il foglio del weekend

Le eminenze del Quirinale: da Maccanico a Zampetti, tutti gli uomini del Presidente

Francesco Cundari

Segretari generali, consiglieri diplomatici, consulenti politici. Il potere del Colle somiglia a un romanzo gotico, tra oscuri palazzi e figure che si muovono nell’ombra. E che, alla luce del sole, rischiano di evaporare

Se fosse vero che il potere rimane forte finché resta nel buio, loro dovrebbero essere i più potenti di tutti – più dello stesso capo dello stato – perché alla luce dei riflettori appaiono pochissimo: segretario generale, consiglieri diplomatici e giuridici, consulenti economici e politici, responsabili delle relazioni istituzionali e dei rapporti con la stampa. Tutti gli uomini del presidente. O meglio ancora, della presidenza. Precisazione che non è un’inutile pignoleria.


Nell’amministrazione del Quirinale, come ha scritto Guido Melis in un saggio sulla “Storia istituzionale della struttura della presidenza della Repubblica” (pubblicato dal Mulino all’interno dell’opera “I presidenti della Repubblica”), è sempre esistito un dualismo tra il presidente e il suo segretario generale. E anche un secondo dualismo: quello tra un personale stabile, dipendente direttamente dal segretariato, e gli staff personali dei singoli presidenti. “Sono contate, e molto, in questa storia sinora troppo poco indagata, la personalità più o meno spiccata dei presidenti e dei segretari generali, ma anche la volontà di plasmare o meno gli apparati, la loro capacità di opporre resistenza, la forza della tradizione e delle prassi, il contesto politico esterno”.


Nata con Enrico De Nicola e Luigi Einaudi nel segno della sobrietà, prosegue Melis, l’amministrazione del Quirinale “ha conquistato progressivamente spazi e dimensioni, si è creata una sua tradizione, ha fatto valere le sue competenze specialistiche, ha assunto autorevolezza, si è autolegittimata e ha goduto di crescente legittimazione esterna”. Questo è un modo di vedere e raccontare l’evoluzione di tale non secondaria branca del potere politico, burocratico, istituzionale. Un apparato con funzioni, sulla carta, molto vaghe, come sono vaghissime le competenze dello stesso presidente di cui dovrebbe costituire la struttura servente (ma è da vedere, di volta in volta, chi serva chi, e chi non serva proprio), quel capo supremo cui la Costituzione assegna poteri allo stesso tempo marginali e decisivi, compiti apparentemente formali, quasi di pura rappresentanza, eppure dai confini imprecisati. Volutamente imprecisati, secondo alcuni, proprio affinché, all’occorrenza, possano essere prontamente varcati. Giuliano Amato, notoriamente, li definì poteri “a fisarmonica”. 

Un altro modo di descrivere tutto questo, forse meno diplomatico e certamente più approssimativo, ma piuttosto ricorrente sui giornali, identifica qui il cuore del “Deep State italiano”. Definizione che è lecito prendere con qualche cautela, ma che ormai non s’incontra soltanto nei comizi di Donald Trump, nei siti della “destra alternativa” americana o nei tweet dei suoi imitatori nostrani. Se poi tanto basti a garantire della sua validità analitica, o magari psicanalitica, ciascuno può valutare da sé. Ammesso che i due ambiti, quello analitico e quello psicanalitico, siano facilmente separabili: il potere è forte finché rimane nel buio, forse, anche per questo, perché la sua forza si misura anzitutto nella capacità di alimentare le paranoie altrui. 


Secondo Rino Formica – citato da Marco Damilano nel suo recente “Il presidente” (La nave di Teseo) – il mandato di un capo dello Stato si valuta sulla base di tre criteri: quanto pesa il suo carisma, quanto riesce a entrare in sintonia con la società e quanto conta il partito del Quirinale, identificato con “la corte sul Colle che circonda e condiziona il capo dello Stato, guidata dal segretario generale della presidenza, espressione massima del Deep State italiano, invisibile e influente (Maccanico, Gifuni, Zampetti)”.

