Perché l'Anac ha torto sul codice degli appalti

Giacinto Della Cananea

Le critiche del presidente dell'autorità Giuseppe Busia sono sbagliate, pericolose e autolesioniste. Tre problemi, uno di metodo e due di merito

Le reiterate critiche mosse dal presidente dell’Anac al nuovo codice degli appalti pubblici sollevano tre problemi, uno di metodo e due di merito. La questione di metodo non riguarda il fatto che un’autorità amministrativa indipendente, come l’Anac, esprima dubbi su un atto governativo, il codice. Autorità ben più consolidate, come la Corte dei conti (creata da Cavour nel 1859) e la Banca d’Italia (istituita nel 1893), utilizzano una varietà di strumenti, dagli atti ufficiali alle audizioni parlamentari, per fornire dati affidabili ed esprimere valutazioni tecniche, onde promuovere la correzione di decisioni ritenute inidonee a conseguire gli obiettivi. Il problema sta nella scelta d’intervenire nel dibattito pubblico in modo estemporaneo, al di fuori delle sedi e delle occasioni istituzionali, nel farlo in modo personalizzato, lasciando in disparte il collegio, e nel non formulare valutazioni tecniche, bensì di opportunità. In questo modo si finisce per politicizzare la funzione dell’Anac, attirandola nella dialettica tra le forze politiche.

    

Nel merito, il primo problema riguarda il punto di partenza dell’esternazione del presidente dell’Anac, cioè l’asserzione che “se le regole sono buone, ma si modificano le soglie così da applicarle solo a una minima parte degli appalti, vengono in realtà svuotate”. Questa asserzione trascura i fondamentali dati normativi e fattuali. Sul piano normativo, la disciplina europea stabilisce le soglie di valore economico (più di 5 milioni di euro per gli appalti di opere e per le concessioni) al di sopra delle quali le amministrazioni sono tenute a ricorrere alle gare. Al di sotto di quella soglia, sono ammesse altre modalità di scelta dei contraenti. Di fatto, il ricorso a queste modalità si è esteso negli ultimi anni, per via della necessità di colmare il ritardo accumulato negli investimenti pubblici in infrastrutture, di cui l’Italia ha un grande bisogno. Lo dimostra proprio la relazione presentata dall’Anac al Parlamento il 23 giugno dell’anno scorso, che si apriva con la constatazione dell’incremento degli affidamenti diretti e delle procedure negoziate, utilizzate nel 37,1 per cento e nel 37,6 per cento dei casi, mentre “le gare aperte nel 2021 sono state solo il 18,5 per cento delle procedure totali”. Dunque, il danno – se tale è – non è imputabile al nuovo codice degli appalti, che semmai consoliderebbe, a regime, gli orientamenti prevalsi negli ultimi anni. 
    

Il secondo problema riguarda proprio il preteso danno. Secondo il presidente dell’Anac, procedere ad affidamenti diretti “rischia di escludere le imprese migliori”, perché “potrebbero essere chiamate le persone più vicine al dirigente, al sindaco o all’assessore”, donde il rischio che aumentino i “rischi corruttivi”. Il punto di partenza è discutibilissimo: è il sospetto generalizzato nei confronti degli amministratori pubblici, per cui l’unico modo per tutelare i pubblici interessi è intensificare le regole e i controlli preventivi. Ma gli studi di cui disponiamo sulle norme sulla contabilità e sui controlli preventivi emanate negli anni venti del secolo scorso dimostrano che esse riproducevano la vecchia preoccupazione ottocentesca per la spesa pubblica “improduttiva”. Non a caso, un insigne economista, Federico Caffè, osservò alla fine degli anni sessanta che quelle regole e quei controlli rallentavano indebitamente la gestione della spesa, compromettendo il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Uno studio della Banca d’Italia sugli appalti pubblicato nel 2020 (quaderno n. 89 della ricerca giuridica) ha confermato queste criticità, aggiungendo che nella legislazione anticorruzione degli anni scorsi “ha prevalso l’italica sfiducia per l’amministrazione”.

   
Per valorizzare la trasparenza, bisogna ricorrere ad altri strumenti. Non mancano buoni esempi in Europa, come l’obbligo – più consolidato in Francia - di giustificare la scelta dell’aggiudicatario e di motivare congruamente il rigetto delle altre candidature. Ciò comporta un cambiamento dei controlli, che devono svolgersi dopo la gestione, per verificare il raggiungimento dei risultati. Questo è, appunto, lo scopo del nuovo codice. Dunque, non è il momento di proclamare una crociata contro la riforma, bensì di provvedere alle misure organizzative necessarie per assicurarne il successo, soprattutto all’interno dei comuni e delle regioni, dove scarseggiano le strutture per misurare e valutare i risultati conseguiti e per dosare in modo accorto incentivi e remore verso i funzionari. Altrimenti, invocando la lotta alla corruzione, si perderà ancora di vista la buona amministrazione.

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