Il treno Italia che corre su un binario ai piedi del vulcano populista

Claudio Cerasa

Il terreno è solido, a differenza del 2018, ma la velocità sarà all’altezza delle ambizioni del paese? Europa, Covid, giustizia, mercato, immigrazione: le incognite su cui il vulcano potrebbe risvegliarsi

La prima settimana del governo Meloni ci conferma che per provare a capire il futuro dell’Italia occorre concentrarsi su due immagini diverse. La prima immagine, già evocata, è quella del binario. La seconda immagine, più centrale, è quella del vulcano. La prima immagine ci aiuta a capire bene un elemento cruciale del passaggio di consegne da Mario Draghi a Giorgia Meloni e ci consente di comprendere quella che è la vera dimensione dell’Italia di oggi: un paese certamente a rischio, certamente sotto monitoraggio, certamente a rischio commissariamento, ma infinitamente diverso rispetto all’Italia che si presentò di fronte ai nostri occhi nel 2018, ai tempi del governo gialloverde, quando gli allora azionisti di maggioranza dell’esecutivo arrivarono al potere facendo leva su una piattaforma programmatica esplicitamente sfascista, in grado cioè di far deragliare il treno dell’Italia a ogni curva. Vuoi quando si parlava di collocazione internazionale (più Mosca, meno Bruxelles). Vuoi quando si parlava di posizionamento in Europa (più Le Pen, meno Macron). 

  

Vuoi quando si parlava di rapporto con l’America (meno America, più Cina). Vuoi quando si parlava di moneta unica (più mini bot, meno euro). Vuoi quando si parlava di deficit pubblico (più scostamenti, meno rigore). Nel 2018, come si ricorderà, il tema dell’Italia non aveva a che fare con la velocità possibile del treno ma aveva a che fare con la possibilità concreta che il treno uscisse fuori dai binari della realtà. Quattro anni dopo, anche grazie agli anticorpi che l’Italia ha accumulato per proteggersi dal virus populista, la situazione si presenta di fronte ai nostri occhi in modo del tutto diverso. Il tema oggi non è più se il binario sia solido o no ma è se il treno sia in grado di procedere verso il futuro a una velocità di crociera all’altezza delle ambizioni dell’Italia.

 

Rispetto al 2018, come ha confermato in fondo Meloni nel suo primo discorso alle Camere, non è più in discussione la nostra collocazione internazionale (meno Mosca, più Bruxelles), non è più in discussione il nostro rapporto con l’America (meno Cina, più Nato), non è più in discussione il nostro rapporto con la moneta unica (i No euro si sono ormai specializzati sul No vaccini), non è più in discussione la necessità di abbattere il nostro debito pubblico (Meloni è contro lo scostamento di bilancio), non è più in discussione il nostro rapporto con l’Europa (Meloni ha persino detto che il problema dell’Europa, dal gas all’immigrazione, è quello di non essere abbastanza solidale, riconoscendo dunque che l’Ue è parte delle soluzioni e non dei problemi) e non è in discussione la necessità da parte dell’Italia di non tradire la fiducia dell’Europa sul tema del Pnrr (che Meloni ha detto di voler modificare, non cambiare, senza uscire dal sentiero stretto indicato dalla Commissione europea).

 

Dunque, tutto bene? Nessun timore? Nessun problema? Non è proprio così. Avere un binario solido consente di tenere lontano dal nostro paese il sentimento della sfiducia preventiva, e se si osserva il trend dei mercati e dei rendimenti dei titoli di stato dal 25 settembre a oggi si noterà che gli investitori internazionali  hanno un giudizio tutto sommato non pessimistico sul futuro dell’Italia, ma la differenza tra avere un treno capace di viaggiare veloce e uno destinato invece a percorrere il suo percorso lentamente non è una differenza di poco conto, naturalmente, e la sfida di Meloni, nei prossimi mesi, sarà quella di passare dalla fase della rassicurazione (ehi, tranquilli, non farò minchiate) a quella dell’attrazione, una fase cioè finalizzata a creare le condizioni affinché l’Italia possa essere un paese capace di attrarre in misura ancora maggiore rispetto agli ultimi anni investimenti e capitali dall’estero senza disincentivare queste operazioni a colpi di interventi dello stato nel mercato. La seconda immagine utile da mettere a fuoco, che ci permetterà anche di capire a che condizioni il treno dell’Italia potrà viaggiare velocemente, è quella che riguarda il vulcano.

