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il foglio del weekend

Pretura grillina. La parabola del M5s che processa se stesso

Francesco Cundari

Dopo avere sognato di mettere sotto accusa l’intera classe politica, il Movimento cinque stelle chiude degnamente il cerchio mettendosi sotto indagine

Ci sono partiti che sono stati decimati da un tribunale speciale, come è accaduto ai comunisti italiani sotto il fascismo. Partiti che sono stati liquidati con un processo politico, com’è accaduto ai comunisti polacchi (peraltro con la complicità dei comunisti italiani). Partiti che dalle inchieste (giudiziarie) sul finanziamento della politica erano nati, come l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, e che dalle inchieste (giornalistiche) sul finanziamento della politica sono stati affondati. 

Mai però si era visto un partito autoliquidarsi davanti a un tribunale civile, per questioni di ricorsi e statuti, con i leader a tirarsi le carte bollate, con i capicorrente ad accusarsi vicendevolmente di avere rotto la porta dell’ascensore o di aver lasciato aperta quella del garage, con i pretoriani dei diversi contendenti a insultarsi l’un l’altro, come in una lite condominiale finita in pretura, come in una puntata di quel vecchio programma televisivo sulle coppie scoppiate, “C’eravamo tanto amati”. Come il Movimento 5 stelle, insomma. 

E non è neanche la prima volta. Ormai, potremmo dire, è una tendenza costante. Una tendenza che ha già caratterizzato, qualche tempo fa, il penoso divorzio da Davide Casaleggio, con la vertenza sull’affidamento della piattaforma Rousseau e il pagamento dei relativi alimenti (il bambino, va detto, magnava parecchio), e che ora si ripresenta nella triste diatriba tra Giuseppe Grillo detto Beppe e Giuseppe Conte detto l’Avvocato del Popolo (definizione di cui solo adesso, visto l’andamento della partita giudiziaria, abbiamo capito il vero significato, e cioè che i ricchi, potendo permettersi un avvocato migliore, si rivolgono altrove).

Comunque la si pensi su Conte (uno o due), su Grillo e sui grillini, lo spettacolo, specialmente per chi abbia memoria di altre stagioni della politica italiana, non può non infondere una certa malinconia. Anche senza andare tanto indietro nel tempo. C’è poco da fare, la leadership finiva più “nature”, vent’anni fa, o giù di lì.

A sinistra, per esempio, la storia delle scissioni, delle divisioni interne e delle lotte intestine potrebbe riempire un’enciclopedia, e così la storia delle rivalità, di volta in volta, tra Achille Occhetto e Massimo D’Alema, tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema, tra Romano Prodi e Massimo D’Alema, tra Sergio Cofferati e Massimo D’Alema, tra Matteo Renzi e Massimo D’Alema. Ma per quanto ogni vicenda e ogni rivalità faccia evidentemente storia a sé, nessuno di loro è mai finito in tribunale a discutere di violazioni statutarie, a rinfacciarsi con gli altri spese non pagate, a chiedersi indietro soldi, scontrini o ricevute. 

All’epoca delle grandi scissioni, semmai, ci si contendevano i simboli. Come lo storico simbolo del Pci – si diceva disegnato nientemeno che da Renato Guttuso – che alla nascita del Partito democratico della sinistra i dissidenti di Rifondazione comunista chiesero invano di poter portare con sé, salvo poi vederlo omaggiare in men che non si dica, sette anni dopo, ad Armando Cossutta e Oliviero Diliberto, per la scissione della stessa Rifondazione, con la nascita del Partito dei comunisti italiani. In fondo, era la logica del nemico del mio nemico che diventa mio amico applicata ai divorzi politici: un po’ come regalare al secondo marito della propria ex moglie, dopo la loro separazione, la casa che non avevi voluto lasciare a lei. 

