contro l'aggressione di putin

La lezione di Mattarella e il cupo silenzio del Pd sull'Ucraina

Luciano Capone

Il discorso del presidente della Repubblica in Polonia è il punto più alto di una tradizione cattolico-democratica, da Andreatta a Letta, che ora è sempre più afona. Il Pd di Schlein ha perso le parole per spiegare il suo sostegno a Kyiv

Rispetto ai tanti distinguo, alle posizioni sfumate, avvolte in giri di parole, precedute da “se” o succedute da “ma”, le dichiarazioni di Sergio Mattarella in Polonia sulla guerra hanno brillato per linearità e chiarezza. “Sostegno all’Ucraina finché è necessario, finché occorre, sotto ogni profilo: di forniture militari, finanziario, umanitario, per la ricostruzione del paese”, ha detto il presidente della Repubblica perché l’aggressione russa “riguarda tutti i paesi che si richiamano alla libertà delle persone e dei popoli”. In piena sintonia con il presidente polacco Duda, Mattarella ha ricordato che “se l’Ucraina fosse lasciata alla mercé di questa aggressione, altre ne seguirebbero” e si è detto “inorridito” dai “comportamenti disumani utilizzati dalle Forze armate russe”. Per questo, ha ricordato il Capo dello stato, è fondamentale la coesione dell’Europa e della Nato: “La compattezza dell’Alleanza è un dato importante, così come lo è stato parallelamente alla compattezza dell’Unione europea che esprime, in tutti i modi, sostegno all’Ucraina” perché entrambe le organizzazioni sono nate “per difendere la libertà delle persone e dei popoli, per difendere la democrazia, per difendere lo stato di diritto”.

 

Europeismo, atlantismo, difesa del diritto internazionale, della libertà dei popoli e delle democrazie dalle aggressioni militari. Le parole di Mattarella sono il punto più alto di una tradizione cattolico-democratica che, paradossalmente, mentre rappresenta il vertice delle istituzioni è sempre più afona nel Pd. Questa cultura politica – incarnata da personalità come Beniamino Andreatta, Mattarella, Arturo Parisi fino a Enrico Letta – ha definito la politica estera del centrosinistra negli ultimi trent’anni. Per quanto le coalizioni pre-uliviste, uliviste e post-uliviste siano state eterogenee e conflittuali, nelle scelte fondamentali i governi da loro sostenuti non hanno sbandato. L’ultima grande divisione tra le due famiglie fondatrici del Pd è stata la guerra del Golfo, quando il Pci di Achille Occhetto era ancora sotto le macerie del Muro di Berlino e non appoggiò l’intervento militare per difendere il Kuwait da Saddam Hussein. Ma nei momenti cruciali successivi, la famiglia postcomunista (almeno quella che aveva riposto in soffitta falce e martello) e quella post-democristiana hanno marciato insieme, seguendo una linea che oggi fatica a trovare interpreti.

 

La tesi di Mattarella sulla complementarità di Nato e Ue non è così popolare a sinistra. Eppure era la stella polare di uno dei padri nobili del centrosinistra come Andreatta, prima ministro degli Esteri e poi della Difesa, che vedeva “atlantismo” ed “europeismo” come due facce della stessa medaglia. Pur facendo parte della sinistra Dc, sulla politica internazionale Andreatta era molto più degasperiano che dossettiano: credeva convintamente nell’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico e riteneva un dovere morale, oltre che legittimo, l’uso della forza per porre fine alle pulizie etniche come nell’ex Jugoslavia. Anche a costo di entrare in conflitto con il pacifismo cattolico: “Tra profezia e realismo, il mondo cattolico vive un momento di tensione. Io rispetto il radicalismo di certi gruppi, tipo i Costruttori di pace. È bene, in un paese con deficit di moralità, che ci siano degli intransigenti... Il politico cristiano, però, ha delle responsabilità. Essere complice dei mali del mondo mi sembra intollerabile”, disse Andreatta a proposito dell’intervento in Kosovo, che fu fortemente voluto proprio da Mattarella all’epoca vicepremier e poi ministro della Difesa. “Non possiamo lasciar fare Milosevic – disse Mattarella rivendicando il bombardamento della Nato sulla Serbia – Occorre fermare i massacri di un’assurda pulizia etnica”.

 

Quando Enrico Letta, allievo di Andreatta, si è trovato di fronte all’avanzata dei carri armati di Putin non ha avuto dubbi sulla posizione che doveva prendere il Pd. Dopo la sua uscita di scena le cose sono molto più confuse. Non dal punto di vista formale, perché il Pd vota allo stesso modo e ieri la segretaria Elly Schlein ha visitato le ambasciate di Usa, Ucraina e Germania per confermare l’appoggio a Kyiv, come aveva già fatto con i vertici del Pse a Bruxelles. Ma quantomeno da quello comunicativo. Sulla scia di Andreatta, Letta e Mattarella, ormai si sente solo qualche ex presidente della Fuci come Giorgio Tonini o Stefano Ceccanti (che ha ripubblicato il libro “I cristiani e la pace” di Emmanuel Mounier contro l’appeasement di Monaco), ma si tratta di figure ai margini del nuovo Pd.

 

Francesco Boccia, capogruppo al Senato e schleiniano di ferro, dice che l’Europa non intraprende iniziative di pace “a causa della sudditanza psicologica nei confronti degli Stati Uniti e della Nato”. Peppe Provenzano, nuovo responsabile Esteri, parla più volentieri di nomine nelle partecipate che di Ucraina. Non perché abbia idee diverse, ma perché nel Pd c’è confusione ideologica e si preferisce evitare temi “divisivi” sia per i propri elettori sia per gli alleati del M5s. Così ora l’aiuto all’Ucraina si fa, ma non si dice.

 

La difesa dall’aggressione di Putin non ha bisogno solo di essere votata, ma anche di essere sostenuta nella società. Come ricordava Andreatta in un intervento alla Camera, a proposito della crisi in Bosnia, “l’opinione pubblica si accende, chiede interventi ma non è disposta a pagarne il costo, c’è un tasso di perdite oltre il quale l’opinione pubblica si demoralizza e chiede il ritiro”: mantenere vivo quel sostegno è “il dovere dei politici”, diceva. È ciò che fa il presidente Mattarella, massima e ormai ultima espressione di una tradizione politica che nel Pd forse sta sparendo, e di sicuro ha perso la voce.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali