spezzare le catene della destra

Un cambiamento vero, whatever it takes. Pronta Giorgia Meloni?

Claudio Cerasa

Discontinuità è la parola chiave di ogni nuovo governo, ma questa volta non è in gioco il rapporto con il passato governo ma con il proprio passato politico. Sono pronti i post populisti a combattere l’estremismo che hanno contribuito ad alimentare?

La parola cambiamento è il termine chiave di ogni governo che si prepara a guidare il paese e anche in questa occasione la maggioranza che si appresta a prendere in mano le redini dell’Italia ha all’interno del suo Dna una caratteristica precisa che ha a che fare con l’idea di dover cambiare la rotta del paese. Cambiamento, di solito, significa discontinuità, discontinuità di solito significa non continuità con i governi precedenti e nel caso specifico, nel caso del governo Meloni, non essere in continuità con i governi precedenti significa prima di tutto una cosa: discontinuità più con la stagione del potere Pd (che negli ultimi undici anni ha governato per dieci anni) che con la stagione di Draghi (da cui Meloni farà di tutto per non apparire così in discontinuità).

Il tema della non continuità, per Giorgia Meloni, assume così un carattere complicato da decifrare, se si pensa a ciò che Meloni si lascia alle spalle. La leader di Fratelli d’Italia, come ricorderete, è stata per quasi due anni all’opposizione di un presidente del Consiglio, Mario Draghi, che Meloni però non ha mai attaccato in campagna elettorale e che tenterà in tutti i modi di far apparire come un non oppositore del suo governo. Al punto, e questo non è solo un pettegolezzo, da aver coinvolto direttamente il presidente del Consiglio uscente per individuare un ministro dell’Economia che potesse essere gradito anche all’ex presidente della Bce. E dunque, si dirà, ma se Meloni non vuole essere in discontinuità con Draghi, con chi e su cosa vorrà essere, in futuro, in discontinuità?

Potrà essere in discontinuità con la destra, con i suoi alleati, che a differenza di Meloni al governo ci sono arrivati, negli ultimi anni, alleandosi sia con il M5s (la Lega due volte) sia con il Pd (Forza Italia e la Lega). Potrà essere in discontinuità con alcuni ministri, come Roberto Speranza e Luciana Lamorgese trasformati dalla destra in nemici del popolo, anche se è verosimile immaginare successori di Speranza e Lamorgese che sui grandi temi avranno un approccio più simile al modello Draghi che al modello Salvini. Potrà essere in discontinuità con la stagione dei tecnici, e questa è una certezza, e il fatto di aver scelto di scommettere, in alcuni ruoli importanti, sui ministeri che gestiscono la cassa, su figure politiche come Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini è certamente una continuità rispetto al passato, e non solo rispetto al passato del governo Draghi. Potrà esserci discontinuità, per esempio, sulla gestione di alcune partite economiche, come il Reddito di cittadinanza. E ci potrà essere certamente discontinuità nella gestione di alcune partite di potere, come per esempio la Rai.

Ma sul resto, sulla transizione energetica, sulla indipendenza dell’Italia dalla Russia, sul sostegno all’Ucraina, sull’invio di armi contro la Russia, sul percorso imboccato relativamente al Pnrr, è difficile immaginare una discontinuità vera tra il governo Meloni e il governo che ha preceduto Meloni.


Ma sul resto, sulla transizione energetica (l’ex ministro Roberto Cingolani ieri è stato nominato advisor energetico del presidente del Consiglio), sul sostegno all’Ucraina (terreno su cui Meloni ha la stessa agenda di Draghi), sull’invio di armi contro la Russia (il ministro Crosetto, alla festa del Foglio, ha confermato che a gennaio quando il decreto verrà ridiscusso non sarà messo in discussione ciò che è stato fatto finora), sul percorso imboccato relativamente al Pnrr (su cui vigileranno due ministri europeisti come Giorgetti e Fitto), è difficile immaginare una discontinuità vera tra il governo Meloni e il governo che ha preceduto Meloni.

E per questo, se si vuole essere un filo maliziosi, non ci si può stupire se la discontinuità più interessante da studiare nel governo del centrodestra continuerà a essere ancora a lungo non quella relativa ai governi del passato ma quella relativa alla destra del passato. Negli ultimi giorni si è detto spesso che l’affidabilità futura del centrodestra sarà inversamente proporzionale alla capacità dello stesso centrodestra di essere coerente con se stesso. E questo è evidente, se si pensa a tutto ciò che negli ultimi anni la destra ha detto sull’Europa, sul diritto comunitario, sull’euro, sui vaccini, sul nazionalismo, sul sovranismo, e se si pensa a tutti i rapporti tossici coltivati dal centrodestra con i suoi alleati estremisti.

Ma accanto al tema della discontinuità del centrodestra da se stesso, che sarà in fondo il vero nodo con cui dovrà fare i conti il cambiamento del governo del cambiamento, vi è un altro tema importante che va considerato e che riguarda un problema che si presenterà presto tra le mani di Giorgia Meloni. Meloni, negli ultimi mesi, ha mostrato una certa capacità nello smentire sistematicamente se stessa, esponendosi anche alla critica di essere incoerente – lei che della coerenza ha fatto un tratto distintivo della sua leadership – e lo ha fatto quando ha cambiato linea su Putin (un tempo Meloni era putiniana), lo ha fatto quando ha cambiato idea sul tema del debito pubblico (oggi Meloni è contraria allo scostamento di bilancio, un tempo era a favore), lo ha fatto quando ha scelto di considerare la solidarietà europea non come un nemico da cui difendersi ma come un alleato con cui proteggersi (vedi il price cap).

Ma il vero problema del cambiamento di Giorgia Meloni non riguarda la svolta di una leadership, che c’è, ma riguarda un elemento più importante che coincide con un tema chiave, che costituirà la vera linea di confine tra una leadership desiderosa di emanciparsi dal suo passato e una leadership desiderosa di coltivare l’ambiguità. E il tema è questo: una leadership populista, per cambiare davvero, non si può limitare a professarsi antipopulista ma deve dimostrare anche di essere pronta a combattere tutte le ambiguità estremiste che ha contribuito ad alimentare. Deve essere pronta a combattere la xenofobia (pronti?). Deve essere pronta a combattere l’antieuropeismo (pronti?). Deve essere pronta a combattere la cultura Nimby (pronti?). Deve essere pronta a combattere gli istinti nazionalisti (pronti?). Dovrà essere pronta a combattere le pulsioni antiscientifiche (pronti?). Dovrà essere pronta a combattere gli spiriti protezionisti (pronti?). Dovrà essere pronta a combattere i sostenitori delle teorie suprematiste (pronti?). Dovrà essere pronta a condannare senza ambiguità chiunque possa sfruttare l’occasione di un governo postfascista per mettere in mostra il proprio spirito nostalgico (pronti?).

La sfida del governo Meloni sarà il cambiamento, certo, ma sarà un cambiamento diverso rispetto a quello descritto in campagna elettorale, finalizzato a dimostrare che i post populisti sono pronti, whatever it takes, a fare tutto ciò che è necessario per combattere l’estremismo che hanno contribuito ad alimentare. Pronti?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.