilmente accostare al “premierato realizzato”, ovvero alla forma del governo di Gabinetto inglese. E’ legittimo (anche se non per forza intelligente) volere a tutti i costi l’elezione diretta del premier ma, in questo caso, dev’essere rispettato il principio del cinquanta per cento più uno dei voti espressi. Il combinato disposto tra elezione diretta e premier di minoranza va considerato un ossimoro. La legge elettorale, per questo, rappresenta un aspetto essenziale della riforma proposta: come verrà eletto il premier e in quale rapporto verrà a trovarsi con la sua maggioranza? Il governo deve queste risposte non a noi ma alla trasparenza del dibattito perché fin quando questi interrogativi non avranno una risposta sarà impossibile pronunciarsi sulla riforma.
Gaetano Quagliariello 

 

Collaborare si potrebbe, volendo

Sappiamo bene tutti che a poche decine di giorni da un turno elettorale nazionale come sono le europee i toni propagandistici tendano fatalmente a prevalere. Le riflessioni rigorosamente di merito che facciamo oggi potrebbero diventare più che utili solo dopo il 10 giugno. E’ quello l’appuntamento vero che dobbiamo fissare. E’ necessario poi ricordare un importante profilo di metodo. Le forze politiche italiane vollero un referendum su Monarchia e Repubblica all’inizio per sgombrare i lavori della Costituente da un aspetto divisivo e non vollero invece un referendum finale sul testo della Costituente perché questo avrebbe disincentivato un accordo durante i lavori. Infatti la Francia che lo previde non riuscì a darsi una Costituzione condivisa. Per questa ragione tutti dovrebbero perseguire l’esito di una riforma condivisa a due terzi come opzione preferenziale e non partire già con opposte campagne referendarie, cogliendo bene il senso dell’articolo 138 della Costituzione che considera la riforma a maggioranza con eventuale referendum solo una subordinata. Quanto al merito il confronto è aperto su due questioni: cosa fare ad inizio legislatura per fare in modo che, come accade nelle grandi democrazie parlamentari il rapporto fiduciario inizi di fatto dal voto degli elettori, rendendo il cittadino arbitro anche dei governi, e come fare a disincentivare il trasformismo in corso di mandato.

Sul primo aspetto il testo promette addirittura un’elezione diretta, ma così facendo, con tre possibili voti diversi, complica le cose anziché semplificarle. Non è meglio un unico voto per un unico Parlamento che dà la fiducia e che comprenda anche un’indicazione del premier legata ai candidati parlamentari? Sul secondo il testo evita il simul simul che a livello nazionale sarebbe troppo rigido ma poi si cade in una serie di contraddizioni, con un secondo premier più forte del primo e che potrebbe creare una maggioranza del tutto diversa. Non sarebbe meglio individuare altre regole serie che oggi mancano per disincentivare il trasformismo senza arrivare al simul simul e senza cadere in quelle contraddizioni? Ci sono su questo molte elaborazioni, che passano dalla Tesi 1 dell’Ulivo al testo Salvi della Bicamerale ai progetti recenti di Libertà Eguale e Magna Carta. Se c’è la volontà politica non ci sono ostacoli tecnici insormontabili. 
Stefano Ceccanti


Mediazione modello Barbera

Da sempre il Pd sostiene una riforma incentrata sulla figura del primo ministro, “indicato sulla scheda elettorale, a fianco del candidato di collegio“. Per mantenere la posizione meramente ostruzionistica assunta oggi dovrà smentire in radice questa limpida posizione. Ma non può farlo senza conseguenze assai serie, perché essa ha avuto carattere costituente: il Pd sceglie il suo leader attraverso primarie aperte agli elettori proprio perché quel leader sarà il candidato primo ministro. Per questa via, il Pd pensa se stesso come lo strumento per la gestione democratica della personalizzazione della politica. Altro che “uomo solo al comando” : la personalizzazione è un fatto. Si può respingere, condannandosi all’ininfluenza. Oppure si sceglie, come ha fatto il Pd nel suo atto di nascita, di inglobarlo dentro un processo di estensione e qualificazione della partecipazione politica. Se vuole essere l’asse dell’alternativa di governo al centro-destra, il Pd non può virare verso la prima strada.

Vengo ora al centro-destra. Meloni, decidendo di lavorare sul modello del premierato, ha operato una scelta che la allontana dalla sua tradizione presidenzialista. Lo ha fatto per obbedire all’esigenza di trasformare una leadership formatasi in un partito estremista ed iperidentitario in una guida politica di tipo europeo. Del vecchio schema ha mantenuto l’elezione diretta del capo del governo, ma ha tentato un’impossibile mediazione col modello neoparlamentare del governo del primo ministro. Ne è venuta fuori una elezione “diretta” potenzialmente ad opera di una minoranza di elettori. Un pasticcio che non ha nulla di “europeo” e incrina la leadership di Meloni nello stesso centro-destra. Converrebbe ad entrambi i contendenti provare ad uscire dall’impasse in cui si sono cacciati.

