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Dignità e Libertà

L'astratta pretesa di un “mondo senza frontiere” non fa onore al pride torinese

Sergio Soave

Dopo la richiesta degli organizzatori della sfilata LGBTQIA+, che si terrà a Torino, scoppia la polemica. Il pride ha senso soprattutto se incide nella realtà, con la sua carica libertaria applicata alla situazione reale

Gli organizzatori del gay pride torinese hanno pubblicato un annuncio in cui chiedono ai partecipanti di non portare in piazza “bandiere nazionaliste o atlantiste”. Il riferimento è ovviamente alla guerra in Ucraina, che non deve interferire con il pride che ha “una posizione pacifista”. Che una manifestazione che ha un proprio carattere specifico non voglia trasformarsi in qualcos’altro è comprensibile, l’equidistanza fra aggrediti e aggressori, invece, no. Tra l’Ucraina che intende aderire all’Unione europea dove sono in vigore direttive per la repressione dell’omofobia e la Federazione russa nella quale, al contrario, si reprime l’omosessualità, non c’è proprio differenza? Anche la scelta linguistica che degrada le bandiere nazionali a bandiere nazionalistiche, e quelle atlantiche ad atlantistiche è sintomo di una concezione cosmopolita che naturalmente è lecita ma non può essere imposta a un movimento per la dignità e la libertà degli omosessuali al quale ovviamente partecipano persone dei più vari orientamenti culturali. 

La spiegazione che viene data nel comunicato, secondo cui “il pride guarda a una comunità allargata che è fuori dai confini, barriere, frontiere: anzi proprio le frontiere non riusciamo a sopportarle”, è di un’astrattezza disarmante. Questa “comunità allargata” è fatta di persone in carne e ossa, che vivono condizioni specifiche assai diverse proprio a seconda della situazione legislativa, sociale e civile vigente nei diversi paesi, che esistono e pesano sulle condizioni concrete di vita delle persone. E’ lo stesso vivere una condizione da omosessuale negli Stati Uniti o in Iran? La solidarietà degli omosessuali che possono liberamente manifestare (perché è un loro diritto, non per una “concessione” naturalmente) nei confronti di quelli che non lo possono fare perché sottoposti a regimi illiberali e omofobi dovrebbe essere il collante di quella “comunità allargata” di cui parlano gli organizzatori del pride torinese. 

Viene da chiedersi quali siano i percorsi culturali che portano un movimento per sua natura libertario che combatte contro le discriminazioni e le oppressioni, a non riconoscere come proprio terreno naturale quello della competizione tra i sistemi in cui, in modo naturalmente imperfetto, la libertà viene affermata come principio basilare e quelli in cui è invece combattuta oppressa e perseguitata concretamente e spesso ferocemente. Probabilmente si tratta di un percorso in cui l’utopia “anarchica” del mondo senza frontiere, della comunità umana che si auto organizza senza lo stato, in cui i diritti vengono rispettati spontaneamente e non perché lo impone la legge cioè lo stato, oscura la coscienza della realtà concreta, dei fatti reali, che poi è invece la condizione di vita effettiva delle persone. In questo modo, facendo prevalere il sogno di una società che non esiste sull’esame dei problemi che nella società effettiva si pongono, si finisce col rendere confusa la ragione stessa delle lotte di liberazione, rendendole così più astratte e meno convincenti. Il pride ha senso soprattutto se incide nella realtà, con la sua carica libertaria applicata alla situazione reale. Non esiste un mondo in cui l’unica bandiera è quella arcobaleno, il che non significa che nella manifestazione si debbano confrontare bandiere che esprimono sensibilità diverse, non è questo il problema. Augurando il miglior successo al pride torinese come a tutte le espressioni di libertà, può essere lecito invitare gli organizzatori a ricordare che le persone che vogliono rappresentare vivono nel mondo reale, del quale subiscono contraddizioni e insufficienze, e che solo riconoscendo la realtà così com’è, con tutte le sue differenze e con tutte le sue frontiere, si può incidere su di essa, mentre la fuga nell’astrattezza del “mondo senza frontiere” si rischia la marginalità e l’inefficacia.

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