Giancarlo Giorgetti (Ansa)

il nuovo governo

Evviva il Mef politico di Giancarlo Giorgetti

Stefano Cingolani

Uomo di raccordo tra l’eversione padana e la conversione romana, tra gli anti establishment e e la classe dirigente. E poi una discontinuità che pesa: quella con la stagione dei tecnici. Storia, retroscena e percorsi possibili del nuovo ministro dell'Economia. Con tutti i guai da governare

Don Abbondio! Che c’entra costui? Certo, non ha sfidato Matteo Salvini in campo aperto, non voleva la caduta di Mario Draghi con il quale ha stretto un ottimo rapporto, eppure si è piegato. Ma il coraggio non c’entra perché Giancarlo Giorgetti, neo ministro dell’Economia, è uomo di governo, non di lotta, e lo è sempre stato. Uomo di raccordo tra l’eversione padana e la conversione romana, tra gli anti establishment e l’establishment, tra i proclami e i reclami, tra le fughe in avanti e la dura realtà, tra i voli pindarici e i conti della spesa.

 

Come si fa a parlare male di lui? Ne dicono un gran bene anche gli americani e non da adesso. Già nel 2009, il consolato di Milano lo annoverava tra le personalità politiche del prossimo futuro, sharp and well-espected, acuto e rispettato, lo si è appreso grazie ai dispacci diplomatici rivelati da Wikileaks. Per Lewis Eisenberg, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Italia sotto l’Amministrazione Trump, è “uno dei più capaci dal punto di vista intellettuale e tecnico”. Chi ha lavorato al ministero dello Sviluppo economico conferma questo giudizio: ha saputo creare una squadra, guidare una struttura complessa, talvolta farraginosa, affrontare la geremiade dei “tavoli di crisi”: erano più di cento, ce ne sono ancora 73, sono imprese spesso senza futuro che coinvolgono il destino di 75 mila lavoratori.

 

Adesso l’ingrato compito toccherà al suo successore. Non che sia facile gestire l’economia e le finanze pubbliche. Non ci sarà luna di miele, dal primo giorno in cui entrerà a palazzo Sella, Giorgetti dovrà dire più no che sì. Al di là dei confini, nelle cancellerie e sui mercati, aguzzano lo sguardo, scartabellano cronache e documenti, cercano di capire chi è colui che di fatto diventerà il numero due del governo. Difficile prevedere che ministro sarà, ma siccome il personale è politico per un politico di professione, la sua biografia è in grado di dirci qualcosa.

 

Cazzago Brabbia, dove Giancarlo è nato il 16 dicembre 1966 e dove la metà circa degli ottocento abitanti si chiama Giorgetti, è un paesino sulle sponde del piccolo lago di Varese – lungo 8,8 km, lago 4,5, poco profondo, al massimo 26 metri – che s’aggiunge agli altri sei: Verbano o Maggiore, Lugano (o Ceresio), lago di Ghirla, lago di Ganna, lago di Monate, lago di Comabbio. E’ la provincia più lacustre d’Italia, là dove la pesca è stata a lungo un’attività vivace nonostante la progressiva industrializzazione. Tre carpe campeggiano sul blasone comunale di Cazzago. Il padre Natale Giorgetti era stato pescatore e aveva diretto la locale cooperativa, la madre Angela operaia tessile. E Giancarlo dopo l’istituto tecnico, va alla Bocconi dove si laurea in Economia aziendale e comincia a lavorare come commercialista: quasi tutti i dirigenti della Lega lo sono, tranne chi come Bossi e Salvini ha sempre seguito il modello weberiano o quello leninista (che non sono poi molto diversi). Lo studente è attratto dai rivoluzionari di professione, ma di destra non di sinistra e mentre Salvini va al Leoncavallo lui si mette con i giovani missini, con il Fronte della gioventù. Forse questo è il filo che lo lega a Giorgia Meloni ed è lei ora a portarlo sulla poltrona più importante dopo quella del presidente del Consiglio. Più dell’Interno, più degli Esteri, perché è nel ministero dell’Economia la chiave del successo o della precoce sconfitta per la nuova destra al potere. Giorgetti se ne rende ben conto, tanto che quando era circolata la voce sulla sua candidatura si era ritratto intimidito: non so se ne sono all’altezza, aveva detto in un primo tempo. Poi ha accettato di subire anche lui le frecce del martirio, un sagittario trasformato in san Sebastiano. 