Se si è d’accordo sui poteri di questo primo ,inistro, una mediazione è difficile, ma non impossibile: la indicò Augusto Barbera nel 1997, in audizione alla  Bicamerale D’Alema. Dopo aver illustrato una proposta sostanzialmente convergente con la soluzione della tesi n.1 dell’Ulivo, Barbera la completò con l’ipotesi del turno di ballottaggio tra i candidati Primo Ministro delle due prime coalizioni. “Il vantaggio di questa formula – disse – sarebbe quello di porsi in posizione intermedia fra quella dell’elezione diretta del premier e quella della mera designazione: il premier sarebbe indicato (dagli elettori) nel primo turno ed eletto nell’eventuale secondo turno
Enrico Morando

 

Rendere razionale il confronto sulla riforma

Parlare di riforma costituzionale significa ragionare sull’adeguamento della forma di governo a sistemi democratici dove è richiesta una solida e chiara responsabilità di indirizzo politico. Ancor prima di questo, però, significa manifestare rispetto per la Costituzione stessa, mortificata ormai da prassi che la rendono impropriamente (e pericolosamente) subordinata al volere politico. La produzione normativa ormai completamente appannaggio del governo o il monocameralismo di fatto ne sono solo i due più lampanti esempi. Prima che una scelta politica, la messa in discussione della tenuta dell’attuale forma di governo appare quindi una scelta di senso istituzionale, evidentemente condivisa dalla maggior parte delle istanze e sensibilità politiche che si sono avvicendate negli ultimi quaranta anni e che hanno tutte ammesso la necessità di riconoscere al potere esecutivo poteri e strumenti che, altrimenti, rischia di prendersi da sé, al di là delle regole del gioco. Non è una questione di derive autoritarie. È possibile, anzi è auspicabile, una riforma che riconosca la piena responsabilità politica del governo di fronte agli elettori (non necessariamente per via di elezione diretta) senza che ciò menomi il ruolo del Parlamento né quello originario del presidente della Repubblica, quale garante delle istituzioni e “soccorritore” nei momenti di maggiore crisi.

Centrare l’obiettivo della riforma avrebbe peraltro un effetto ulteriore. Il non voto, se fosse un partito, sarebbe la prima forza politica della Repubblica, come dimostrato da ultimo anche dalle elezioni sarde. Il disinteresse elettorale non può essere liquidato semplicemente come uno scarso senso civico degli italiani e può venire in parte recuperato solo con una dimostrazione, per quanto possibile, di un po’ più di serietà politica. Garantire un esame franco delle ragioni, degli obiettivi e dei mezzi di una riforma costituzionale invocata da anni da tutte le forze politiche sarebbe un primo passo verso questa direzione, sia per la maggioranza che per l’opposizione. Sarebbe ingenuo pensare che sia facile. Ciò non toglie che debba essere preteso. Un’abitudine tutta politica è quella di pensare alle riforme costituzionali e elettorali dalla parte dei vincenti. La breve sopravvivenza dei governi italiani dovrebbe insegnare il contrario: riforme di questa portata vanno fatte con sguardo di minoranza, che vuol dire null’altro che senso di lungimiranza. La razionalità non è di casa nella politica. Se lo fosse, il tema delle riforme costituzionali sarebbe probabilmente accantonato da tempo. Se non è la razionalità, che sia allora un po’ di sano tatticismo a motivare maggioranza e opposizione sul confronto costituzionale, in un momento di equilibri fragili per entrambe.
Serena Sileoni

 

Riforma per fermare il declino

Nel 1995 il prodotto dell’economia italiana valeva il 20% di quella che sarebbe poi stata l’area dell’Euro. Oggi vale il 15%. L’Italia ha perso circa un quarto del proprio peso. Nel 1995 il prodotto pro-capite degli italiani era superiore a quello dello stesso gruppo di paesi del 9%, oggi è inferiore del 3%. Le cause di questo declino ormai trentennale sono molteplici. Ma certamente non è possibile arrestarlo senza far funzionare meglio lo Stato, che ormai assorbe il 50% delle risorse nazionali. E non è possibile far funzionare meglio lo Stato senza cambiare regole istituzionali che ci hanno condotto ad avere 68 diversi governi nei 76 anni della Repubblica. Dalla consapevolezza del problema e dalla convinzione che è necessario risolverlo per poter sperare di rimettere l’Italia sul sentiero dello sviluppo, nasce IoCambio, associazione promossa da Nicola Drago, alla quale partecipano imprenditori della old e della new economy, intellettuali, giovani, semplici cittadini di ogni orientamento politico. E’ nostra convinzione che l’occasione che oggi ci si offre per cambiare finalmente la forma di Governo non possa andare perduta. Il punto dal quale partire è il riconoscimento agli elettori del diritto di scegliere il titolare dell’indirizzo politico. La forma può lecitamente essere discussa. Ma la querelle fra elezione diretta e indicazione sulla scheda rischia di farsi nominalistica. Quel che conta è la sostanza. Da questa scelta fondamentale derivano alcune conseguenze. E’ ovvio che una carica così importante debba essere scelta dalla maggioranza degli elettori: il ballottaggio è necessario. No a fantasiose “norme anti-ribaltone”. Chi viene scelto dagli elettori deve poter disporre della forza democratica e della stabilità necessarie per realizzare il suo programma: dopo cinque anni gli elettori potranno confermarlo o rimuoverlo. Il numero dei mandati del capo del governo deve essere limitato, così come avviene quasi ovunque per ruoli di questo peso. Il ruolo di garante e arbitro del Presidente della Repubblica deve essere tutelato, prevedendo una maggioranza rafforzata per la sua elezione. L’opposizione deve poter svolgere la sua azione di controllo e di costruzione dell’alternativa di governo: serve uno statuto che ne garantisca il ruolo. A partire da questi punti, è ora necessario tentare di raccogliere sull’ipotesi di riforma il più ampio consenso possibile, come fu al tempo della Costituente e come sempre dovrebbe essere allorché si modificano le regole del gioco.
Natale D’Amico
 

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