Foto di Ufficio stampa Palazzo Chigi, via Ansa 

previsioni

Oltre le pensioni: cosa può nascere dalla coppia Landini-Meloni

Dario Di Vico

Per dare sostanza al voto favorevole del 25 settembre e a quel consenso liquido, il presidente del Consiglio cerca di tastare il terreno sindacale in cerca delle confederazioni che potranno esserle utili 

Sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini sanno benissimo che la vittoria del 25 settembre si basa su un consenso liquido e del resto i due sono tra i migliori su piazza nel cavalcare la stagione dell’identity politic, dell’acchiappa-elettori ottenuto con mix spregiudicato tra comunicazione e azioni-simbolo. Essendo coscienti che l’elettorato italiano di centrodestra ha fatto una scelta di campo ma poi è sempre pronto a inseguire la chimera di turno vogliono portare quel consenso allo stato solido, cercano di ancorarlo a qualcosa di più resistente di un sondaggio. Salvini, avendo un alfabeto politico più ridotto e un collegamento pensiero-azione più rudimentale, è tornato a cavalcare i temi dell’immigrazione che gli avevano consentito nella stagione del Viminale di prendere la testa dei sondaggi. 

 

Ma molte cose sono cambiate da allora: Covid e guerra hanno cambiato la gerarchia delle priorità (e delle paure) e nel frattempo gli industriali che hanno votato Lega e FdI si sono convinti – anche i più tiepidi – che bisognerà organizzare flussi di manodopera per rimpiazzare il buco demografico. Alla ricerca di ancore il leader leghista si è poi buttato sul rilancio del ponte sullo Stretto, un evergreen della politica italiana, per cercare di costruire una solida base di consenso nelle due regioni interessate e rimettere il suo partito nell’onda degli interessi dei costruttori, dei sindacati locali, delle economie municipali meridionali e di quell’aggregato di attività informali – se non grigie – che comunque resta consistente. Come farà Salvini a far convivere il suo sudismo pontista con le tradizionali constituency leghiste del nord è un mistero. Si può pensare che faccia molto conto sui magheggi del suo amico Calderoli alle prese come Cagliostro con gli alambicchi dell’autonomia differenziata.

 

Più complessa è la scacchiera disposta da Giorgia Meloni. E la novità da ieri è che nella ricerca di quel consenso solido di cui sopra fanno parte anche i sindacati. Del resto la prima uscita pubblica post victoriam la premier l’aveva fatta in una kermesse della Coldiretti, prima aveva elogiato i corpi intermedi e subito dopo aveva pagato “il biglietto” alla potente organizzazione agricola ribattezzando “della sovranità alimentare” un dicastero che presiede alle attività di una vera e propria potenza mondiale della trasformazione industriale, della capacità di acquistare materie prime all’estero e rivendere in tutto il mondo nutelle e mulini bianchi. Una contraddizione che il neoministro Francesco Lollobrigida, nelle sue prime uscite, ancora non è riuscito a spiegare visto che leggendolo sovranità assomiglia a un sinonimo di qualità (e allora tanto valeva chiamarlo “ministero della Qualità alimentare”).

 

Ma torniamo a quel particolare segmento dei corpi intermedi che sono i sindacati confederali: tornati a essere 4 e non più solo 3, grazie alla cooptazione della Ugl riammessa al tavolo grande come avveniva de facto ai tempi di Renata Polverini. Ora in verità il richiamo dell’Ugl serve a Meloni non per fare concorrenza alla Triplice quanto a riportarla in area FdI, dopo che Claudio Durigon l’ha fatta diventare una lobby della Lega, e comunque poter disporre di un pur piccolo cavallo di Troia qualche vantaggio tattico lo può dare. Nei primi atti di governo la premier era stata prudente e aveva di fatto scelto di gratificare innanzitutto le vecchie e nuove constituency elettorali della destra: i fanatici di legge-e-ordine, i no vax, i piccoli che non amano le carte di credito e adorano il contante. Ma chi sta promettendo di costruire una nuova Dc a trazione conservatrice, chi di notte sogna di creare un Partito della nazione, chi ha dichiarato di voler rivoltare l’Italia “come un calzino” si può accontentare di rendere solido il mero consenso di bigotti, retrogradi e del ceto medio impaurito dalla modernizzazione?

 

Magari un giorno non lontano finirà così ma per ora Meloni è statu nascenti e quindi è psicologicamente obbligata a guardare a più largo spettro. La mia opinione è che questa spinta più che a rivoltare la porterà a comprare calzini ma per chi legge oggi non ha senso spoilerare le puntate successive. E ieri la premier davanti ai segretari confederali si è comportata alla Giano Bifronte, come da battuta di uno dei presenti. Meloni ci teneva a fare un pezzo di discorso stile piccola-Draghi-con-grisaglia per bilanciare l’operazione-simpatia che invece le stava più a cuore. Ovvero tastare il terreno sindacale per capire quanto le confederazioni le potranno essere utili per portare allo stato solido il consenso occasionale del 25 settembre.

 

Da qui la battuta da titolo per i Tg (“si rischiano pensioni future inesistenti”) e soprattutto gli inviti alla concordia rivolti ai segretari confederali e soprattutto a Maurizio Landini, che un testimone diretto racconta come costretto a sedere per due ore e mezzo “in pizzo di sedia”. E i sindacalisti più attenti hanno anche segnato nei loro taccuini i passaggi dedicati alle crisi Ita e Tim, che avendo un forte baricentro occupazionale romano muovono più di altre le attenzioni di FdI (da qui la sostituzione di Vittorio Colao con Alessio Butti). È stata tutta una recita quella di mercoledì pomeriggio come paventa qualche dirigente di Cgil-Cisl-Uil o abbiamo assistito solo alla prima puntata di un lungo corteggiamento? È presto per dirlo, ma Meloni sa che qualcosa di solido a cui ancorare le sue ambizioni dovrà trovarlo. Non le possono bastare gli amici no vax.