Però, insomma, anche quando c’erano di mezzo ripicche e risentimenti, valori affettivi e valori immobiliari, a chi affidare l’Unità e a chi lasciare Botteghe oscure, la contesa restava pur sempre sul terreno politico. E in fondo anche in tempi più recenti, a destra come a sinistra. Pietro Salvatori, giornalista dell’Huffington post che da anni segue i grillini, ha riassunto la questione in un tweet: “Nei momenti più alti degli scontri Berlusconi-Bossi, Berlusconi-Fini, Renzi-Bersani, Renzi-Letta e chi più ne ha più ne metta a nessuno sarebbe mai venuto in mente di poter leggere ‘gli avvocati stanno trattando un compromesso’. La vicenda M5s è riassumibile così”.
Difficile non vederci una qualche forma di nemesi, per non dire proprio di giustizia divina, per un movimento che sul desiderio di mettere la politica alla sbarra, sull’idea del grande processo purificatore (in tutti i sensi), è stato fondato e ha fatto fortuna. Ma il terreno era già ben arato. 

Per molti versi, il Movimento 5 stelle è stato anche uno spin-off di quella strana rivolta para-maoista nata a sinistra all’indomani della sconfitta elettorale del 2001, con il fior fiore dell’establishment intellettuale, giornalistico e sindacale che invitava a sparare sul quartier generale, che chiedeva pubbliche autocritiche e atti di pentimento: dal direttore dell’Unità, Furio Colombo, al segretario della Cgil, Sergio Cofferati, al regista Nanni Moretti, che in una manifestazione in piazza Navona, il 2 febbraio 2002, lanciava il suo celebre grido di battaglia: “Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”. 

E una sorta di processo pubblico, in un certo senso, alla fine lo ottengono anche. Il 25 febbraio, D’Alema decide infatti di affrontare i suoi contestatori in un’assemblea pubblica, a Firenze, organizzata dagli animatori del “movimento dei professori”, lo storico Paul Ginsborg e Pancho Pardi (quel “professore di Firenze” che in piazza Navona, forse anche con qualche incompresa ironia, Moretti aveva indicato quale ideale “leader dell’Ulivo”, dopo averlo sentito parlare nel corso della stessa manifestazione). Ed è proprio Pardi a incrociare per primo D’Alema sotto il palco, mentre la platea fiorentina ha già cominciato a manifestargli tutta la sua ostilità, e a confessargli: “Sono più a disagio di lei”. La risposta è un concentrato di dalemismo: “Di sicuro, io non sono a disagio per niente”.

Magari è anche un modo per farsi forza, perché quello che lo aspetta non sarà una rivoluzione, ma di sicuro non è un pranzo di gala. Su Repubblica, Concita De Gregorio descrive la scena con una sorta di montaggio alternato tra le parole dell’imputato e le reazioni della platea. “In altri momenti della storia nazionale fu una drammatica resa dei conti fra sinistra radicale e riformista che aprì la strada al regime. Sarebbe un errore” (voce di donna: “Ma di che parli?”) “parlavo appunto di questo” (voce di ragazzo: “Buffone”) “loro hanno avuto il massimo dei voti nelle elezioni che vincemmo noi perché erano divisi: sennò avremmo perso. Il centrosinistra ha sempre oscillato tra il 40 e il 45 per cento” (“Non siamo numeri, D’Alema”, urla, mormorio) “i numeri sono questi” (fischi) “fischiare le opinioni è legittimo, fischiando i numeri temo che non si faccia moltissima strada”. 
Sono comunque carezze rispetto a quello che gli stessi dirigenti del Pd si diranno ai tempi dell’ascesa di Renzi, a cominciare dalla famigerata intervista a Repubblica in cui, il 29 agosto 2010, il sindaco di Firenze dichiarava: “Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani. Basta. E’ il momento della rottamazione. Senza incentivi”. 

Una rottura di stile e di linguaggio inconcepibile per la tradizione comunista, in cui il gruppo dirigente ha sempre ragione, ma anche per la tradizione democristiana, in cui il gruppo dirigente ha sempre torto, ma non lo si dice certo così. Perché le forme contano, e sono la sostanza su cui si fondano gli accordi, anche nelle trattative più difficili.

