Nella foto, Bettino Craxi e Giulio Andreotti (Ansa) 

Quando ci si odiava meglio

Altro che Dibba o Calenda. I vecchi leader non si sopportavano ma si pugnalavano con stile

Francesco Cundari

Nella sequela di ripicche di questa campagna elettorale si è persa la capacità rispetto al passato di concedersi davanti ai cronisti, al massimo, il lusso di una battuta sottile, di un’allusione maligna

Adesso tutti se la prendono con Twitter, fanno facili ironie sugli effetti nefasti della personalizzazione della politica e della rivoluzione tecnologica, e soprattutto sul prodotto della loro perversa interazione: un reality show in cui chi si candida a guidare il paese passa il tempo a lamentarsi dei torti subiti dal compagno di partito che gli ha soffiato il posto, dal segretario di un tempo che non lo volle candidare o dal trombato di allora che non l’ha voluto perdonare, trasformando talk-show e telegiornali in una sorta di Grande Fratello, un eterno confessionale a reti unificate, in un alternarsi di insulti, insinuazioni e rappacificazioni senza soluzione di continuità, in un interminabile flusso di incoscienza. Ma non è colpa di Twitter.

 
Alcuni sembrano rimpiangere i tempi di Enrico Berlinguer, al quale un giornalista americano esasperato, Robert Doty, corrispondente del New York Times, aveva chiesto a un certo punto se volesse dirgli almeno quanti anni avesse, per sentirsi rispondere: “Credo che, rivolgendosi all’Ufficio stampa del partito, ella potrà avere una mia biografia, comprensiva dei dati biografici che desidera conoscere”. Altri sembrano pensare che se Berlinguer avesse avuto un profilo Instagram o un account Twitter, dopo un po’, sarebbe finito anche lui a fotografarsi in cucina davanti a un piatto di pastasciutta, come ha fatto da ultimo Nicola Fratoianni, qualche settimana fa, con la consueta prontezza nel cogliere le mode e i codici del proprio tempo.

  

    

 

La verità, tuttavia, è più semplice. Fior di democristiani della più antica scuola sono su Twitter, da Guido Bodrato a Pierluigi Castagnetti, e nessuno li ha mai visti postare foto in costume da bagno con cigni sullo sfondo, e tantomeno piatti di pastasciutta. I loro colleghi del Pci, anche più giovani, sui social network in molti casi non hanno mai neanche messo piede.

  
Questo spettacolo da telenovela brasiliana impazzita che ha caratterizzato l’inizio della campagna elettorale non è dunque colpa della tecnologia, e non è nemmeno, solamente, una questione di nuovi costumi, diversa idea del decoro e dell’intimità, abitudine e attitudine all’esposizione di sé. In questa infinita sequela di ripicche, dispetti, scenate, lancio di piatti e di anatemi, rotture traumatiche e rappacificazioni posticce, c’è qualcosa di più semplice e fondamentale. Una capacità che si è persa, che hanno perso tutti, drammaticamente, rispetto a un passato in cui le tensioni non erano certo minori, tra i partiti e anche al loro interno, in cui le lotte di corrente non facevano sconti a nessuno, in cui la battaglia poteva coinvolgere apparati e persino servizi stranieri, eppure si restava insieme e si era capaci di farlo sorridendo, concedendosi davanti ai cronisti, al massimo, il lusso di una battuta sottile, di un’allusione maligna. Un tempo in cui nei partiti le passioni e anche i rancori non erano certo minori di oggi, ma ci si odiava meglio. 

   

Di Battista ha annunciato la sua mancata candidatura con frasi memorabili quali: “A me nessuno ha detto abbiamo bisogno di te”

  
Non c’entra la tecnologia. Telecamere e televisioni esistevano già allora, ma nessuno registrava monologhi come quello di Alessandro Di Battista, proprio lui, il salvatore che erano anni che doveva arrivare, che era sempre lì lì, quello che doveva prendere le redini del Movimento 5 stelle e poi gliela faceva vedere lui, quello che si era fatto pure fotografare in posa da Che Guevara di Roma Nord, mentre rifaceva a modo suo i diari dello scooterone, per spiegare che al momento decisivo, niente, come non detto, il movimento di cui doveva prendere la guida nemmeno lo candida in Parlamento. 

