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La perestrojka del ministro Adolfo Urss

Giuseppe De Filippi

Stato sociale o statalismo? Unione sovietica sì, ma quella di Gorbaciov. Perché il titolare dell'Industria può rivendicare (anche) buoni risultati

La sartoria napoletana tende a smussare, addolcire gli angoli, ammorbidire gli spigoli, appena può va verso una morbida rotondità. Adolfo Urso l’ha scoperta con il lavoro al Roma, diretto dal suo mentore Domenico Mennitti. Era la terza esperienza giornalistica dopo una prima assunzione alla siciliana ReteSirio, dove invece il direttore era un suo attuale collega in Consiglio dei ministri, Nello Musumeci. Nella piccola emittente siciliana però l’ingresso di Urso, con l’incarico di condurre quelli che ancora non si chiamavano talk-show, avvenne con un esame, una serie di prove che dovevano verificarne non tanto l’adesione ideologica alla destra quanto la conoscenza dei maggiori fatti di cronaca dell’epoca. Le successive attività pubblicistiche, terza forma di giornalismo praticata, sono state più legate ai settimanali e ai mensili di quell’area missina allora ancora perfettamente conclusa in sé stessa, isolata e capace però di produrre al proprio interno dialettiche e divisioni di cui, dall’esterno, non era sempre facile capire le linee di separazione e le scelte di schieramento. Tante le carriere personali come la sua in quegli Ottanta in cui ancora esisteva l’avviamento alla politica o al giornalismo, strade che correvano vicinissime, attraverso l’esperienza formativa fatta di una specie di attivismo intellettuale unito a una pedagogia da scuola filosofica classica, in cui si imparava attraverso l’insegnamento diretto, l’ispirazione personale, semplicemente copiando chi ne sapeva di più e vivendo nel giro ristretto di chi era a contatto con il potere pubblico. 


Smussare, addolcire, ammorbidire: è il più moderato fra gli estremisti, anche se ancora cede agli scatti d’ira. “Vada in ferie, la vedo nervoso”


La sartoria napoletana, si diceva. Tra tante occasioni formative, in cui molto dipendeva dal discente e dalla sua capacità di recepire insegnamenti con l’imitazione e con l’emulazione, è stata per Urso uno strumento, forse utilizzato involontariamente, di perfezionamento politico. Smussare, addolcire, ammorbidire: specialità del suo preferito, Gino Cimmino, sarto di Napoli da cui tuttora, con lodevole fedeltà, fa fare i suoi vestiti. Specialità di cui Urso aveva bisogno, per compensare una naturale tendenza agli scatti, all’ira, alla risposta data sull’impulso del nervosismo. Niente di grave per un politico, ci mancherebbe altro. E verrebbe quasi da consigliare di guardarsi dai troppo calmi. Di scatti ancora ne ha, ovviamente. Nell’ultimo incontro agostano con i leader sindacali, a proposito degli investimenti di Stellantis, Maurizio Landini l’ha salutato consigliandogli un po’ di riposo, “vada in ferie che la vedo nervoso”. Che poi, l’oggetto del suo nervosismo non erano i diretti interlocutori ma i dirigenti della multinazionale dell’auto franco-italo-americana. Landini, perciò, non intendeva essere polemico (solo un po’ diciamo) ma era mosso soprattutto da sincero interesse per la possibilità di mantenere rapporti con il gigante dell’automotive e avviare un confronto sul futuro degli stabilimenti italiani. Al ministero i collaboratori di Urso fanno notare che il grande capo di Stellantis, Carlos Tavares, non ha mai incontrato i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, mentre ha visto i leader delle rispettive federazioni dei metalmeccanici. Un modo, apparentemente, per tenere i rapporti italiani su un piano che potremmo definire tecnico e non politico, traslando il linguaggio parlamentare, ma che non promette niente di buono per l’ottenimento degli impegni richiesti in termini di investimenti e di volumi. Il ministro vuole almeno tornare al livello produttivo degli stabilimenti francesi del gruppo, intorno al milione di vetture all’anno, e soprattutto vuole che le fabbriche italiane non siano tenute fuori dalla transizione verso le nuove forme di motorizzazione. Difficile che se ne possa venir fuori senza un coinvolgimento politico o senza un pieno impegno di tutti i sindacati. 

