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l'editoriale del direttore

Non si parla più di guerra. Ma è una buona notizia

Claudio Cerasa

L’opinione pubblica si è disinteressata al tema del conflitto. Preoccupante? No. Incoraggiante. Difendere una democrazia aggredita non solo è giusto ma è compatibile con il nostro benessere. Lezioni per gli utili idioti del putinismo

Ci avrete fatto caso anche voi: non si parla più di guerra. Nulla. Puf. Sparita dai radar. Certo: a volte arriva qualche notizia. A volte arriva qualche storia dalla controffensiva. A volte arriva qualche sparata di Putin. Ma, salvo qualche eroico giornale che cerca da circa cinquecento giorni di avere sempre l’Ucraina in prima pagina, l’opinione pubblica sembra essersi improvvisamente disinteressata al tema della guerra. E lo stesso la politica. Nulla. Puf. Tutto sparito dai radar. A prima vista, la notizia potrebbe apparire come drammatica. Ma come? C’è un paese in guerra, che difende i suoi confini, che difende la sua sovranità, che difende la sua libertà, che è assediato da un anno e mezzo da un paese guidato da un dittatore sanguinario e noi non ne parliamo più? Se ci si riflette un istante, però, si capirà facilmente che la notizia apparentemente terribile è in realtà una notizia semplicemente entusiasmante. Una notizia che ci mostra un lato poco raccontato del conflitto e dei suoi inaspettati riflessi nel nostro paese. Si era detto a lungo, ricordate, che la guerra in Ucraina sarebbe stata insostenibile. Insostenibile per la nostra economia. Insostenibile per il nostro benessere. Insostenibile per le nostre esportazioni. Insostenibile per il nostro sistema politico. Insostenibile per il nostro modello democratico. E invece, un anno e mezzo dopo l’inizio del conflitto e un anno e mezzo dopo le molte dichiarazioni messe in campo dai professionisti della zizzania, convinti che difendere l’Ucraina facendo muro contro la Russia avrebbe arrecato infiniti danni al nostro paese, siamo lì a guardarci attorno e a non accorgerci più, nella nostra quotidianità, della presenza del conflitto. Le sanzioni non funzionano come potrebbero, lo sappiamo, ma intanto, grazie alla compattezza dell’Europa, continuano a funzionare e continuano a creare più danni alla Russia di quanti ne possano creare all’Europa (nel settore energetico è stato registrato un crollo del 50 per cento delle entrate fiscali da gas e petrolio nei primi mesi del 2023 rispetto all’anno precedente). Funzionano le sanzioni. Ma funzionano anche gli aiuti militari con i quali l’Ucraina sta costruendo la sua resistenza alla Russia (e gli stessi cavalli di troia del putinismo, all’interno del nostro dibattito pubblico, faticano maledettamente a trovare buoni argomenti per accusare l’occidente di essere guerrafondaio). Funzionano anche gli accordi di libero scambio che stanno permettendo a paesi come l’Italia di sopperire alla grande alla piccola percentuale di esportazioni alla quale occorre rinunciare stando lontani dalla Russia (l’Italia esportava in Russia, prima della guerra, l’1,5 per cento dei suoi beni, contro un 80 per cento dei beni che va nei paesi occidentali, e quell’ottanta per cento ha permesso al nostro paese di raggiungere, sulle esportazioni, numeri record: lo scorso anno abbiamo sfondato quota 600 miliardi di euro). Funzionano anche gli accordi europei adottati sul price cap, il tetto al prezzo del gas adottato alla fine dello scorso anno in Europa, che hanno contribuito a portare il costo del gas per megawattora (Mwh) dai 300 euro dell’agosto del 2022 ai 28 euro del luglio del 2023. Funzionano anche le politiche europee di diversificazione delle fonti energetiche per superare la dipendenza dalla Russia (secondo Reuters, nella prima metà del 2023 Gazprom ha infatti pompato solo 12,1 miliardi di metri cubi di gas nei paesi europei: nel 2022 erano sei volte di più). E funzionano anche i provvedimenti duri ma necessari presi in questi mesi dalla Banca centrale europea, che ha scelto di muoversi in direzione opposta rispetto a quella indicata dal fronte unico del populismo italiano, di cui scrive oggi Luciano Capone sul Foglio, alzando i tassi per raffreddare l’inflazione senza far collassare le economie. Non si parla più di guerra, in Italia, e anche in Europa, perché in un anno e mezzo l’opinione pubblica, con piccoli e grandi sacrifici, ha capito perfettamente quello che gli utili idioti del putinismo negavano con forza. Ovvero: la difesa di una democrazia aggredita non è solo giusta ma è perfettamente sostenibile con la difesa del nostro benessere (e dire il contrario non porta alcun consenso). E questo è potuto accadere per alcune ragioni precise, non scontante. Grazie al sostegno dell’Europa, grazie alla linfa della globalizzazione, grazie all’aiuto degli Stati Uniti (via Gnl: il gas naturale liquefatto che ci sta aiutando a sostituire parte del gas russo che non acquistiamo più), grazie alle misure della Bce. In sintesi: grazie a tutto ciò che il populismo ha sempre sognato di abbattere, il mondo libero, compresa l’Italia, sta riuscendo nella impresa non facile di rendere la difesa della democrazia compatibile con la difesa della nostra economia. Non si parla più di guerra? Bene così. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.