    

Televisioni e talk-show, o perlomeno tribune politiche, esistevano anche negli anni Sessanta, ma nessuno aveva mai fatto una tournée come quella di Carlo Calenda, ripetendo per un anno in tutte le trasmissioni del paese che con Matteo Renzi, con i suoi seguaci e con il suo partito non voleva averci niente a che spartire, mai e poi mai, e ogni volta che glielo domandavano rincarava la dose, per poi farci una lista unica, ringraziandolo pubblicamente per la “generosità”. 

    

   

 

Di Battista ha dato la notizia della sua mancata candidatura in un video registrato dall’automobile (chissà perché poi: non poteva aspettare di arrivare a casa?), un monologo di ben diciassette minuti in cui dice frasi memorabili quali: “A me nessuno ha detto abbiamo bisogno di te, nessuno, credetemi” (col tono di chi è convinto che si stenterà a crederlo); “Avevo bisogno di parlare con Conte, di rendermi conto di alcune cose, di verificare alcune cose e mi sarebbe piaciuto anche parlare con altre persone, ma non è stato possibile” (con il tono di chi si capisce subito che non le lascerà anonime ancora a lungo, quelle persone); Conte che “per me è un galantuomo, non mi ha mai mancato di rispetto, mi ha sempre detto la verità, si è sempre comportato bene” (con tono a metà tra il Gabriel Garko de “L’onore e il rispetto” e il Pietro Savastano di “Gomorra”); Conte con cui “non abbiamo neanche mai parlato di seggi, posizionamenti qui e là, abbiamo ragionato, e io anche parlando con lui ho compreso che ci sono molte componenti, chiamiamole in questo modo, dell’attuale Movimento 5 stelle che non mi vogliono, da Beppe Grillo passando per Roberto Fico, non mi vogliono, per una serie di ragioni, forse perché temono il fatto che io sia poco imbrigliabile, perché forse temono, giustamente, che io possa ricordare, perché è giusto farlo, degli errori politici che sono stati commessi soprattutto negli ultimi due anni da vari esponenti: senz’altro Grillo, Luigi Di Maio che poi se ne è andato, Roberto Fico…” (con il tono di chi non si è reso nemmeno conto di avere nominato Beppe Grillo e Roberto Fico due volte ciascuno in meno di trenta secondi).

 

Per arrivare quindi al gran finale: “Beppe Grillo, ancora, in parte, fa da padre padrone, e io sotto Grillo non ci sto. Facendo però una premessa: io non dimentico quello che Grillo ha fatto per il paese e anche per me, perché se sono la persona che sono e credo di aver imparato determinati valori è perché me li ha insegnati anche Beppe Grillo, e me li ha insegnati Gian Roberto Casaleggio”.

 
Insomma, lo lascia, ma non lo dimenticherà mai. In compenso, Calenda e Renzi tornano insieme, ma se anche volessero dimenticare il passato, non c’è avversario, antipatizzante, hater o semplice osservatore che ormai non si diverta a mettere zizzania, rilanciando uno dei cento video in cui il leader di Azione scandiva: “Non mi alleo con Renzi, l’ho detto sei milioni di volte”. O peggio: “Del centro di Renzi non me ne frega nulla, non faccio politica in questo modo, è uno che dice non sto con i Cinque stelle e s’è alleato alle ultime amministrative in ventidue comuni con i Cinque stelle, dice A e fa B, non me ne importa niente, noi siamo un paese malato perché discute solo delle persone, e a me delle persone non me ne importa nulla: Renzi faccia quello che je pare, vada in Arabia Saudita, faccia il centro con Toti, Brugnaro, suo zio, suo cugino e suo papà, noi facciamo un lavoro diverso”. O peggio ancora: “Io lo dico, è un anno che lo dico, e in tutte le trasmissioni accade che dicono ‘perché Renzi e Calenda…’, non farò politica con Renzi perché questo modo di fare politica mi fa orrore… devo mettere una bandiera? Me lo scrivo qua?”.

 
E insomma, Di Battista non ha mai perdonato i Cinque stelle per essere andati col Pd e aver sostenuto il governo Draghi, Calenda non ha mai perdonato Renzi di essere andato con i Cinque stelle e aver sostenuto il governo Conte. E così via, in una campagna elettorale che sembra il riassunto delle puntate precedenti di “Beautiful”, con Maria Elena Boschi a twittare che “Emma Bonino dice no a Matteo Renzi perché nel 2014 non è stata confermata ministro degli Esteri”, rimproverandole di “vivere di rancori personali”; con Emma Bonino a rimproverare Enrico Letta perché “per più di tre anni non ci ha filato, era preso da un’attrazione totalizzante per i Cinque stelle, non ha mai voluto avere rapporti con noi, ci ha dati per scontati”; con Matteo Renzi a rinfacciare a Letta di averlo tenuto fuori dall’alleanza “per rancore personale” (alleanza alla quale peraltro Renzi non sembra essere mai stato intenzionato a prendere parte, ragion per cui non si capisce perché Letta avrebbe dovuto chiederglielo).

 
“Quando non ci si sente graditi, anche in virtù di molte cose che sono successe in passato che io posso anche provare a mettere da parte, e le metto da parte, però non è che uno le dimentica, mettetevi anche nei miei panni…”. E’ un altro memorabile stralcio dai diari dell’automobile di Dibba, ma potrebbe essere stato pronunciato da uno qualunque dei leader summenzionati. Ognuno di loro, proprio come l’eterna promessa del grillismo, è convinto che solo l’invidia e la meschinità dei rivali lo abbiano privato della gloria che lo attendeva e che meritava.

  

Mi hanno impedito di fare il capo politico del M5s evitando di votare, agli Stati generali io avevo preso il triplo dei voti di Luigi Di Maio

 
“Io di fatto sono stato costretto a lasciare il Movimento 5 stelle”, rivela. “Ma anche in precedenza io, come dire, ho avuto dei momenti difficili, quando fondamentalmente mi hanno impedito di fare il capo politico del Movimento 5 stelle evitando di votare, quando non hanno neppure voluto pubblicare i voti degli Stati generali perché io avevo preso il triplo dei voti di Di Maio, questa è la verità, e Di Maio all’epoca faceva ancora il ducetto, il triplo dei voti di Di Maio, e quindi non si doveva far sapere perché era un’onta per Luigi Di Maio…” (continua ripetendo ancora una volta questa storia del triplo dei voti, e che lui questa cosa l’ha messa da parte, poi aggiunge che Di Maio una volta gli disse “non ti mettere contro di noi perché siamo di più” e altre frasi degne di miglior fiction). 

 

Sostituite l’accento romano con la cadenza pisana, l’interno dell’automobile con quello dell’aereo in partenza per Parigi, Di Maio con Renzi e Fico con Calenda, e avrete il monologo di Letta del prossimo 26 settembre, in cui finalmente rivelerà come le correnti gli abbiano legato le mani fin dall’inizio, come renziani, ex renziani e cripto renziani lo abbiano boicottato persino in campagna elettorale, scaricandogli le pile del pullmino elettrico e facendogli ogni sorta di dispetti, pur di fargli perdere la pazienza, così da potergli ripetere tre volte al giorno “Enrico, stai sereno”.

  

Ciascuno dei leader di oggi si sente in fondo un piccolo Che Guevara, tradito da chi considerava amico. Ma sono rivoluzionari davvero troppo sensibili

  
I leader di oggi sono così. Ciascuno di loro, proprio come Dibba, si sente in fondo un piccolo Che Guevara, un eroe solitario, inviso ai suoi stessi compagni, tradito da chi considerava amico. Ma sono rivoluzionari ben strani, e davvero troppo sensibili, sempre pronti a tirarsi indietro perché nessuno li chiama, nessuno li invoca, nessuno li scongiura di prendere il comando e dare ordini al prossimo. Il leader di una volta non aveva Twitter, era sicuramente più paludato e meno immediato, si esprimeva in modi più ampollosi, ma appariva anche più risolto. Parlava un’altra lingua, però sapeva odiare. 

 
Antonio Gramsci, riflettendo sulle vicende politiche del Risorgimento, aveva coniato per l’Italia la categoria di “rivoluzione passiva”. Ma uno studio accurato sulla rivoluzione passivo-aggressiva resta ancora da scrivere, ed è più che mai necessario.
 

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