 

L’esortazione a un po’ di ferie è andata a vuoto, almeno nell’immediato. Urso è rimasto invischiato nel suo stesso attivismo, da cui deriva anche un impegno su troppi tavoli, compresi quelli sui carburanti, i taxi e i biglietti aerei, da cui possono derivare solo delusioni e mezze brutte figure. Altro tratto, l’attivismo, con la fama di stakanovista, che fa parte della sua storia politica. Torniamo per un momento alla fine degli anni Ottanta. Urso milita nella terza corrente del Msi, una cosa del 5 per cento, guidata da Domenico Mennitti. Marginali tra i marginali, eppure capaci di un colpo politico, con sano opportunismo, quando si schierano per l’elezione di Pino Rauti alla segreteria contro Gianfranco Fini. E’ un ceffone all’establishment missino, cioè agli almirantiani e addentellati, una cosa impensabile se non nel clima da rovesciamento generale di tutta la politica italiana alla fine del decennio. E’ come se una scintilla di tutto quel sommovimento, partito dalla stagione dei conti pubblici con le prime crepe visibili, e del logoramento socialista e democristiano, vera preparazione all’attacco finale con Mani pulite, avesse raggiunto anche il mondo separato della destra. Solo che nel piccolo trasformismo di quell’occasione si va a ripescare un missino sì rivale di Fini ma non proprio adatto per un tentativo vero di innovazione come Rauti. E’ chiaramente un’operazione politica utile a prepararne altre. E Urso, pur coordinando l’azione dei suoi colleghi di corrente, tiene buoni rapporti personali con Fini. Tanto che di lì a poco viene incaricato di mettere su, da un appartamentino vicino al Pantheon, la prima cellula di Alleanza nazionale. Va dato atto di una buona capacità organizzativa, come è facile constatare a posteriori. Ma soprattutto si comincia a vedere in quegli anni una costante del posizionamento politico di Urso e cioè la rendita di posizione del più moderato fra gli estremisti ovvero del più presentabile tra i missini, ex e neo fascisti. 


E’ rimasto invischiato nel suo stesso attivismo, da cui deriva  un impegno su troppi tavoli:  carburanti, taxi e biglietti aerei


La questione del fascismo lui la ha anche affrontata direttamente, con l’adesione alla svolta di Fiuggi e una piena e convinta partecipazione alle scelte di Fini. Mentre nel suo linguaggio e nei suoi comportamenti della maturità politica non ci sono tracce riconducibili a un fascismo né nostalgico né attualizzato. Il nostro caro Luciano Capone lo chiama semmai Adolfo Urss dopo qualche scivolone dirigista, per aver tentato di regolare dall’alto ciò che sfugge, per maggiore velocità e maggiore capacità di adattamento sia alle condizioni di mercato sia agli schemi regolatori, come i citati taxi, i prezzi dei biglietti aerei, quelli dei carburanti. Tentativi donchisciotteschi o che ricordano (ma Urso non è interessato al calcio quindi per questa metafora chiederà lumi) quei centravanti che si buttano a testa bassa su ogni pallone, anche quando è saldamente in mano al portiere avversario, e finiscono per fare tanto lavoro rimediando però un basso voto nelle pagelle e la micidiale definizione del loro impegno come “prova generosa”. 

 

Lui si è buttato, appunto, sui prezzi dei carburanti. Tentando, con un po’ di liberalismo ben orecchiato, la strada della trasparenza. Ma finendo sulla cartellonistica, con l’obbligo di esposizione del prezzo medio regionale presso i distributori, in modo da smascherare l’eventuale piccolo approfittatore o speculatore. Operazione di scarso raggio, perché andava a toccare lo spazio libero dell’esercente finale o quel poco di margine residuale per le scelte quotidiane delle compagnie. Mentre per le questioni vere, con una certa ironia, la tattica di Urso andava sempre a infrangersi contro qualche pezzo di stato. Perché o si finiva contro le politiche di prezzo di un gigante nazionale come l’Eni oppure si scopriva che a fare grande il prezzo sono le famose accise, quindi ancora lo stato. Urso ha continuato nella sua attività informativa quotidiana, facendo pubblicare al ministero note che constatavano una stabilità dei prezzi di benzina e gasolio magari vera nell’ingrosso della media nazionale ma un po’ irrisa nel genere giornalistico impressionistico della ricerca del distributore più malandrino di tutti, con un record segnalato a 2,7 euro al litro, cioè molto ma molto sopra alle medie ursiane. Stessa cosa con gli aerei, con la pressione per tenere a bada i prezzi per Sicilia e Sardegna destinata a esiti opposti a quelli desiderati, e un contenzioso difficile da gestire con l’Ue e le società aeree associate nella rivendicazione comune contro il tentativo di controllo dei prezzi. Uguale per i taxi, con forse un po’ di astuzia politica in più per gestire una categoria che fa parte del bacino elettorale del suo partito. Insomma, Capone permettendo, se è l’Urss è quella di Gorbaciov, avviata verso la chiusura della sua stagione proprio per l’impossibilità di far funzionare il dirigismo. 


