(foto Ansa)

Gli slogan non bastano a creare una vera “controegemonia” della destra

Giovanni Belardelli

È legittimo voler controbilanciare l'esposizione della cultura di sinistra. Ma bisogna saper andare oltre la rivendicazione del proprio "amore per l'Italia"

Del documento Controegemonia redatto da Emanuele Merlino, stretto collaboratore del ministro Sangiuliano, è stata notata da più parti la singolare evanescenza, alla quale aggiungerei la scarsa consapevolezza, del significato effettivo del concetto di partenza, quello appunto di egemonia. Per ribaltare l’egemonia culturale di sinistra affermatasi da tempo nel paese si fanno proposte di questo tenore: “Se si è al governo, finanziare festival, rassegne, presentazioni, momenti di dibattito con autori nostri”, fare acquisire visibilità “agli intellettuali d’area […] che poi creano suggestioni, vengono intervistati e possono rappresentare il partito” e così via. Tutto sembra ridursi per un verso al marketing e per l’altro alla vecchia lottizzazione, sempre praticata (e sempre condannata) a destra come a sinistra.

 

L’egemonia culturale è in realtà una cosa diversa, se riandiamo a chi elaborò il concetto – come è noto, Antonio Gramsci – e a chi cercò di metterlo in pratica nell’Italia dopo il 1945, cioè il Pci di Palmiro Togliatti. Si trattava di una strategia che andava ben oltre il piazzare qualche intellettuale d’area o promuovere qualche libro di amici. Anzitutto, il segretario comunista seppe cogliere immediatamente la grande occasione rappresentata per il suo partito dal passaggio dal fascismo alla democrazia, e con esso dalla necessità per tanti intellettuali che avevano aderito al regime di far dimenticare ciò che avevano scritto, per convinzione, per necessità di vita, per opportunismo, o per una miscela di tutte queste cose.

Un partito dalle indubbie credenziali antifasciste come quello di Togliatti fu abile ad accogliere tra le sue file o nella sua stampa, magari soltanto come compagni di strada, chi aveva qualcosa – un articolo, un film, un libro, una dedica al duce – da far dimenticare. Ma anche il fatto che l’Italia fosse governata da un partito come la Dc, attraversato da tentazioni clericali, rappresentò una risorsa importante per i comunisti, che la seppero sfruttare per presentarsi come i difensori di una laicità minacciata. Fu con questo spirito, ad esempio, che un intellettuale di formazione crociana come lo storico della letteratura Luigi Russo aderì nel 1948 al Fronte popolare. E il fatto che per anni i ministri democristiani vietassero la proiezione di film con “soggetti scandalosi e morbosi” (così il ministro Tupini nel 1960) non poteva che spingere il mondo dello spettacolo a simpatizzare per la sinistra: non fu un caso se una grande attrice come Stefania Sandrelli, che fu anche uno dei sex symbol dell’Italia del miracolo, votava appunto comunista (come avrebbe dichiarato in un’intervista del 1988). 

 

L’egemonia culturale del Pci era favorita da varie altre cose: la vicinanza di case editrici importanti come la Einaudi (un documento comunista del 1951 la classificava come “nostra editoria”) ma anche la capacità del partito di censurare chi fosse bollato come avversario, non rifuggendo da un linguaggio molto aggressivo: a proposito dell’economista Wilhelm Roepke, Togliatti dichiarò di scorgere sotto la maschera liberale “lo sconcio ghigno hitleriano”. Ma quella egemonia – ecco il punto centrale di cui il documento governativo dal quale abbiamo preso le mosse sembra del tutto inconsapevole – si fondava soprattutto su una notevole capacità di elaborare e diffondere una visione della storia italiana. Fu negli anni dopo il 1945 che la nostra storiografia venne ad assumere in maggioranza un atteggiamento, se non sempre filocomunista, però prevalentemente di sinistra. E questo si verificò a partire soprattutto dalla rilettura del processo di formazione dello stato nazionale contenuta nei Quaderni del carcere di Gramsci. L’idea del Risorgimento come rivoluzione incompiuta per le insufficienze dei democratici, che non avevano saputo mobilitare i contadini promettendo loro l’agognata proprietà della terra, non soltanto finì col diventare un luogo comune ma accreditò il Pci come una forza politica profondamente inserita nella storia nazionale, anche perché il partito si proponeva come chi di quella storia avrebbe cancellato i difetti d’origine. Perfino il più convinto anticomunista non può non riconoscere la grande abilità mostrata da Togliatti, che riuscì per questa via a presentare un partito legato a filo doppio con Mosca come una forza schiettamente nazionale. 

 

Se fino agli anni 50 l’egemonia culturale della sinistra si strutturò essenzialmente attorno al Pci, nei decenni seguenti le cose sarebbero mutate per tante ragioni, a cominciare dalla nascita di nuovi movimenti politici e tendenze culturali a sinistra di quel partito. Ma l’orientamento generalmente a sinistra dei ceti intellettuali si sarebbe confermato, assumendo spesso la forma di un senso comune progressista esteso alle nuove generazioni di insegnanti della scuola post ’68 e al mondo del giornalismo. E questo non ha rappresentato un vantaggio per un dibattito culturale da tempo appiattito su un conformismo che si autoalimenta in virtù della stessa sua esistenza. E’ legittimo voler modificare questa situazione, ma ci vorrebbe qualcosa di più di uno sconclusionato documento sulla “controegemonia”: per esempio ci vorrebbe un’idea della storia nazionale che andasse oltre la un po’ ovvia proclamazione – come recitava uno striscione nella recente kermesse per i dieci anni di FdI – del proprio “amore per l’Italia”. 

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