Nella Dc, ad esempio, non si diceva: “A me cosa spetta?”. Si diceva: “Dobbiamo costruire un percorso”. Un percorso lungo il quale i contrari avrebbero trovato evidentemente qualche buon motivo per continuare il dialogo, fino a diventare favorevoli. Non si rottamava niente e nessuno, ma si riciclava moltissimo. Di sicuro era un sistema, a suo modo, molto più ecologico. Ma erano altri tempi. Tempi in cui i grandi rivali si sfidavano a colpi di fioretto. A poca distanza dalle sue dimissioni da presidente del Consiglio e da segretario della Dc, Amintore Fanfani si vide recapitare, come regalo di Natale, pensiero gentile di Aldo Moro, il memoriale di Napoleone a Sant’Elena. Glielo rimandò indietro subito, ovviamente (l’aneddoto si ritrova anche nei diari di Giulio Andreotti, perché a raccontarglielo è Tullio Ancora, ed è riassunto in due righe alla data del 15 giugno 1973: giusto nei giorni in cui Fanfani e Moro si erano messi d’accordo per un ampio giro di poltrone, decidendo di fatto la fine del primo governo Andreotti). E se l’esempio dei due “cavalli di razza” del 1959, Fanfani e Moro, appare troppo alto, cosa bisognerebbe pensare di quello che si dicevano i due grandi rivali democristiani di dieci anni prima, Giuseppe Dossetti e Alcide De Gasperi. Con il primo a scrivere: “Devi credermi se ti dico che corrisponderebbe molto di più ai miei desideri e al mio istinto rinunziare a qualche piccola, e per lo più vana, protesta (…) ma, temo, sarebbe la via dell’istinto e non quella del dovere”. E con De Gasperi a replicare: “Sarei felice se mi riuscisse di scoprire ove si nasconda la molla segreta del tuo microcosmo, per tentare il sincronismo delle nostre energie costruttive. Ma ogni volta che mi pare di esserti venuto incontro, sento che tu mi opponi una resistenza che chiami senso del dovere. E poiché non posso dubitare della sincerità di questo tuo sentimento, io mi arresto, rassegnato, sulla soglia della tua coscienza”.

Si dirà che pure nella Dc non è che mancassero gli insulti e persino le risse, anche nel bel mezzo dei congressi. E in fondo, in confronto agli improperi di Francesco Cossiga (che da presidente della Repubblica definiva Ciriaco De Mita “un boss di provincia”, il vicepresidente della Camera Michele Zolla “un analfabeta di ritorno” e il ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino “un analfabeta e basta”), gli scambi tra renziani e antirenziani erano poco più che buffetti. Ma quella di Cossiga è l’eccezione che conferma regola, tanto al di fuori di ogni norma che gli stessi democristiani poco ci mancò che lo mandassero a processo.

Per molti anni si è sostenuto che tra le tante storture provocate dalla Guerra fredda e dalla divisione del mondo in blocchi vi fosse la dura necessità politica che costringeva tante diverse sensibilità a convivere dentro lo stesso partito, a cominciare proprio dalla Democrazia cristiana, che finiva così per contenere tutto e il contrario di tutto. La balena bianca andava infatti dalla sinistra radicale del cattolicesimo sociale fino all’estrema destra di un certo andreottismo, dal misticismo di Giorgio La Pira, detto il Santo, al menefreghismo di Vittorio Sbardella, detto lo Squalo, che così descriveva i suoi compagni di partito della sinistra dc: “Vonno la stessa cosa che volemo noi, er potere, solo che prima ce devono piagne sopra”. 

Non si è considerato, però, quanto tutto questo non fosse solo una camicia di forza, ma forse anche un’utile ingessatura, che evitava la disarticolazione dei partiti cui abbiamo assistito dalla caduta del Muro di Berlino in poi. Il bipolarismo mondiale, in fondo, ha fatto alla politica italiana assai meno danni del bipolarismo elettorale, che in fondo non è stato altro che un improprio surrogato del primo, con l’anacronistico anticomunismo berlusconiano a cementare il centrodestra e la parodia del frontismo, in forma di antiberlusconismo, a tenere insieme il centrosinistra.

Il maggioritario e Mani pulite, infatti, sono più o meno coetanei, per non dire fratelli. Perché in fondo il giustizialismo, come radice del populismo, è il naturale complemento di quella visione manichea che è tipica del bipolarismo: buoni contro cattivi, onesti contro corrotti, guardie contro ladri. Il Movimento 5 stelle, massima espressione di una tale concezione, dopo avere sognato di mettere sotto processo l’intera classe politica, chiude dunque degnamente la sua parabola processando se stesso. E senza poter più nemmeno sperare nella prescrizione.

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