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Quanto pesa in Veneto la disconnessione fra economia e politica

Dario Di Vico

Lega e Fratelli d'Italia sono impegnati in un distruttivo derby interno al centrodestra mentre il modello interclassista forgiato da Zaia non basta più. Occorre costruire ecosistemi territoriali, innovazione e sinergie tra industria e università. Ma chi governa e amministra per ora non sembra volersene interessare

Il Veneto politico continua a far discutere. La richiesta di Fratelli d’Italia di guidare con un suo uomo la regione, la querelle del terzo mandato di Luca Zaia e lo scontro interno alla Lega locale contribuiscono a mantenere alta l’attenzione sul nord-est. Lasciando però in secondo piano l’evoluzione della struttura produttiva e le connessioni tra economia e politica. Zaia, infatti, oltre a essere quel campione di consenso che finora è stato con percentuali bulgare ogni qual volta si è sottoposto al giudizio delle urne, ha contribuito anche a forgiare quelle connessioni. Il suo modello interclassista ha indubbiamente pagato, la sua popolarità è altissima sia tra i piccoli imprenditori della regione sia tra gli operai, non c’è associazione dei corpi intermedi che possa permettersi di prescindere totalmente dai suoi orientamenti. Che poi sono stati estremamente cauti: a differenza dei suoi predecessori si è sempre tenuto alla larga dagli affari e dalla finanza reputandoli giudiziariamente pericolosi, si è applicato a modelli di politica industriale solo per allargare le zone di produzione del Prosecco, per il resto ha accompagnato lo sviluppo della regione come un padre segue il figlio che anno dopo anno prosegue diligentemente nei suoi studi.

Un interclassismo dolce che infatti gli ha sempre attirato addosso la qualifica di “democristiano” attento a non rompere gli equilibri, a non intestarsi battaglie solitarie, a navigare nella globalizzazione dell’economia senza però mai sposarne fino in fondo i dettami. Non si può dire, infatti, che mai abbia ripudiato il piccolo è bello ma allo stesso tempo ha sempre esaltato le performance dell’export regionale sui mercati globali. La grande cornice in cui questo modello di cautela economica si è inscritto è quella dell’autonomia differenziata dove però l’incremento dei poteri e delle competenze della regione non cozza mai con i meccanismi del mercato. Lo temperano caso mai, laddove a valle, in ultima istanza, si dimostri necessario.

Di Matteo Salvini non si può dire che abbia mai sviluppato un pensiero sul nord-est economico. La sua è stata sempre e solo una battaglia interna al partito per non avere opposizioni nella regione e poter continuare la sua corsa di leader nazionale. E’ chiaro che gli elettori veneti della Lega se fossero chiamati a un referendum boccerebbero il ponte sullo Stretto ma Salvini ha fatto in modo che questa contraddizione non esplodesse mai, che il tentativo di sommare il consenso del nord-est a quello del meridione proseguisse senza traumi. Semmai un giorno ci fosse un congresso “nazionale” della Lega i delegati del nord e del sud probabilmente si guarderebbero in cagnesco ma ovviamente quell’appuntamento non sarà messo mai in calendario. Del resto è già difficile che si svolgano i congressi nelle regioni più omogenee (Lombardia docet) a dimostrazione di come la Lega resti comunque un organismo politica con una cultura del comando che definire leninista non è una boutade. Poi si può presumere che Salvini porti con sé un’idea più disincantata del flussi economici globali, che insomma in cuor suo sia rimasto quello che occhieggiava all’uscita dall’euro e a un’economia italo-autarchica ma di segnali sul terreno ce ne sono pochi.

 

E’ interessante anche riflettere sulle modalità dell’avanzata di Fratelli d’Italia in Veneto. Una volta il partito con la fiamma nel simbolo da quelle parti era considerato di cultura statalista, molto attento agli impiegati statali e ai dipendenti dell’Alitalia ma sicuramente distante dalla mentalità auto-imprenditoriale e dalla mobilitazione individualistica delle partite Iva e delle Pmi nordestine. Giorgia Meloni è riuscita a far dimenticare i trascorsi della sua formazione politica (e la cultura economica sottesa) ed è cresciuta elettoralmente nel Veneto sfruttando le contraddizioni e le liti in casa leghista e mostrandosi come il cavallo più in forma della scuderia del centrodestra. Anche la leader romana è stata attenta a non mettere in discussione la globalizzazione dolce, i successi dell’export, la predominanza delle industrie di piccola dimensione. Non toccate quei fili. Anche perché non ce n’è assolutamente bisogno, basta seguire il vento e lasciare che il modello interclassista continui a produrre consenso trasversale. Gli avversari sono dentro il centrodestra, vanno conquistate le caselle decisive e soprattutto va smontato l’orologio Zaia anche per giocare sulle contraddizioni centro-periferia della Lega.

Ma la disconnessione tra economia e politica può durare all’infinito senza creare problemi? Basta misurarsi solo sul terzo mandato del governatore? Con un articolo sul Sole 24 Ore il sociologo Daniele Marini dell’Università di Padova ha scritto che se nel 2000 il pil pro-capite delle regioni orientali superava del 35 per cento la media europea ora siamo scesi al 5 per cento. E le regioni limitrofe, come Lombardia ed Emilia, hanno da qualche tempo superato le performance nordestine. I motivi sono facili da elencare: calo demografico, problemi di passaggio generazionale nelle imprese, minore nascita di nuove imprese, carenze di professionalità e aumentata concorrenza internazionale. Tutte cause che fanno dire a Marini che il format “testa bassa e lavorare” non basta più. Bisogna tenere la “testa alta e cooperare” per costruire ecosistemi territoriali. Ma – domanda chiave – l’interclassismo vecchia formula è sufficiente per intermediare queste necessità, riesce a costruire sinergie, poli dell’innovazione, collaborazione tra industria e università, attrazione di multinazionali? La risposta è evidente e in più, secondo Marini, “il territorio è stato eccessivamente antropizzato, ha necessità di essere ripensato e ridisegnato”. Veneto e anche Friuli-Venezia Giulia dovrebbero imparare a ragionare come fossero un’unica metropoli nella gestione dei servizi, delle infrastrutture, delle politiche. Ma la politica, quella che tiene banco e relega in secondo piano i dubbi dei tanti Marini, è in ritardo. E’ impegnata in un distruttivo derby interno al centrodestra e non ha tempo per altro. Non vuole altri pensieri.

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