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futuro politico

De Luca terzo? Tutto sul governatore dem che vuole ricandidarsi anche oltre le regole

Marianna Rizzini

Il “trauma sociale” per l’sms Inps, gli abiti “no armocromia” e la lotta “con il lanciafiamme” in pandemia, applaudito da Naomi Campbell. Lessico, mosse, bersagli, fissazioni, presente e passato del presidente della Campania

Per lui parla prima di tutto il tono di voce stentoreo (dramma shakesperiano? opera non buffa?), perfetto conduttore di un lessico che fluttua tra la tragedia, la commedia, la letteratura, il discorso terra-terra, il baedeker ex Pci da cortina di ferro e il registro dialettico televisivo moderno. Dopo la voce arriva l’immagine – inquadratura da una tv locale con contorno di piante o scarno sfondo scuro oppure palco di campagna elettorale su cui il soggetto si staglia, tuonando minaccioso contro quelli che a Roma “fanno chiacchiere e fumo”. Infine arriva lui, Vincenzo De Luca, già sindaco pd di Salerno per quattro volte e oggi governatore campano al secondo mandato, per nulla docile rispetto alla regola che vieterebbe di correre per il terzo. Arriva con l’argomento del giorno e decenni di carriera politica alla spalle, cosa che non sempre aiuta a capire subito dove vada, come e perché, fino a che le intenzioni non irrompono da un copione dialettico in cui ogni pausa non è messa a caso (i fan a quel punto applaudono, gli avversari a quel punto fischiano, nessuno sta fermo perché in Campania, e non solo, De Luca o lo amano alla follia o lo detestano al millimetro).

Lui, il governatore, dice che “il tetto ai mandati è demenziale”, motivo per cui  promette-minaccia di ricandidarsi in eterno (con chi è un altro discorso, vista la non buona onda che corre tra De Luca e la nuova segreteria schleiniana del Pd, da cui le molte congetture che già fioriscono attorno a un  presunto asse con il governatore pugliese Michele Emiliano e ai dialoghi con Carlo Calenda). Ma imprevedibile è l’uomo e il suo eloquio, al punto che qualcuno, al Nazareno, ha trasecolato, qualche giorno fa, quando De Luca, sul reddito di cittadinanza, si è messo a parlare da tribuno delle plebi tutte, definendo l’sms dell’Inps un “trauma sociale” per famiglie “trattate come oggetti”, detto con voce allarmata al di là del bene, del male e delle parole della segretaria Schlein, che sul tema si era spesa nel cuore di quella che ha chiamato “estate militante”, puntando anche e soprattutto sul salario minimo, vista la grancassa competitiva di Giuseppe Conte dal M5s. E insomma il De Luca di oggi non teme di risultare in contrasto, quantomeno per veemenza, con il De Luca che a fine settembre, prima del voto politico, alla chiusura della campagna elettorale del centrosinistra, non l’aveva mandata a dire a Cinque stelle e dem possibilisti sul RdC: “Con il Reddito di cittadinanza non controlla più niente nessuno. Abbiamo mescolato le povertà con i parassiti e i figli di buona donna”, e la frase rotolava istantaneamente dal palco dem di Piazza del Popolo ai social che su De Luca hanno fatto una fortuna, tra meme e collage dei collezionisti di espressioni del governator (nemici e amici).

