l'editoriale del direttore

Contro l'antisemitismo senza ambiguità: la grande eccezione italiana

Claudio Cerasa

Perché difendere il diritto di un ebreo a vivere da ebreo significa difendere le nostre libertà. La trasversalità della manifestazione di Roma è una gran notizia per l’Italia

Il punto non è Israele. Il punto siamo noi. Ci sono almeno due notizie buone e per nulla scontate che emergono con forza dalla formidabile manifestazione contro l’antisemitismo organizzata ieri a Roma a piazza del Popolo dalla comunità ebraica. La prima buona notizia riguarda la conferma di un eccezionalismo italiano che merita di essere esaltato fino allo sfinimento. In giro per il mondo, lo avrete notato, le grandi manifestazioni organizzate contro l’antisemitismo in città come Londra, Parigi, New York e Washington sono nate  in reazione a una presenza diffusa di episodi di intolleranza sfuggiti spesso al controllo non solo della politica ma anche degli apparati di sicurezza nazionali. E le stesse manifestazioni, in diverse circostanze, hanno avuto l’effetto di illuminare la presenza sconfortante di numerosi distinguo nel mondo della politica, molti dei quali motivati da un ragionamento tossico ma lineare: più farò sentire la mia vicinanza al popolo ebraico e più mi faranno notare quanto la mia posizione sia troppo vicina alla causa di Israele e troppo distante dalla causa dei palestinesi. In Italia questo non è ancora successo e la piazza di ieri pur essendo priva di alcuni esponenti di primo piano del mondo della politica ne è stata una testimonianza importante: tutti i principali partiti italiani hanno aderito alla manifestazione e tutti i principali partiti italiani hanno trovato il coraggio di esprimersi contro l’antisemitismo, senza ambiguità, senza distinguo, senza evasività, accettando il rischio, per così dire, di essere accusati dai propri follower più estremisti di vicinanza eccessiva con la causa di Israele. Se è vero, come abbiamo detto spesso, che maneggiare l’antisionismo è spesso un modo scaltro per nascondere dietro a uno schermo il proprio antisemitismo bisogna anche dire che è altrettanto vero che condannare l’antisemitismo, dopo il 7 ottobre, è un modo concreto per non accodarsi al flusso di coscienza dell’antisionismo.

 

Il punto non è Israele. Il punto siamo noi. E in questo senso, l’altro elemento positivo, incoraggiante e per nulla scontato emerso ieri in diversi interventi ascoltati a piazza del Popolo riguarda un punto cruciale che meriterebbe di essere al centro della nostra attenzione non solo in giornate straordinarie, come quelle di ieri, ma in giornate ordinarie, come la vita di tutti i giorni. L’antisemitismo non è solo una minaccia contro il popolo ebraico ma è indicativo di un problema più grande, più profondo, radicato nei valori più intimi della nostra società

Due giorni fa in un’intervista al National Review il grande Natan Sharansky , il più famoso dei così detto refusnik russi, gli “ebrei del silenzio”, già ministro d’Israele sotto Ariel Sharon, saggista e per dieci anni a capo dell’Agenzia ebraica, ha ricordato che l’antisemitismo è un dramma per tutti, non solo per gli ebrei, e laddove l’opinione pubblica non si ribella all’antisemitismo vi sono buone probabilità che vi sia uno scarso attaccamento ai princìpi non negoziabili di una società aperta e che vi sia una scarsa attenzione a quello che potrebbe significare per tutti noi aggredire una democrazia, aggredire la libertà di parola, aggredire i diritti delle minoranze. Comprendere la verità, dice Sharansky, ci consente di proteggerci dagli estremisti che mirano a distruggere non solo gli ebrei, ma la nostra società, le nostre libertà. E per farlo occorre non solo retoricamente mettersi in gioco. Occorre fare un passo in più. Occorre capire che un mondo in cui agli ebrei viene suggerito di fare di tutto per non farsi identificare come ebrei, viene chiesto di nascondere il più possibile i simboli della loro fede, viene richiesto di non agitarsi troppo se qualche terrorista uccide in un kibbutz un ebreo perché è ebreo, viene suggerito di non offendersi se qualche manifestante canta frasi come “wipe Tel Aviv off the map”, “there is only one solution: intifada revolution”, “from the river to the sea, Palestine will be free” è un mondo che ha deciso di trasformare la propria tolleranza nei confronti dell’orrore, non diciamo nulla non vorrete che poi gli estremisti reagiscano, in un mondo dominato dall’intolleranza, dalla violenza, dall’oscurantismo, dal negazionismo. Sharansky, con saggezza, dice che non si può pensare, quando si parla di antisemitismo, di forgiare un nuovo tipo di persone, e che non si può pensare di avere una società senza odio per gli ebrei.

La libertà d’espressione è sacra, anche quando al centro della libertà violata c’è qualcosa che si ha particolarmente a cuore, ma ciò che deve essere ancora più sacro è la legittimazione di un principio non negoziabile: assicurarsi che la libertà d’espressione, su questo punto, non sia qualcosa che possa uccidere, qualcosa che possa essere il motore di una violenza, qualcosa che possa danneggiare il mondo libero. “Ho deciso molto tempo fa – dice Sharansky – di non provare a lottare per un mondo in cui l’antisemitismo non esiste. Dobbiamo fare qualcosa di più. Dobbiamo lottare per un mondo in cui l’antisemitismo non sia pericoloso né per noi né per nessun altro”. Il punto non è Israele, quando si parla di antisemitismo, o non solo quello. Il punto è tutto quello che vale la pena difendere quando anche nei giorni ordinari la lotta contro l’antisemitismo diventa una scelta quotidiana tra chi accetta di rinunciare a uno spicchio della propria libertà, per non provocare gli intolleranti, e chi invece sa che difendere il diritto di un ebreo a vivere da ebreo significa difendere non solo la sua libertà ma anche la nostra. Il punto non è Israele. Il punto siamo noi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.