 

Se accettiamo il fatto che il populismo, che è una pulsione politica alla quale non sono diciamo estranei né Giorgia Meloni né Matteo Salvini, è come un vulcano in attività occorre anche concentrarsi sul flusso futuro del magma. E se i custodi del vulcano accettano di volta in volta di chiudere alcune bocche tradizionali da cui il magma fuoriesce, la domanda che occorre porsi è quali saranno le bocche future che verranno utilizzate per far uscire il magma che i populisti hanno in corpo. Il discorso diversamente populista consegnato alle Camere la scorsa settimana da Meloni offre qualche indizio per provare a orientarsi nel futuro e se si presta fede a ciò che la nuova premier ha detto si può intuire facilmente che dietro al make-up antipopulista esistono almeno cinque bocche da cui il magma potrebbe uscire nelle prossime settimane.

  

Una prima bocca è quella che riguarda sempre Bruxelles, e per quanto la retorica possa essere cambiata da parte dei populisti, la tendenza a considerare l’Europa come fonte dei problemi dell’Italia resterà una pulsione irreversibile.

  

La seconda bocca è quella che riguarda il complottismo antivaccinale, e nonostante la presenza di un ministro estraneo alla retorica nì vax è evidente che nei prossimi giorni Meloni e Salvini cercheranno di offrire ai propri elettori buone ragioni per dimostrare che la loro battaglia contro la dittatura sanitaria è rimasta coerente con il proprio complottismo del passato.

 

La terza bocca è quella che riguarda la giustizia, e in un passaggio non molto valorizzato del discorso di Meloni della scorsa settimana è sfuggito quanto la premier abbia detto sull’ergastolo ostativo (“Spero che si possa lavorare insieme nei prossimi giorni per impedire che venga meno uno degli istituti che sono stati più efficaci contro la mafia che è il carcere ostativo. Spero che su questo ci si voglia dare una mano perché sono d’accordo: la questione della lotta alla mafia non è un tema di retorica, è un tema che si affronta con provvedimenti concreti”) esprimendo una posizione totalmente differente rispetto a quella espressa dal suo ministro della Giustizia Carlo Nordio (“Io – ha detto Nordio – penso che l’ergastolo ostativo, il principio cioè che al reo non venga concessa la possibilità di alcun beneficio, sia un’eresia contraria alla Costituzione”).

 

La quarta bocca è quella che riguarda il protezionismo di fondo tradito da Meloni durante il suo discorso alla Camera e quando la premier dice “contrasteremo logiche predatorie che mettano a rischio le produzioni strategiche nazionali” lascia intendere che il governo italiano potrebbe utilizzare lo strumento del golden power come un braccio armato utile ad assecondare gli istinti nazionalisti della maggioranza.

  

La quinta bocca è quella che riguarda l’immigrazione e per quanto Giorgia Meloni possa aver fatto fede di europeismo, affermando di voler utilizzare l’Europa come un’alleata nella risoluzione dei problemi che riguardano la gestione del dossier, è anche indubbio che la coppia Meloni e Salvini nei prossimi mesi dovrà prendere decisioni importanti quando dovrà dare una risposta agli imprenditori italiani che chiedono da mesi più immigrati per poter svolgere lavori primari di manodopera nelle proprie aziende (il tema del decreto flussi da ampliare è stato ignorato da Meloni) e quando si tratterà di scegliere cosa fare con le navi, anche le ong, che si presenteranno alle porte dell’Italia cariche di migranti salvati in mare e quando dovrà fare i conti con una realtà che le dimostrerà che la priorità non è bloccare le partenze, ma gestire, tutti insieme e in solidarietà, gli arrivi, passando da una vana lotta alle ong a una battaglia tosta sui tavoli negoziali dell’Ue, per ottenere un’equa spartizione dei migranti. Il binario e il vulcano. Il futuro dell’Italia, in fondo, passa anche da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.