Con una certa ironia, la tattica di Urso va sempre a infrangersi contro qualche pezzo di stato, che sia l’Eni o le famose accise


Mentre, restando tra auto, aerei e mobilità, ci sarebbe qualche buon risultato da rivendicare, e per doti di mercato. L’operazione che sta portando Ita nella sicurezza dell’alveo dei Lufthansa, se l’avesse realizzata uno dei suoi predecessori (non facciamo nomi), sarebbe finita in un instant book autobiografico, per celebrare l’atterraggio finalmente sicuro della malandata avventura dell’aviazione civile commerciale di stato. E la stessa cosa sarebbe successa con la sistemazione finalmente riuscita per la rete di Tim, in un modo che ha scontentato in quota molto minore di quanto abbia soddisfatto. Di Stellantis un po’ si è detto e il giudizio è ancora sospeso. Della vera delusione, Intel che ha scelto la Germania, se n’è parlato poco, ma qualche piccola chance di recupero ancora c’è. Mentre è apprezzabile l’impegno per l’approvvigionamento delle materie prime fondamentali per la nuova stagione industriale, con il lavoro fatto sulla filiera internazionale e senza timore di sembrare un po’ Brancaleone anche per il litio di Campagnano, vicino a Roma. Forse è ricerca di visibilità politica o forse vero impegno, ma le battaglie apparentemente più popolari, tra cui quella titanica del contrasto a un mostro tostissimo come l’inflazione, levano spazio a questi impegni però più importanti nelle strategie industriali del paese. 
Che poi sarebbero anche più nelle sue corde.

 

Il passaggio nella sua carriera che lo porta ad avere una visione complessiva delle necessità di un sistema industriale complesso è stato prima quello di viceministro al Commercio estero per una lunga stagione, cominciata nel 2001, nel più durevole dei governi guidati da Silvio Berlusconi. Contatti, buone relazioni, un certo interesse per i paesi dove investire e commerciare è più difficile. Temi affinati poi con la presidenza del Copasir. Dove arriva in seguito a un epico scontro interno fra Lega e Fratelli d’Italia, con questi ultimi rimasti soli all’opposizione e perciò titolati a rivendicare la guida della commissione sui Servizi di sicurezza e di informazione. La vicenda è recente ma sembra lontanissima vista attraverso gli equilibri politici attuali. La partita è stata durissima ma l’esito morbido, perché su chi poteva cadere la scelta di Giorgia Meloni, una volta ottenuto il sì di Matteo Salvini alla nomina rivendicata da FdI, se non sul più presentabile di tutti, ovvero Urso? La posizione è di potere e può anche dare spazio nella comunicazione. 

 

Qualcuno nel suo partito riteneva che Urso ne avesse ricavato anche troppo di spazio, ma queste sono questioni interne non troppo rare. Anche se è proprio in quel periodo che si crea la contrapposizione, fatta di differenti visioni politiche e anche di diversi stili personali, tra Urso e Guido Crosetto. Una partita che avrebbe visto vincente Crosetto nell’ottenimento del ministero della Difesa, ma che non è finita. Urso ha piazzato un colpo con la delega alle politiche per l’Economia dello spazio e per l’Industria aerospaziale. Mentre entrambi hanno ben resistito a qualche informazione maliziosa sulle carriere e sulle relazioni internazionali. Cose che avrebbero potuto metterli in difficoltà ma sulle quali c’è stata una sufficiente capacità di dare spiegazioni e rassicurazioni soprattutto dalle parti dell’ambasciata americana. Ha una moglie ucraina, ma russofona, che lo ha seguito nel viaggio vicino alle zone di guerra, primo esponente del governo italiano a portare solidarietà e impegno direttamente da quelle parti. Buona mossa, che poi lo ha portato al ruolo di grande organizzatore della conferenza sulla ricostruzione, permettendo a Meloni di rafforzare il posizionamento atlantista e di coltivare una fattiva intesa con l’amministrazione di Joe Biden. Nell’occasione Urso si è avvalso di una positiva comprensione personale con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. 


Ita, Tim, Stellantis, l’approvvigionamento di materie prime, ma anche la delusione di Intel. Questi gli impegni nelle sue corde


Il più presentabile tra gli impresentabili ormai sembra avviato, nella probabile stabilità del governo Meloni, a una lunga permanenza al ministero che fu dell’Industria. I liberali ci misero direttamente un confindustriale come Renato Altissimo e poi Valerio Zanone, di lì a poco liquidatore del Pli e poi cofondatore del Pd e quindi di Ala, con Francesco Rutelli. Un ministero che porta a fondare partiti. Come ha fatto Carlo Calenda e, avendone avuto l’interim, anche Matteo Renzi. E come prima aveva fatto Pier Luigi Bersani. E, se vogliamo considerare l’Ulivo un partito, anche Romano Prodi. Tra i ritratti dei predecessori, come è noto, c’era un altro fondatore di partiti, Benito Mussolini. Saggiamente rimosso da Bersani, non è stato rimesso al suo posto, ma resta il chiodo vuoto con accanto un tipaccio vestito da componente della milizia fascista, successore di Mussolini al ministero. Nella stanza di Urso pannelli con disegni leonardeschi coprono opportunamente altre cose mussoliniane. E tanto è dovuto per i conti con la nostalgia. Urso semmai ne ha per la pizza napoletana, ma si consola con l’asporto dall’ottima pizzeria vicina alla sua bella casa in Prati, vicino a Piazza Cavour. Dove comanda il cane Ice, in senso di ghiaccio (dal colore del suo pelo), da non confondere con l’Istituto per il commercio estero, che pure gli è caro ma, come succede con le faccende umane, forse meno fedele.

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