 

Invisibile e influente, o piuttosto influente perché invisibile, che poi sarebbe il seguito della citazione di Samuel Huntington da cui sono partito: “Il potere rimane forte finché resta nel buio; esposto alla luce del sole, inizia a evaporare”. E se adesso vi state domandando se qui si stia parlando di politica o di vampiri, non siete lontani dal punto centrale della questione, perché il potere è inseparabile dal racconto del potere. Ha con la parola che lo evoca lo stesso rapporto che ha il sortilegio con la formula magica: non si limita a descriverlo, lo genera. Non per niente, il racconto del potere italiano obbedisce a tutti i canoni del genere letterario cui appartiene, e che non è difficile individuare, tra oscuri palazzi, figure che si muovono nell’ombra, labirinti, consuetudini antiche e misteriose. Siamo, è evidente, in pieno romanzo gotico.


“Nel passaggio fulmineo del governo gialloverde e poi giallorosso, il Deep State non è molto cambiato. Resta un labirinto di burocrazie, funzioni e influenze, prevalentemente pubbliche ma spesso intrecciate con lobby accademiche e potentati privati”, ha scritto su Repubblica, il 28 febbraio 2020, Massimo Giannini. Anche lui convinto che nello sfarinarsi del sistema, l’unico punto fermo resti la presidenza della Repubblica, con tutto quello che la struttura contiene, in senso figurato e in senso stretto: “A presidiare il Colle, sotto Mattarella, c’è il segretario generale Ugo Zampetti, che il presidente ha voluto al Quirinale nel 2015, per fare da pontiere tra il vecchio e il nuovo mondo. Zampetti non si vede mai (al contrario del suo predecessore e mentore, Gaetano Gifuni): giusto quando legge qualche breve comunicato, durante le consultazioni post-crisi di governo. Ma c’è sempre. Guida un team di consiglieri solidi: da Daniele Cabras a Francesco Garofani, da Simone Guerrini a Stefano Erbani. E’ considerato uno degli uomini più potenti d’Italia. Ed è stato lui, dal 2013, a prendersi cura della formazione istituzionale minima di un giovane ex bibitaro del San Paolo, catapultato a 26 anni alla vicepresidenza della Camera”.


Assai diverso, e non c’è da stupirsene, considerando la diversità della fonte, il giudizio di Luigi Bisignani, uno che di lobby, burocrazie e influenze, comunque lo si giudichi, qualche esperienza ce l’ha. E che alla fine di quell’indimenticabile e per niente radioso maggio del 2018, sul Tempo, attribuiva proprio al segretario generale e agli altri uomini del presidente la crisi istituzionale esplosa con la richiesta di mettere Sergio Mattarella in stato d’accusa per attentato alla Costituzione, avanzata nelle piazze e in diretta tv da Luigi Di Maio. Una deriva cominciata accettando che i Cinque stelle consegnassero al Quirinale una pseudo-lista dei ministri, in piena campagna elettorale. Qualcosa che, secondo Bisignani, i predecessori di Zampetti, come il già citato Gifuni (segretario generale con Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi) o Donato Marra (che ha svolto lo stesso ruolo con Giorgio Napolitano), non avrebbero mai consentito, nemmeno per scherzo.


D’altronde, ripercorrendo la saga del Quirinale da un settennato all’altro, si direbbe che il tema centrale sia proprio questo: il rapporto tra gli gnomi del Colle e il demone del populismo. La capacità di imbrigliarlo, il desiderio di servirsene e il rischio di finire asserviti. Un problema politico e persino morale, che emerge con evidenza, per esempio, dai diari di Antonio Maccanico, segretario generale con Sandro Pertini, nei giorni della celebre invettiva del presidente sui ritardi dei soccorsi dopo il terremoto dell’Irpinia, pronunciata in un acceso intervento televisivo il 26 novembre 1980. “Continuo a ripensare al messaggio di Pertini e alle mie personali responsabilità. Sono obiettivamente molte: non dovevo suggerirgli di andare alla televisione. Una volta fatto questo errore, dovevo controllare, anche a costo di uno scontro, il contenuto. Quando mi ha mostrato la registrazione, anche in presenza dei tecnici televisivi, dovevo dirgli che non ero d’accordo”. E ancora: “Sono responsabilità gravi, dalle quali non so assolvermi”. Sta di fatto che quel modo diretto, a volte irruento, secondo alcuni persino demagogico e antipolitico, di rivolgersi direttamente ai cittadini, saltando ogni mediazione, farà scuola. E farà di Pertini, a giudizio degli estimatori, il presidente più popolare, capace di entrare in sintonia con l’opinione pubblica e perciò di rinsaldare il legame tra cittadini e istituzioni; o più semplicemente, a giudizio dei disistimatori, il capostipite del populismo italiano. E proprio come per Pertini e Maccanico, anche per i loro successori rimarrà sempre da verificare quanto di quelle uscite apparentemente imprevedibili sia effettivamente da attribuire al carattere del presidente (indipendentemente o persino malgrado i suoi collaboratori) e quanto no.


