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l'editoriale del direttore

La destra un po' più moderata piace, la fuga dal moderatismo del Pd no. Lezioni dal voto nelle città

Claudio Cerasa

Per il centrodestra il doppio turno di solito è un sistema ostico. Eppure i risultati di ieri dimostrano come gli elettori cosiddetti moderati, indecisi, meno ideologici, non abbiano creduto alla narrazione di un 25 aprile permanente

Il centrodestra stravince, il centrosinistra straperde, l’effetto Schlein non si vede, il logoramento dell’esecutivo non si percepisce, la svolta moderata della Meloni non viene punita e la maggioranza di governo viene premiata anche laddove la sua espansione non era stata prevista. Lo ha fatto vincendo nelle grandi città al voto in Toscana (Massa, Pisa, Siena), vincendo in tutti i comuni al voto in Sicilia (Catania, Trapani, Siracusa, Ragusa) vincendo in storie roccaforti della sinistra (Ancona, Brindisi) e migliorando le proprie performance rispetto al numero di comuni amministrati prima della tornata elettorale. Due settimane fa, alla fine del primo turno, Elly Schlein esultò per le vittorie di Brescia e Teramo sottolineando la presenza oggettiva di un Pd “in ottima salute”. E la stessa Repubblica, il giorno dopo il primo turno, assecondando la narrazione della segretaria del Pd, arrivò a sparare su sei colonne un titolone spericolato: “L’onda di destra si è fermata”.

Se c’è un dato evidente deducibile dalle comunali che si sono chiuse ieri è che l’onda di destra non si è affatto fermata e l’onda della nuova sinistra non si è mai sollevata. E il paradosso, per Elly Schlein, è che nelle principali città in cui il centrodestra ha vinto, in queste settimane, i successi sono andati a maturare così. A Brescia ha vinto una riformista centrista di nome Laura Castelletti, lontana anni luce dall’agenda Schlein e in prima fila nell’andare a cercare a prendere voti di cui il nuovo Pd si vergogna: anche quelli di destra. A Vicenza ha vinto un giovane lettiano di nome Giacomo Possamai, lontano da Schlein (che non ha voluto in campagna elettorale) e in prima fila nell’andare a cercare a prendere voti di cui il nuovo Pd si vergogna: anche quelli di destra. A Terni, ha vinto Stefano Bandecchi, un imprenditore ex parà, presidente della Ternana e della Unicusano, alla guida di una spregiudicata lista civica che il centrosinistra, con ottimo senso della realtà, ha scelto di non appoggiare. Trarre lezioni nazionali da tornate elettorali locali non è semplice e non è detto che le molte sfumature di grigio individuate dagli armocromisti del Pd alle comunali non possano riacquistare colori in vista delle europee del 2024 dove si voterà con il proporzionale. Ma il dato delle comunali, per il Pd, è significativo in senso negativo non solo per l’entità della sconfitta ma anche per il contesto in cui si è realizzato.

 

Per il centrodestra, il doppio turno è tradizionalmente un sistema ostico – così ostico che il centrodestra non ha mai fatto mistero di volerlo abolire – ed è un sistema che come è noto ha spesso permesso al centrosinistra di trovare un modo per riuscire a fare fronte comune alle urne contro “l’avanzata della destra”. La giornata di ieri consegna invece uno scenario diverso all’interno del quale il centrosinistra – che pure continua ad andare bene in tutte le città più globalizzate, più interconnesse con il mondo, come Vicenza, come Verona, come Roma, come Milano, come Bologna, come Napoli, come Torino, segno che comunque anche da queste comunali il centrodestra può imparare qualcosa: perché dove c’è più benessere, e più pil, il centrosinistra funziona meglio? – non ha perso solo in alcuni suoi tradizionali fortini. Ma ha perso anche con un sistema elettorale che di solito al secondo turno tende a premiare le formazioni percepite come meno estremiste. E la possibilità concreta che i voti cosiddetti moderati, i voti degli indecisi, i voti meno ideologici, i voti più incerti, siano andati al centrodestra, al ballottaggio, negli stessi istanti in cui il centrosinistra era lì che accusava il centrodestra di essere sostanzialmente fascista dovrebbe far riflettere molto il nuovo Pd su che presa abbia, fuori dai social, l’unica arma che gli armocromisti del Pd sembrano avere per contrastare oggi la destra di governo: l’evocazione quotidiana di una Grande lotta da portare in campo per far vivere l’Italia in un 25 aprile permanente.

 

Le comunali contano poco, ma il messaggio consegnato ieri è piuttosto eclatante: la svolta moderata del centrodestra piace, la fuga dal moderatismo del Pd non piace, l’identità della nuova sinistra ancora non si vede e l’idea che gli astenuti siano più a sinistra rispetto ai votanti reali, ragione per cui il Pd dovrebbe spostarsi con costanza più a sinistra, e ancora e ancora e ancora, è un’idea che funziona bene quando il proprio mondo è il riflesso degli occhiali di Fabrizio Barca ma è meno solido quando il mondo con cui ci si confronta è semplicemente quello reale. Generalizzare è sbagliato, ma aprire gli occhi può essere utile, per capire se di fronte al percorso di un partito c’è un palo o un rettilineo.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.