La materia è come dire ridondante. Come quando, a un comizio, poco più di un mese fa, De Luca ha investito senza paraurti, prendendola dal dettaglio, la Weltanschauung del nuovo corso schleiniano: “Anche se come vedete io vesto da vecchio burocrate, sempre grigio e blu”, diceva il governatore, il cui figlio Pietro, deputato dem riformista, nel frattempo era stato sollevato dall’incarico di vicecapogruppo pd alla Camera, “e non ho molta armocromia”, proseguiva De Luca padre, “beh mi darebbe fastidio dare trecento euro l’ora a una consulente per i colori, perché trecento euro l’ora sono due terzi di una pensione al minimo”. Per non dire di quando, a inizio luglio, mentre Schlein riuniva la segreteria a Ventotene, in onore dei padri fondatori dell’Europa unita, De Luca si lanciava in un’invettiva sui dirigenti del suo stesso partito: “Neanche nell’Africa subsahariana!”, scandiva davanti ad astanti che, lì per lì, faticavano a capire chi fosse il destinatario delle accuse: “Ci fosse stato Pasolini!”, sospirava De Luca, “avrebbe svelato l’atto di delinquenza politica di chi ha perduto le primarie e ha sequestrato il partito”. Ed ecco che si capiva che il j’accuse puntava dritto ad Antonio Misiani e a Susanna Camusso: “Tal Misiani, cacicco con alle spalle cinque legislature e un fiore di freschezza come la Camusso, a cinque mesi di distanza non stanno facendo niente. Hanno sequestrato il partito, ripeto, perché quelli che hanno vinto in Campania non amano il look della Schlein”. Ma la posta in gioco vera era l’autonomia differenziata, oggetto di un incontro a Napoli organizzato da Schlein a metà luglio e disertato da De Luca: “Questo è un cabaret, un grande circo equestre”, era la frase del governatore che preludeva all’assenza fisica: “Autonomia differenziata? L’unica proposta è quella della Regione Campania - ovvero dare incarico a un organismo tecnico, l’Ufficio parlamentare di bilancio che è un organo terzo che possa definire i livelli essenziali. Gli unici che hanno combattuto in maniera coerente e tenace contro l’autonomia differenziata siamo stati noi. Non credo che il Pd abbia titolo per sollevare il problema dell’autonomia: uno degli aderenti al Pd, l’ex ministro Roberto Speranza, quando si è fatto il reparto e io protestavo perché venivamo derubati, faceva finta di non sentire. Bisogna essere credibili. La battaglia necessita di coerenza, non di chiacchiere al vento”. Già che c’era, De Luca ne aveva anche per la politica di Schlein sul contrasto alla povertà: “Nel Sud non abbiamo bisogno del salario minimo, ma del lavoro minimo”.

Ma anche in tempi lettiani (segreteria Pd di Enrico Letta) ci sono stati giorni diplomaticamente tesi, quando De Luca si è scagliato contro il ministero della Cultura, allora guidato da Dario Franceschini, perché a suo dire “bloccava la sburocratizzazione della Campania”, o quando un gruppo di intellettuali e docenti campani, tra cui Aurelio Musi, Isaia Sales e Giuseppe Cantillo, ha scritto a Letta per denunciare quella che a loro pareva arbitraria protervia deluchiana:  “Da tempo non stiamo più in Italia ma in una sorta di repubblica autarchica dove vige la legge del padrone, un odiatore seriale che da anni offende tutti, a cominciare dal partito a cui appartiene. Il tuo”, scrivevano: “Sotto De Luca il Pd è a pezzi. Noi della Campania ti chiediamo di esprimerti con chiarezza: sei favorevole o contrario al terzo mandato del presidente della Regione Campania, con legge ad personam? Ma soprattutto ti chiediamo: come pensi di sostenere le ragioni del Sud e al tempo stesso di tollerare questa deriva regional-sovranista, clientelare, familistica, affaristica?”. E sempre a Letta, investito del cahier de doléances campano, veniva addirittura dato il consiglio di leggere “Una profezia per l’Italia”, testo sul regionalismo di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone (ed.Mondadori), e di leggerlo come specchio “di una catastrofe nazionale” di cui De Luca era “la più macchiettistica espressione”. A quel punto arrivavano i comici, e prima di tutto Maurizio Crozza, da tempo affezionato al De Luca miniera per la satira: “Non ottenere il terzo mandato per De Luca sarebbe come avvolgere il sangue di San Gennaro nella maglia di Maradona e regalarlo alla Proloco di Bolzano”, scherza va Crozza, ripreso dagli stessi deluchiani.

Sceriffo, dittatore, sindaco-poliziotto, dicevano i nemici di De Luca quando De Luca era sindaco di Salerno e si produceva in invettive (e azioni) in favore di quelli che chiamava “i proletari veri che vanno a lavorare”, e non i ragazzotti che “rintronano di decibel i cittadini che dormono”. Minacciava di fare guerra a centri sociali occupati, parcheggiatori abusivi, gente in motorino senza casco e “plebeismo cialtrone”. Circondato da sostenitori che sventolavano bandiere da tifoseria sfegatata e contrastato dagli oppositori dei progetti “tutto cemento e archistar”, si proponeva di supportare personalmente la polizia lungo il litorale, allora teatro di risse tra diverse fazioni di sfruttatori di ragazze immigrate avviate alla prostituzione. Pugno di ferro, diceva (e faceva), anche nel momento in cui il Covid giungeva in Campania, nelle terribili notti d’inizio marzo 2020, scendendo con i treni gremiti provenienti dal Nord. E a quel punto, al grido di “altro che Guido Bertolaso, qui ci vuole Padre Pio”, cominciava a mettere a punto la strategia di tolleranza zero verso chi usciva di casa, con licenze poetiche, si fa per dire, sui metodi di contenimento del contagio. Ed effetti imprevisti, come quando uno dei suoi video contro gli irresponsabili della pandemia, pubblicato sulla sua pagina Facebook, in cui De Luca minacciava di mandare “i carabinieri con il lanciafiamme da chi organizzava feste di laurea durante l’isolamento”, aveva fatto il giro del mondo grazie alla ripresa internettiana di Naomi Campbell.  “Listen America, Listen”, aveva commentato la top model, fan insolita per l’uomo che a un certo punto aveva inventato il contestato sistema pre-green pass della “smart card anti-Covid” (destinata alle Asl per dare un attestato di libera circolazione ai cittadini vaccinati). Proprio per quelle smart card (presunto danno erariale) ora De Luca è indagato dalla Procura regionale della Corte dei Conti (“spesa inutile”, la motivazione). Non che la circostanza faccia scomporre più di tanto il governatore: nel primo decennio degli anni Duemila diceva di andare fiero dei capi d’imputazione che riguardassero decisioni prese in servizio, specie in tema di monnezza e lavoratori licenziati, e oggi rivendica il suo battersi “da dieci anni contro il reato di abuso d’ufficio” (su cui ha appoggiato il governo di centrodestra).