“Ho letto, con divertimento, che qualcuno attribuisce la trasmissione del fuorionda a una raffinata strategia comunicativa. Purtroppo non è così. E’ stato un errore vero e proprio”, dirà ad esempio Giovanni Grasso, il consigliere per la comunicazione di Mattarella, e cioè il “Giovanni” con cui il presidente, in un fuorionda diventato subito virale sui social network, in pieno lockdown, scherzava a proposito dello stato della propria capigliatura (invero piuttosto ordinata), non essendo potuto, neanche lui, andare dal barbiere. 


Accortezze, astuzie, spontaneità, nonché una stampa nel suo complesso, come dire, non pregiudizialmente ostile, non hanno garantito comunque né al presidente né ai suoi uomini una navigazione sempre tranquilla. Il rischio di precipitare dall’altare alla polvere, in Italia, non può mai essere sottovalutato. Giovanni Leone, che sugli altari peraltro ci stette pochissimo, anche per il modo assai faticoso con cui fu eletto (candidato del partito di maggioranza passato con 518 voti, praticamente un soffio, solamente alla ventitreesima votazione, alla vigilia di Natale), si dimise pochi mesi prima della scadenza in seguito a una durissima campagna di stampa dell’Espresso e dei radicali (che molti anni dopo se ne scuseranno) e alla richiesta di metterlo in stato d’accusa da parte dell’opposizione. Lo stesso fece Francesco Cossiga, anche lui sotto minaccia di impeachment. 

 

Una sola volta, però, è toccato all’intera istituzione, al presidente e ai suoi collaboratori, finire sotto i riflettori: con la richiesta dei giudici di Palermo di utilizzare le intercettazioni telefoniche del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. A dare avvio allo scontro era stata la pubblicazione delle telefonate tra il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, e l’ex ministro Nicola Mancino, intercettate dagli inquirenti e oggetto di una dura campagna di stampa, come Napolitano non mancherà di ricordare, dando lui stesso la notizia della morte di D’Ambrosio, stroncato da un infarto il 26 luglio 2012, a sessantaquattro anni. “Insieme con l’angoscia per la perdita gravissima che la Presidenza della Repubblica e la magistratura italiana subiscono, atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto”, dichiara il presidente. La richiesta dei magistrati di poter valutare le telefonate dello stesso presidente della Repubblica verrà rigettata dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 1 del 2013, in cui si precisa che il presidente “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”, che per questo “dispone di competenze che incidono su ognuno dei citati poteri, allo scopo di salvaguardare, ad un tempo, sia la loro separazione che il loro equilibrio”, e che pertanto “deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche”. Ragion per cui è indispensabile che “il Presidente affianchi continuamente ai propri poteri formali, che si estrinsecano nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il ‘potere di persuasione’, essenzialmente composto di attività informali”. Un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione che “costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana” e che “sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche”. La soddisfazione ottenuta da Napolitano con il suo ricorso alla Consulta non impedirà comunque che l’anno dopo, e per la precisione il 28 ottobre (potenza degli anniversari), marcino sul Quirinale i magistrati della corte d’Assise, per far deporre come testimone nel processo, per la prima volta, un presidente in carica. Chiamato peraltro a rispondere anzitutto dell’operato dei suoi predecessori, Scalfaro e Ciampi, nella cupa stagione delle bombe, all’inizio degli anni Novanta. Come sia poi finito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, perlomeno per la parte riguardante lo Stato, è ormai notizia di cronaca. Notizia che a ogni modo, per i più distratti, si può brevemente riassumere in due parole: nel nulla. Perché non è solo il potere a evaporare una volta esposto alla luce del sole, talvolta.

Di più su questi argomenti: