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l'editoriale del direttore

L'antisemitismo che non vediamo. Scendere in piazza per dire “mai più”

Claudio Cerasa

Chiamare le cose con il loro nome è l’unico modo che ha l’occidente per proteggere se stesso. Perché è importante esserci alla manifestazione di oggi a Roma

Chiamare le cose con il loro nome, di solito, è il modo migliore per provare a inquadrare un fenomeno, per non scappare, per non chiudere gli occhi, per non voltarsi dall’altra parte. E di fronte a quello che è successo in giro per il mondo dopo lo sterminio compiuto il 7 ottobre da Hamas la parola giusta da usare per capire cosa si nasconde dietro l’odio universale che esiste nei confronti di Israele è una ed è antisemitismo.

Oggi a Roma, alle 19, a piazza del Popolo, vi sarà un’importante manifestazione contro l’antisemitismo e solo chi vuole chiudere gli occhi, chi vuole voltarsi dall’altra parte, chi vuole scegliere di non vedere cosa è stato il 7 ottobre per l’occidente, e non solo per Israele, può rifiutarsi di allargare l’inquadratura e chiamare le cose con il loro nome. Piccolo esempio. In America, nelle quattro settimane successive all’attacco in Israele gli episodi di antisemitismo sono aumentati del 400 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. A Londra del 1.350 per cento. In Germania, del 300 per cento. In Austria, stessa percentuale. Su X, ex Twitter, i post antisemiti sono aumentati del 919 per cento la settimana dopo l’attacco di Hamas, rispetto alla settimana prima. Ieri, come se non bastasse, il Consiglio di sicurezza nazionale israeliano (Nsc) ha pubblicato un elenco aggiornato di paesi in tutto il mondo in cui si considera pericoloso per gli israeliani muoversi. Sono stati alzati di un punto i livelli di guardia per i viaggi nel Regno Unito, in Francia, in Germania, in Brasile, in Argentina, in Russia (dove non si sconsiglia di viaggiare ma di “avere maggiori precauzioni”). Si consiglia di “rinviare i viaggi verso i paesi arabi e del medio oriente, il Caucaso settentrionale, i paesi confinanti con l’Iran e diversi paesi musulmani in Asia”. E infine si invita, testualmente, a “evitare di mostrare apertamente la propria identità israeliana ed ebraica e qualsiasi simbolo rilevante e stare lontano dalle riunioni israeliane ed ebraiche”.

 

La scorsa settimana, negli Stati Uniti, la Camera, con un solo voto contrario, ha approvato una saggia risoluzione in cui si afferma che la negazione del diritto di Israele a esistere è antisemita. Certo: si possono criticare i leader e le azioni di Israele senza essere antisemiti. Ma quando si sceglie di inquadrare un fenomeno senza voltarsi dall’altra parte bisognerebbe anche chiedersi se non abbiano ragione i legislatori americani quando dicono che il fatto che esista una piccola minoranza di ebrei che si identifichi come antisionista non rende l’antisionismo qualcosa di così diverso dall’antisemitismo. E per questo di fronte a un’intifada globale che mette in discussione il diritto di un ebreo a essere ebreo, chiamare le cose con il loro nome è l’unico modo che ha l’occidente per proteggere se stesso, e non solo Israele, per non chiudere gli occhi e provare a ricordare che non è solo retorica dire mai più.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.