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Lo Smig de noantri

Sul salario minimo garantito i rischi di un'operazione esposta al populismo

Giuliano Cazzola

Il progetto di legge presentato dalle opposizoni alla Camera solleva dubbi sulla sua efficacia e sul possibile impatto sulla contrattazione collettiva, con conseguenze per le imprese e per il ruolo dei sindacati

Salvo auspicabili ripensamenti, alla Camera  viene depositato il progetto di legge (presentato da tutte le opposizioni con meritoria eccezione di Italia viva) per l’introduzione del salario minimo legale. Chi scrive è da tempo parcheggiato nell’area riservata a +Europa e ad Azione, ma non riesce a capire che cosa abbia indotto persone come Benedetto Della Vedova, Riccardo Magi e Carlo Calenda a indossare i calzoncini e la maglietta della Cgil per scendere nel campo da calcetto della sinistra e condividere la responsabilità di una delle operazioni maggiormente esposte al  populismo quale è il salario orario minimo disposto per legge.

Essendo giustamente contraria la maggioranza (come risulta dalla risoluzione a suo tempo votata dalla Camera), tale  proposta si trasforma in un’Azione (occhio Calenda!) di propaganda come se questa fosse la strada per affrontare e risolvere la questione salariale. In un paese come l’Italia che vanta un’elevatissima copertura della contrattazione collettiva, non vi sono 3,5 milioni di lavoratori dipendenti privi di un riferimento contrattuale, per di più nel contesto di una giurisprudenza consolidata che considera, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione, sufficiente e proporzionata la retribuzione prevista nelle tabelle dei contratti collettivi. Non è campata in aria l’osservazione – sulla quale insiste Giorgia Meloni, evidentemente ben consigliata in questo caso  – secondo la quale lo “Smig de noantri’’ potrebbe avere un effetto sostitutivo. Quando la legge “tipizza’’ e definisce il salario minimo non si vede come possa la giurisprudenza compiere voli pindarici per andare a individuarne uno diverso e migliore, sanzionando l’impresa  che si attiene solo a quanto sancito in via legislativa, poiché estranea a vincoli associativi che comportino l’applicazione di contratti di diritto comune.

Per quanti (come chi scrive) ritengono inadeguata una struttura contrattuale imperniata sul contratto nazionale di categoria (ereditato con modifiche dal regime corporativo) il salario minimo legale potrebbe svolgere la funzione di  ridimensionare, rispetto alla contrattazione decentrata, il contratto nazionale fino a sostituirne la centralità nell’ambito delle relazioni industriali. Non c’è posto per due deretani sulla medesima sedia. Infatti, nei 21 paesi (su 27)  della Ue dove è istituito un salario minimo legale non vi è traccia o ha un ruolo secondario, rispetto ad altri livelli di contrattazione, il contratto nazionale di categoria. A queste considerazioni si aggiungono degli elementi di carattere materiale. L’importo del salario minimo che viene proposto è pari a 9 euro orari (lordi?) uguali per tutti i settori; ciò corrisponde all’87 per cento del salario mediano nazionale. A fronte di tale base salariale resa obbligatoria per legge verrebbero meno spazi reali di contrattazione a livello nazionale  mentre  potrebbero essere recuperati solo attraverso la contrattazione decentrata e  di prossimità nello scambio con incrementi della produttività. Per la sinistra politica e sindacale questa sarebbe una vera e propria eterogenesi dei fini. Chi vuole la bicicletta, poi deve pedalare.  

E c’è un altro aspetto. Il salario minimo resusciterebbe un’altra scala mobile, inclusa e incorporata nel complesso della retribuzione che, al pari di quella antica, non solo sarebbe una fabbrica a ciclo continuo di inflazione ma, vista l’ampiezza della copertura, sottrarrebbe di nuovo ai sindacati il ruolo di autorità salariale. C’è anche un problema di maggiori costi per il sistema delle imprese. Nell’ipotesi di 9 euro lordi (copyright Inapp) si tratterebbe di almeno 4 miliardi. E qui viene il bello. Il  partito  dei “riformisti e massimalisti uniti nella lotta’’ assegna un termine (novembre 2024) ai sindacati per adeguare i contratti alle nuove retribuzioni e (udite! udite!) istituisce un fondo nella legge di bilancio per aiutare le imprese “a rispettare i nuovi livelli di retribuzione’’.   Si inaugura così un altro caso di quella “nazionalizzazione’’ delle retribuzioni  e dei redditi che è la nuova frontiera della politica del lavoro in Italia. Ormai pensa a tutto  lo stato: copre di incentivi le aziende perché assumano; fiscalizza una quota crescente  di contribuzione previdenziale (versata per pagare le pensioni) allo scopo di  diminuire il “cuneo’’ a favore dei lavoratori; eroga l’assegno di inclusione e gli ammortizzatori sociali. A governare l’affaire Smig provvederebbe  un’apposita commissione. Sarebbe quindi molto più facile, per i sindacati, sottoporre le loro rivendicazioni all’organo politico di governance del salario minimo, piuttosto che impegnarsi nel classico negoziato con le controparti.

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