 

Alla Lega Nord approda quando non ha ancora trent’anni, nel 1995, con l’elezione a primo cittadino nel piccolo comune al confine tra Lombardia e Piemonte. Entrato nel 1996 come deputato di Sesto Calende, Giorgetti non lascia più il Parlamento. Per cinque anni presiede la potente commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera nella quale si tesse e si disfa la tela delle leggi finanziarie. Dal 2002 è segretario del braccio lombardo della Lega, il più potente, che ha sempre considerato il braccio veneto come junior partner. Schivo, non rivela mai il nome della figlia, quanto alla  moglie Laura Ferrari che curava corsi di equitazione per disabili, arriva nelle cronache solo perché nel 2008 ha patteggiato una condanna a 2 mesi e 10 giorni per una truffa ai danni della Regione Lombardia. Riflessivo, da alcuni considerato tanto taciturno da sembrare noioso, fa la gavetta nella società di consulenza e revisione Metodo, a Varese, fondata da Angelo Provasoli che sarà rettore della Bocconi e da Gianluca Ponzellini, parente del più famoso Massimo Ponzellini che arriverà a guidare la Banca popolare di Milano prima di finire tra le maglie della magistratura. Entrambi vantano una cuginanza con Giorgetti che comincia a costruire una sua rete nel mondo degli affari mentre a Umberto Bossi viene in mente di fondare una banca, la Credieuronord, che tanti guai porterà al Carroccio e al suo gruppo dirigente. Giorgetti entra nel consiglio di amministrazione e nel 2000 il Senatur lo inserisce tra i 15 segretari federali. Un anno dopo la Lega va al governo con Silvio Berlusconi e lo scenario cambia per tutti.

 

A differenza dalla Democrazia cristiana, il Carroccio non ha mai avuto una grande dimestichezza con le banche, nemmeno dove nel lombardo-veneto ha preso l’eredità della Dc nel gestire un potere politico altrettanto diffuso. Così nel 1998 Bossi, per fare la banca,  comincia scrivendo ai vertici del partito affinché sottoscrivano per primi le quote. Perché Credieuronord è più di una banca popolare, è una banca del popolo verde. Nel 2003 un’ispezione della Banca d’Italia rivela seri problemi gestionali. Giulio Tremonti, allora ministro dell’Economia, commina le prime multe, intanto s’avvita la spirale delle perdite. Scende in campo il salvatore lodigiano, Gianpiero Fiorani, banchiere in piena scalata, lodato e apprezzato anche dal governatore Antonio Fazio. Un anno dopo verrà travolto anche lui dal crac della sua Popolare di Lodi. Insomma, un tonfo clamoroso per un’operazione insieme ingenua e truffaldina, segnata dalla brama di rivincita.

 

Gian Maria Galimberti, l’uomo nelle cui mani Bossi aveva messo il suo progetto, “a Pontida, a Venezia, nelle assemblee dei soci lui solo prendeva la parola dicendo: cresceremo tanto da far male alle altre banche , come il topolino che ha deciso di strangolare l’elefante”, ha scritto sul Sole 24 Ore Francesco Arcucci, il primo presidente dimessosi non appena soffia aria di magistratura. Anche Giorgetti, consigliere della banca, finisce tra gli inquisiti, ma viene assolto. A quel tempo risale un episodio rivelatore. Fiorani un giorno si presenta a Montecitorio nell’ufficio parlamentare di Giorgetti con un pacco incartato nelle pagine della Repubblica. Il parlamentare leghista è assente, ma il banchiere gli lascia comunque il rotolo che contiene ben altra carta: centomila euro in contanti. Più tardi, Fiorani chiama per sapere se l’operazione nera è andata a buon fine e si sente rispondere di venire a riprendersi il malloppo perché lui quelle cose non le vuole, anzi, vuole moralizzare la Lega. 

 

Il rapporto con il mondo del credito avviene per altre vie, per esempio attraverso le fondazioni che a quel tempo controllavano le banche, anche le più grandi. Nei loro organismi dirigenti infatti avevano un gran peso i consiglieri eletti dalle amministrazioni locali. L’occasione si presenta quando Tremonti decide di sganciare la Cassa depositi e prestiti dalla totale dipendenza dal Tesoro, facendo entrare con quote di minoranza le fondazioni. Il punto di riferimento è Giuseppe Guzzetti, gran capo della Fondazione Cariplo, la più ricca e potente, che ha un ruolo chiave in Banca Intesa. Con lui Giorgetti intreccia una relazione basata sulla reciproca fiducia. Non è uno scambio di favori, si tratta di aprire la porta a una rappresentanza politica sfuggendo alle spartizioni bancarie della Prima Repubblica. 

 

Di pasticci la Lega ne ha combinati un bel po’, Giorgetti, da sempre al vertice come numero due, ci si è trovato in mezzo, ma nessun’ombra è calata su di lui. Uscito indenne dal crac di Credieuronord, non è stato coinvolto nemmeno nella saga dei 49 milioni di euro. L’inchiesta nasce dalla truffa elettorale della Lega Nord di  Bossi e del tesoriere Francesco Belsito il quale, secondo le sentenze, ottenne quei “rimborsi elettorali” senza averne diritto. Dopo l’esposto di uno dei revisori contabili del partito, la procura di Genova nel 2018 aprì l’inchiesta, chiusa con la condanna dei due imputati e la confisca diretta di quasi 49 milioni a carico del Carroccio. La procura di Genova aveva poi chiesto e ottenuto, nel settembre 2017, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca della somma indicata. Ma le cifre effettivamente sequestrate ammontavano allora a poco più di 2 milioni e gli altri soldi erano spariti. Un accordo con gli avvocati della Lega Nord, raggiunto nel settembre 2018, aveva disposto la restituzione a scaglioni della somma in rate da 100 mila euro a bimestre. Con un piano di pagamenti da 600 mila euro l’anno, secondo alcuni calcoli la restituzione si compirà in 80 anni. C’è però una coda con l’inchiesta aperta a Milano per una presunta truffa realizzata dall’associazione “Maroni presidente” con i rimborsi elettorali della regionali 2013, vinte da Roberto Maroni che ha governato la regione fino al 2018 per poi lasciare il posto ad Attilio Fontana. La politica non è un pranzo gratis e la magistratura ne raccoglie gli scarti. 

 

 

Giorgetti, leghista con i piedi per terra, e nella sua terra, continua a essere considerato un leghista anomalo, persino un leghista a metà. Nemmeno  Bossi s’è sottratto alla tentazione di dargli la patente di emissario in partibus infidelium. Correva l’anno 2014 e Matteo Renzi trionfava alle elezioni europee con un incredibile 40 per cento. La Lega presa in mano da Matteo Salvini, galleggiava al 6 per cento e si baloccava già allora con la flat tax. Durante una iniziativa a Milano il Senatur s’avvicina e sussurra: “Mi hanno detto che sei iscritto alla massoneria”. Circola di nuovo in rete un breve video carpito allora dove si vede e si sente il meravigliato imbarazzo di Giorgetti: “Io, ma sei impazzito? E chi te l’ha detto? Magari: se fossi massone starei qui?”. Gli hanno appioppato una sfilza di definizioni, lo hanno usato per tenere i rapporti con i “poteri forti” per poi accusarlo di essere il loro cavallo di Troia, ma la massoneria poi… E il veleno veniva proprio dall’Umberto che lui, nonostante tutti i cambi di rotta e di cavallo, non aveva mai tradito.

 

Il rapporto con Salvini è difficile, in teoria potrebbe essere un sodalizio perfetto: a uno la piazza all’altro il palazzo, ma non funziona. E i due si allontanano sempre più, anche nelle scelte politiche. Nel 2017 Giorgetti presenta al congresso della Lega Nord una dura mozione contro l’euro e l’Unione europea, ribadisce l’alleanza con i sovranisti e conclude: “L’opzione inevitabile senza riforme è l’uscita” attraverso “un negoziato bilaterale ricorrendo alla clausola di rescissione”. Salvini si affida alla strana coppia Borghi&Bagnai e l’anno successivo si scontra con Sergio Mattarella: il presidente della Repubblica rifiuta di approvare la nomina al Mef di Paolo Savona sospettato di essere l’ispiratore del fantomatico piano B per abbandonare l’unione monetaria. Giorgetti ora ha cambiato idea? Non lo ha mai detto apertamente anche se lo ha dimostrato con il suo “governismo” prima come sottosegretario di Giuseppe Conte nella coalizione gialloverde e poi soprattutto nei 18 mesi al Mise (ministero per lo Sviluppo economico).

Quando arriva in via Veneto trova un intreccio di crisi nuove che s’aggiungono a quelle ormai irrisolvibili: dalla Whirlpool di Napoli alla ex Embraco in amministrazione controllata o a Termini Imerese dove è fallita la re-industrializzazione dopo l’uscita della Fiat. Si possono minacciare le multinazionali, si può invocare l’immancabile Cassa depositi e prestiti, ma è tutto inutile. Da commercialista e revisore di conti è consapevole che se un’azienda non si regge sulle sue gambe, tenerla in piedi con le stampelle statali è solo una perdita di risorse collettive.

 

Da leghista pragmatico spiega in un’intervista al Foglio che il suo modello è lo stato in una logica di mercato, come all’Ilva di Taranto, una delle bombe sociali che deve disinnescare. Dentro al governo stringe buoni rapporti con Daniele Franco, l’uomo dei conti, e Roberto Cingolani, l’uomo dell’energia. Si scontra invece apertamente con Vittorio Colao, il manager ex Vodafone che deve impostare la transizione digitale. Il pomo della discordia è la rete unica, che si trascina da almeno un decennio e impedisce di chiudere il gap tecnologico interno e internazionale. Giorgetti è freddo anche sul passaggio al 5G perché teme la penetrazione cinese e l’onda di proteste che sale proprio nel nord-est, nei comuni leghisti, nello storico bacino che Giorgia Meloni ha prosciugato anche dando spazio al partito dei cento No.  

Dal Mise, il ministro esce appesantito anche nel fisico (alto e slanciato ha accumulato peso, non pensieri) e sconfitto nel tentativo di evitare la crisi anticipata. E’ stato il momento di maggior tensione con Salvini, che in uno scatto d’ira non voleva nemmeno presentarlo più alle elezioni (è lui e solo lui a decidere le candidature) destinandolo (forse) alla Regione Lombardia. Il rilancio si deve a Giorgia Meloni e ai consigli di Draghi perché Giorgetti non fa parte dei “pupazzi prezzolati” contro i quali si è scagliato il capo del governo. Lui ha sempre guardato all’Atlantico e non alla Moscova, nell’hotel Metropol non ha voluto entrarci. L’ex ambasciatore Eisenberg non ha nascosto una netta distinzione con il partito filo-russo e ha messo in guardia dai legami con Mosca, ricordando i rapporti di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini con Vladimir Putin. “Noi americani guarderemo con interesse dove Salvini e gli altri saranno nel nuovo governo”, ha avvertito. Giorgetti è destinato alla plancia di comando.

 

Che cosa lo attende a palazzo Sella? La prima sfida sarà la legge di Bilancio e più concretamente l’aumento del disavanzo pubblico. Viene dato per scontato uno scostamento dal sentiero tracciato da Franco che porta a una riduzione del deficit al 3 per cento del pil. Si parla di almeno due punti, massimo tre o quattro per raggiungere quei 60 miliardi di euro in più invocati da Salvini in campagna elettorale. L’inflazione all’8 per cento offre uno spazio maggiore senza aggravare il debito pubblico in rapporto al pil: è uno dei paradossi dell’economia, i conti si fanno in termini nominali, includendo cioè l’aumento dei prezzi. Nel momento in cui l’inflazione scenderà o i tassi d’interesse saliranno ancora, saranno guai, ma l’obiettivo per ora è passare la nottata. Saranno spese assistenziali per sussidi e sostegni vari. Se viene abolito il reddito di cittadinanza ci saranno altri spazi, ma a questo punto bisognerà fare i conti con l’impatto sociale sia al sud sia nel nor- est. Lo scostamento di bilancio andrà discusso a Bruxelles e s’annuncia una trattativa molto complicata. 

Aperti sulla scrivania che fu di Quintino Sella, ci sono altri dossier roventi, a cominciare da Ita Airways. Giorgetti vedeva con favore la cordata Mps-Lufhansa che offriva un senso e un futuro a Malpensa, che sarebbe diventato lo hub delle merci. Lo statalismo dei Fratelli ha spinto verso il fondo americano Certares perché così lo stato mantiene il 40 per cento. Ma più volte gli uomini di Giorgia hanno chiesto la nazionalizzazione integrale. Altri soldi che il Tesoro dovrebbe tirar fuori dal salvadanaio. Mentre incombe sul Monte dei Paschi di Siena il rischio del collasso finale, con un titolo precipitato in un mese da 6 a 2 euro per azione. Il Tesoro deve sganciare 1,6 miliardi di euro per il settimo aumento di capitale da quando è scoppiata la crisi, 15 anni fa. Il governo Draghi non è riuscito a vendere Mps a Unicredit, la Ue chiede una privatizzazione integrale, la locale sinistra massonica e la destra statalista spingono perché se lo tenga lo stato. Sarà una partita dura da giocare anche con la Commissione europea, insieme agli aiuti di stato che i sovranisti vogliono utilizzare a man bassa e alla concorrenza ridotta al caso dei balneari e degli ambulanti.

 

Un anno fa Giorgetti aveva detto in commissione Bilancio: “Non si tratta di eludere o violare la normativa europea, ma di considerare alcune peculiarità del commercio ambulante, così come di altre attività radicate per tradizione nelle realtà territoriali quali l’esercizio di stabilimenti balneari, per i quali le consuetudini dei consumatori e la continuità di impresa non sono meno meritevoli di considerazione dell’attenzione alla salvaguardia della concorrenza”. Mario Seminerio nel suo blog Phastidio fa del sarcasmo: “Se i consumatori non trovassero ogni anno in spiaggia lo stesso gioviale gestore dello stabilimento, potrebbero ricavarne uno sturbo. Parimenti, il gestore medesimo deve essere sussidiato dai contribuenti in ogni circostanza in cui corra il rischio di perdere la continuità d’impresa. Dopo il posto fisso, abbiamo inventato l’impresa fissa”.

Il ministro dell’economia è anche l’azionista di riferimento della Cdp e delle aziende a partecipazione statale (Eni, Enel, Leonardo innanzitutto). Senza mettere troppa carne al fuoco bisogna ricordare che toccherà a Giorgetti distribuire una vagonata di poltrone nella prossima primavera. Ce ne sono 61 tra vertici e consiglieri di amministrazione delle sei grandi società quotate in Borsa. Scadranno anche i consigli di Amco, Consap, Consip, Sport e Salute e Sogin per un totale di altri 16 posti che contano. E poi c’è il gran menu. All’Enel i nove consiglieri d’amministrazione sono stati scelti nel 2020 dal secondo governo Conte, quello giallorosso. Il presidente, Michele Crisostomo, è al suo primo mandato. L’ad Francesco Starace, invece, è già al terzo, cominciato nel 2014 con governo Renzi, così come Claudio Descalzi all’Eni, il quale arriva al test del prossimo anno insieme alla presidente Lucia Calvosa, rafforzato dalla campagna per gli approvvigionamenti di metano fuori dalla Russia. Alessandro Profumo, nominato nel 2017 dal governo Gentiloni, ha risalito la china del gruppo della difesa, il più strategico tra quelli strategici, ma è lontano dalla nuova maggioranza. Matteo Del Fante, il postino capo, è appena diventato presidente di Giubileo 2025. Gode di una stima trasversale, come Stefano Donnarumma, capo di Terna, sul quale puntano molto i Fratelli d’Italia alla ricerca di “tecnici d’area”. 

 

Giorgetti conosce le aziende pubbliche. E’ stato vicino all’ex capo della Finmeccanica Giuseppe Orsi, lodigiano, che aveva cominciato la sua carriera alla Siai Marchetti di Sesto Calende (quella degli idrovolanti). Ma nel gruppo della difesa la sponda ormai è Crosetto. E nelle banche? Il no di Claudio Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo al quale era stato chiesto di prendere in mano il Mef, non significa che la “banca di sistema” non sia una fucina di idee e soluzioni anche in vista della recessione prossima ventura. Chissà che non torni d’attualità la gestione attiva del debito utilizzando i beni patrimoniali dello stato, proposta sostenuta da Messina. Perché non c’è dubbio che sedere su una montagna da 2.800 miliardi di euro fa venire il capogiro. Torneranno a galla complesse partite finanziarie in apnea con le elezioni, basti citare quella che coinvolge Mediobanca e porta fino alle Generali. La morte di Leonardo Del Vecchio non ha spento le mire sulla banca d’affari e sulla compagnia d’assicurazioni. Il governo sovranista e interventista lascerà briglia sciolta al mercato come ha fatto Mario Draghi? Difficile crederlo. Ma così ci spingiamo troppo avanti. Le bollette per il momento agitano il sonno di Giorgetti e possono scuotere anche la flemma che gli ha consentito di incassare i più duri colpi della sorte e della politica, quelli che vengono dagli amici e da chi ti sta vicino.