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Nani politici

Le due ragioni che hanno favorito il declino italiano sulla scena internazionale

Paolo Cirino Pomicino

L'Italia negli ultimi trent'anni ha visto evaporare  tutte quelle famiglie politiche che ancora oggi governano le grandi democrazie europee, socialisti e popolari. Mentre sul piano economico non si vede una visione, una strategia, un qualcosa che alimenti una speranza di crescita

Qualche mese fa, il presidente americano Joe Biden telefonò a Parigi, Londra e Berlino per uno scambio di opinioni sulla difficile situazione geopolitica con le guerre russo-ucraina e israelo-palestinese. Tutti notarono il fatto che il centralino di Palazzo Chigi era rimasto silente. Qualche giorno fa, mentre la nostra presidente del Consiglio fa Kyiv avviava il primo incontro tra i paesi del G7 di cui l’Italia ha la presidenza, Macron, assente, convocava una serie di paesi europei con all’ordine del giorno la difficile situazione dell’Ucraina sino al punto di immaginare un intervento armato dell’intera Unione europea. Due episodi che, al di là dei contenuti, testimoniano il lento declino internazionale  del nostro paese nonostante le continue iniziative di Giorgia  Meloni, che pur si è collocata sin dall’inizio della sua esperienza al governo nell’ortodossia europeista e atlantista ampiamente condivisa dalla stragrande maggioranza degli italiani, sviluppando altresì un legame particolare con la Casa Bianca. Allora perché quegli “sgarbi” istituzionali rispetto ai quali il governo ha fatto di necessità virtù? Due sono le ragioni, una politica e una economica. 

La ragione politica. Un paese come l’Italia, fondatore del socialismo e del popolarismo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e motore politico lungimirante nel contesto europeo sin dall’immediato secondo Dopoguerra con la costruzione della Comunità del carbone e dell’acciaio, in trent’anni ha visto evaporare  tutte quelle famiglie politiche che ancora oggi governano le grandi democrazie europee e lo stesso Parlamento europeo. E come se non bastasse, l’Italia ha un presidente del Consiglio che ha come alleato politico principale quel Viktor Orbán estromesso dal Partito popolare. In questo quadro, l’Italia è diventata un nano politico e, a seguire, anche sul piano economico da trent’anni siamo in affanno, con la bassa crescita, con salari tra i più bassi d’Europa e con intollerabili disuguaglianze reddituali. Inoltre, abbiamo  praticato la vendita – sfuse e a pacchetti – delle eccellenze italiane senza un minimo di reciprocità, per cui lentamente ci siamo trasformati in una colonia di produttori per conto terzi e di modesti e affannati consumatori pur mantenendo livelli di export significativi. Insomma, dovunque si volga lo sguardo non si vede una visione, una strategia, un qualcosa che alimenti una speranza di crescita e di una più equilibrata distribuzione della scarsa ricchezza prodotta negli ultimi trent’anni. In questo deserto culturale e programmatico crescono a dismisura personaggi più o meno autorevoli che sono dediti a vendere e a comprare pezzi appetibili di strutture economiche pubbliche con il solo scopo dell’arricchimento personale, senza mai coltivare un vero interesse pubblico.

L’ottimo Cingolani, qualche giorno fa, su queste colonne ha fatto eco a chiacchiere da ballatoio nelle quali si mescolavano interessi personali, salvataggi aziendali e favori a grandi agglomerati finanziari internazionali da tempo predatori del futuro del nostro paese. L’intero sistema politico deve avere un sussulto di indignazione e invertire la direzione di marcia se vogliamo arrestare il crescente declino. A proposito dell’occupazione, sugli oltre 500 mila nuovi posti di lavoro oltre 350 mila sono assunzioni nella pubblica amministrazione e quindi non legati al ciclo economico nazionale che resta asfittico.   
 

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