Giuseppe Busia (presidente Anac)

l'editoriale del direttore

Contro il metodo Anac. Serve il coraggio di rischiare, anche sul Ponte sullo Stretto

Claudio Cerasa

Per l'Autorità anti corruzione l’unico modo di realizzare l'opera è affidarla allo stato per evitare che vi possano essere delle truffe. Ma il rischio per l'Italia è considerare progressivamente l’immobilismo come l’unica forma di legalità consentita

E se il rischio più grande per l’Italia fosse quello di non avere il coraggio di rischiare? Le parole cupe consegnate ieri mattina alla Camera dal presidente dell’Autorità anti corruzione Giuseppe Busia sul tema del Ponte sullo Stretto di Messina rappresentano un’occasione ghiotta per mettere a fuoco un tema importante che riguarda un grande tabù italiano. Il tabù in questione coincide con l’istinto naturale coltivato da un pezzo non irrilevante della burocrazia del nostro paese a mettere costantemente l’Italia di fronte a una verità amara: considerare progressivamente l’immobilismo come l’unica forma di legalità consentita, compatibile con la natura maligna e truffaldina del nostro paese.

 

Busia ieri ha scelto in modo demagogico di soffiare sul fuoco del partito anti Ponte notando che nell’opera vi è “uno squilibrio nel rapporto tra il concedente pubblico e la parte privata, a danno del pubblico, sul quale finisce per essere trasferita la maggior parte dei rischi”. In sostanza, l’Anac sostiene che, essendo lo stato incapace di evitare che il privato inserisca clausole capestro in un contratto, l’unica soluzione possibile è quella di auspicare che sia lo stato a realizzare interamente un’opera dalla portata pubblica per evitare che vi possano essere delle truffe.

 

Busia, che forse non sa che il tunnel della Manica è stato costruito con lo stesso rapporto tra pubblico e privato con cui potrebbe essere realizzato il Ponte sullo Stretto, dimentica di notare che se lo stato e gli enti pubblici non sono capaci di scrivere o fare rispettare contratti il problema non è dei privati ma è dello stato che sceglie sistematicamente di non acquisire le competenze per farlo, assumendo per esempio più tecnici e più avvocati specializzati in appalti per redigere i contratti e vigilare sul loro rispetto.

 

Ma al di là dei tecnicismi la posizione di Busia è interessante perché permette di ragionare attorno a quello che è il vero tema che riguarda il Ponte così come tutte le cosiddette infrastrutture strategiche. E il tema è presto detto: fare o non fare una grande infrastruttura non dipende da un dato tecnico, da una comparazione tra i costi e i benefici, ma dipende dalla propria visione del mondo. E dalla volontà di affermarne una piccola. Uno stato che decide di non fare qualcosa perché ha paura di non saper combattere fino in fondo l’illegalità o l’inefficienza è uno stato che ha scelto di abdicare al suo ruolo. Viceversa, uno stato che sceglie di sfidare le sacche di inefficienza e di criminalità di un paese scommettendo su un’infrastruttura è uno stato che sceglie di mostrare il suo volto migliore rendendosi conto che nella dinamica dei costi e benefici il costo più importante coinciderebbe con il non costruire una grande opera solo per paura di non saperla fare.

 

Si dirà: eh sì, ma come fai a costruire una cattedrale nel deserto, come fai a fare un ponte per valorizzare l’alta velocità laddove l’alta velocità non arriva? Risposta semplice: a volte è la domanda che crea l’offerta ma a volte, come nel caso di un ponte, è l’offerta che crea la domanda, e avere un’alta velocità che non si ferma è un incentivo in più e non in meno ad avere infrastrutture stradali e ferroviarie all’altezza della sfida. E poi: eh sì, ma come fai a costruire un ponte in una zona sismica, non sarai mica un incosciente o un irresponsabile? Risposta semplice anche qui: esistono già meravigliosi ponti in zone sismiche, come il Golden Gate Bridge a San Francisco o come il ponte Akashi-Kaikyo Ohashi in Giappone o come il Ponte dei Dardanelli in Turchia.

 

Nel paese dei no, spesso, come dimostra per esempio il caso del Mose a Venezia, quando i no diventano sì i primi a beneficiarne sono gli stessi cittadini che avevano combattuto per il no. Lo sappiamo: colui che dovrebbe realizzare l’opera sta all’efficienza come il Milan sta alla finale di Champions (ops). Ma nonostante questo, nessun dubbio: dividersi sul Ponte  significa non capire cosa rischia l’Italia a trasformare l’immobilismo nell’unica forma di legalità consentita.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.