Di formazione classico-filosofica e di carriera solidamente ancorata all’ex Pci (area migliorista partenopea), poi Pds-Ds-Pd, soprannominato dai detrattori “leghista-stalinista”, De Luca sosteneva di ispirarsi nel pensiero a Piero Gobetti e ad Antonio Gramsci, e nell’azione allo storico sindaco di Bologna Renato Zangheri (“ma nei nostri quartieri salernitani se lo sarebbero magnato”, aveva detto un giorno in un’intervista a questo giornale, lasciando intravedere un modello opposto a quello “pugno di ferro” che comunque applicava in città). La gavetta di De Luca, invece, risale agli anni in cui, con due sindacalisti amici di Fausto Bertinotti, girava per l’agro nocerino a dare assistenza ai contadini vessati dalla camorra (“resteremo sempre un minuto in più dei Casalesi” è stato uno dei suoi cavalli di battaglia da comizio). Anche se all’inizio De Luca voleva fare il chirurgo, tanto da frequentare Medicina per tre anni, per poi cambiare facoltà, essendosi reso conto che Filosofia era più adatta a chi volesse cambiare il mondo, raccontava anni fa prendendo in giro il se stesso giovane e pieno di slogan “pace-amore-fantasia”.

“Il cambiamento non piace a tutti”, è la risposta che di solito la segretaria Schlein dà quando ai talk show qualcuno le riporta le critiche di De Luca sui suoi modi e e i suoi tempi (ma anche sulle tornate elettorali andate male: “Travolgente successo”, è stato l’epitaffio di De Luca sulle amministrative in Molise). A destra invece il bersaglio è al momento il ministero della Cultura guidato da Gennaro Sangiuliano, sebbene la punzecchiatura sia avvenuta in forma insolitamente indiretta. Fatto sta che ieri De Luca non ha presenziato all’inaugurazione della mostra “Elea, la Rinascita” a Velia, risentito per una presunta dimenticanza (o gaffe) del ministero, tanto che ieri dagli uffici di De Luca usciva questa nota che smentiva il volantino dell’evento: “Diversamente da quanto comunicato dal ministero della Cultura, e nonostante il rilevante impegno finanziario della Regione, non vi sarà la partecipazione del presidente De Luca all’evento del cui programma non è stata data alcuna informazione preventiva alla Regione”.

Ma è sul terzo mandato che continua ad andare in scena la disfida De Luca contro tutti: a Taranto, qualche giorno fa, parlando di sé in terza persona, il governatore ha fatto sapere che “De Luca farà quello che vuole, mica aspetta il permesso di qualcuno”, e ha preso il Pnrr come canovaccio per guardare oltre i confini del Pd: “Dobbiamo unire tutto il Sud, anche le Regioni governate da presidenti di centrodestra che sono un po’ timidi. Io non guardo le bandiere di partito, ma i fatti. E se questi dicono che il Sud è penalizzato, io combatto contro tutti i governi, quale che sia il colore politico. Dovremmo imparare a fare così nel Mezzogiorno perché nel nord una cosa di positivo hanno: sono uniti nella difesa degli interessi del centronord”. Da sindaco-sceriffo a governatore-tribuno, ci è, ci fa, ci crede, De Luca? Se lo  domandano in Campania, mentre il governatore — che odia pure il “campo largo” — si predispone in solitaria alla campagna del 2025.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.