(foto Ansa)

Rain man

L'asse con Weber e il ricordo del Cav. Così Fitto prova ad avvicinare Meloni al Ppe

Valerio Valentini

Le manovre del ministro degli Affari europei per portare la premier dentro il gruppo dei popolari. Il tentativo di rendere presentabile il sovranismo italiano agli occhi di Bruxelles verso il voto del 2024 

A Bruxelles c’è chi lo chiama, con bonaria ironia, “Rain man”, che è come, nel gergo dei broker, s’identifica il tipo con la grana. Perché in fondo Raffaele Fitto quello, anzitutto, dovrebbe fare: portare a casa il malloppo del Recovery. Ma forse più che a garantire a Roma i fondi del Pnrr, il ministro per gli Affari europei, nei prossimi mesi, dovrà imbarcarsi in un’impresa forse altrettanto decisiva, per Giorgia Meloni. Dovrà, cioè, portare FdI dentro, o negli immediati dintorni del Ppe. E forse è già da tempo al lavoro, se è vero che di lui Manfred Weber dice che “è uno dei pochi italiani che non devono fare anticamera, per entrare nel mio ufficio”. Lo raccontava, il presidente dei Popolari, venerdì scorso al termine della convention romana del Ppe organizzata da Antonio Tajani. E lo diceva, in verità, per allontanare lo scenario che altri invece vorrebbero plausibile, e cioè appunto un’alleanza del partito di Meloni con la più strutturata delle famiglie del centrodestra europeo. “Con Ecr non parliamo, i polacchi del PiS sono i nostri nemici politici, sostenere Vox alle elezioni spagnole è impensabile”. E FdI? “Nessuno di loro ha consuetudine con noi”, spiegava Weber, salvo poi aggiungere, appunto, che l’unico frequentatore abituale del suo ufficio, al di fuori degli amici di Forza Italia, è proprio lui, Fitto.

 

E qui ovviamente il sillogismo di Weber è facile da seguire. Ché insomma Fitto è il solo di FdI a godere di un certo riconoscimento, tra i vertici del Ppe, proprio perché la sua storia, la sua indole, è assai poco assimilabile ai patrioti della Fiamma. E non è un caso che quando, per stigmatizzarne l’eloquio imprendibile e la tendenza a scansare le scelte troppo nette, amici (e detrattori) gli danno del democristiano, lui ricorda quel manifesto che segnò il suo debutto, di quando ventenne, nel 1990, si candidò in Puglia con alle spalle lo scudo crociato. Il resto è storia nota: dalla lunga avventura in Forza Italia fino all’approdo in FdI nel 2019. Semmai colpisce, in questa storia, il fatto che Meloni consideri proprio Fitto uno dei “fratelli” più fidati, lui che fratello d’Italia non lo è forse mica tanto. In un perimetro di legami che o sono ab aeterno o non sono, cementati nei tempi remoti della militanza missina, insomma in quella tribù impenetrabile che è il sancta sanctorum di FdI, affare di famiglia più che di partito, Fitto è il solo estraneo con pieno diritto di cittadinanza, indispensabile forse proprio perché altro, al punto che la premier lo vuole sempre accanto a sé nei bilaterali più importanti, anche a costo d’imporre modifiche irrituali ai cerimoniali: com’è avvenuto negli incontri con Ursula von der Leyen a Roma e in Romagna, com’è avvenuto  di recente in occasione della visita di Olaf Scholz a Palazzo Chigi.

 

E questo, ovviamente, spiega anche il debordare delle deleghe, l’aver fatto del ministero “senza portafoglio” di Fitto la centrale di spesa più strategica dell’intero esecutivo: politiche di coesione, affari europei, Pnrr. Roba da far venire una vertigine anche ai più tetragoni; roba che perfino a Bruxelles a volte desta qualche perplessità, quando si constata che è proprio Fitto a portare avanti delle trattative – sul bilancio, sul Patto di stabilità, sul Recovery – che negli altri paesi sono  in capo ai ministri di Economia e Finanze. Un’anomalia a cui Giancarlo Giorgetti assiste con paciosa indolenza: come che insomma non gli dispiaccia granché che certe rogne provi a sbrigarsele Fitto in vece sua. E poi ovviamente c’è l’altra sfida, quella più politica. Avvicinare Meloni al Ppe, rendere presentabile il sovranismo italico agli occhi di chi lo considera per quello che è stato finora, e continua a essere, e cioè la versione nostrana dell’ultradestra di Visegrád.

 

E allora forse l’aver voluto partecipare, a nome del governo italiano, al ricordo di Silvio Berlusconi al Parlamento europeo, due giorni fa, insieme a Weber e alla presidente Roberta Metsola, sua amica personale, non è stato casuale: quasi insomma a voler rivendicare che un po’ di quella eredità è anche sua, di Fitto, e dunque, per azzardata proprietà transitiva, anche di Meloni. Che poi l’operazione diplomatica riesca fino in fondo, chissà. Se davvero, come pare, il Ppe pretendesse da FdI una rottura dei rapporti col PiS e con Vox, prima di accogliere il partito della Fiamma nella stanza degli adulti, la cosa potrebbe farsi complicata, perché dovrebbe essere proprio Fitto a intestarsi lo smantellamento di quel gruppo – Ecr – che ha contribuito a costruire, di cui è stato presidente, e di quel partito di cui ha fatto sì che Meloni diventasse leader europea. E però, se le convenienze tattiche lo imporranno, in vista del voto del 2024 o subito dopo, Fitto farà quel che deve, magari senza darlo troppo a vedere. I democristiani fanno così.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.