Il foglio del weekend

Facce da Quirinale. Quanti presidenti per un solo Palazzo

Francesco Cundari

Dietro alle questioni di stile e di profilo, c’è quasi sempre una scelta politica: come un pendolo che oscilla tra un punto e il suo opposto, ad una stagione ne segue sempre un'altra

Non le chiedo un nome per il Quirinale, ovviamente non lo farebbe. Ma può indicare almeno un profilo?”, domanda il giornalista. “Europeista, atlantista, garantista, uomo o donna delle istituzioni”, risponde Maria Elena Boschi, intervistata giovedì sulla Stampa da Alessandro Di Matteo.


“Io in realtà l’identikit l’ho già tracciato – afferma Giuseppe Conte a Di Martedì – quando dico una personalità di alto profilo morale, che sia rappresentativa quanto più ampiamente è possibile dello schieramento di forze costituzionali che sono in parlamento, perché da lì ne deriva una garanzia per tutti. Ovviamente si parte con questo obiettivo e poi dovremo misurarci per quanto riguarda la personalità concreta”. “Premesso il solito ragionamento sul fatto che il prossimo presidente della Repubblica dovrebbe essere una personalità quanto più possibile condivisa – dichiara la ministra Mara Carfagna, domenica, alla Festa del Foglio – sarebbe molto bello se davvero si ragionasse su un profilo femminile”. 


Insomma, maschile o femminile che sia, è chiaro che per il Quirinale serve un anzitutto profilo. Alto, ovviamente, anzi altissimo (confesso la mia ignoranza, ma questa cosa dell’altezza di un profilo, proprio dal punto di vista fisico, non è che l’abbia mai capita tanto, e quando la sento mi fa sempre uno strano effetto). E’ altrettanto chiaro, per non dire scontato, che il profilo viene prima, molto prima del nome. Ma questa è una verità universale della politica, che non riguarda solo il Quirinale. Sul Quirinale, però, l’esigenza di tracciare un profilo innominato, uno schizzo, un identikit appunto, ma senza la faccia né alcun segno che lo renda immediatamente riconoscibile (che lo renda cioè effettivamente un identikit) raggiunge il parossismo. A mano a mano che ci si avvicina al gran giorno, la girandola delle interviste, peraltro sempre le stesse, con le stesse domande, agli stessi quattro o cinque leader di partito, finisce per assomigliare a quegli indovinelli che si sentivano da bambini: ha i denti ma non morde, ha il collo ma non ha la testa, ha mille profili ma non ha una faccia… che cos’è? (Risposte: pettine, piede, il prossimo presidente della Repubblica). 

 

Al momento decisivo, però, è importante saper scegliere il profilo giusto. “Sarà un discorso a metà tra Einaudi e Gronchi. Istituzionalismo del primo, sguardo politico del secondo”, confidò Giovanni Spadolini, talmente convinto di avere l’elezione in tasca da essersi già scritto l’intervento, a Vincenzo Scotti, poco prima che il parlamento eleggesse Oscar Luigi Scalfaro (lo ha raccontato lo stesso Scotti a Fabio Martini, giovedì, sulla Stampa). Atteggiamenti, carattere e stile degli augusti predecessori consegnano infatti ai posteri, e anzitutto agli aspiranti successori, una ricca galleria di profili, un preciso set di modelli tra i quali scegliere e ai quali ispirarsi, che nel corso degli anni i giornali non hanno mancato di diffondere e di esaltare, con toni spesso a metà tra il manifesto di propaganda e il racconto edificante. Una ritrattistica in cui raramente manca un tratto populista. Sin dai tempi del primo presidente, il giurista Enrico De Nicola. “Un grande avvocato, De Nicola, abituato tutte le mattine a raggiungere da Torre del Greco il suo studio napoletano scendendo in una vettura di terza classe della Circumvesuviana”, lo descrive ad esempio il Popolo, in un articolo del 29 giugno 1946, all’indomani della sua elezione a capo provvisorio dello Stato da parte dell’Assemblea costituente, senza lesinare aggettivi per un “uomo politico estraneo alle manifestazioni di onori esibiti”, nonché “cattolico osservante, disponibile ad aiutare i poveri, gli umili che da lui possono attendersi atti generosità spontanei” (devo questa e molte altre citazioni al saggio di Angelo Varni nell’opera collettanea “I presidenti della Repubblica” pubblicata dal Mulino nel 2018, a cura di Sabino Cassese, Giuseppe Galasso e Alberto Melloni).

 

S’inaugurava così, da parte della stampa, una solida tradizione, destinata a durare molto a lungo. Tra le poche e più bizzarre eccezioni, quanto meno nello stile, va segnalato invece il corsivo non firmato del Corriere d’Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della sera) con cui veniva salutata l’elezione di Luigi Einaudi: “No, egli non è bello, ma non si può nemmeno dire che sia ‘decorativo’. Nella folla non spicca. E’ calvo. Porta gli occhiali. Non riusciamo neanche con sforzo a immaginarlo, sia pure per ipotesi, in groppa ad un candido destriero. Probabilmente non gli giova neppure il cilindro delle solenni cerimonie. Il desiderio popolaresco di un Capo di Stato che si veda da lontano, più alto, bello, appariscente di quanti gli stanno intorno, questo ingenuo sentimento è stato forse un poco deluso”. E l’anonimo corsivista non poteva immaginare quante altre volte sarebbe stato deluso in futuro. Ma la descrizione più celebre del presidente Einaudi, tale da gareggiare e superare la circumvesuviana di De Nicola, o il suo ancor più celebre “cappotto rivoltato” (avesse saputo i danni provocati nei decenni alla politica, alle istituzioni e al giornalismo dalla sua austerità, sono certo che l’integerrimo giurista se ne sarebbe comprato almeno uno di Astrakan), si deve invece alla penna di Ennio Flaiano, che nel 1970 ricorderà, sul Corriere della sera, una cena al Quirinale di molti anni prima. In quell’occasione, un maggiordomo portò “un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi napoletani dipingevano due secoli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato”. E anche delle pere molto grandi. Tanto grandi da indurre il presidente a sospirare: “Io prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che ne vuole dividere una con me?”. Dopo un momento di sconcerto, Flaiano alza coraggiosamente la mano e si prende la sua metà, gesto che gli vale la riconoscenza del capo dello stato e la conclusione dell’articolo: “Qui finiscono i miei ricordi sul presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la Repubblica delle pere indivise”.


In verità, comunque si giudichi una simile retorica, non sarebbero mancati successori meritevoli di lodi analoghe a quelle raccolte dal frugale Einaudi. Tra i profili più alti, noti e apprezzati per la sobrietà non meno che per l’esuberanza (non sembri una contraddizione), c’è senza dubbio quello di Sandro Pertini, per molti il presidente più amato e popolare, per altri forse il primo populista. Ricordato per le sue vibranti parole dinanzi al terremoto dell’Irpinia (e ai ritardi nei soccorsi), per la sua giovanile esultanza ai mondiali dell’82, per la sua commozione davanti al pozzo in cui era precipitato il piccolo Alfredo Rampi (“Alfredino”, per tutte le televisioni accorse a raccontare gli sfortunati tentativi di salvarlo, inaugurazione italiana della tv del dolore). Al di là dei non secondari aspetti di carattere e di costume, non bisogna pensare però che sia tutto una commedia, o quanto meno che la commedia sia del tutto fine a se stessa. Dietro questioni di stile e di profilo, si nasconde quasi sempre una scelta politica non irrilevante, che chiama in causa l'equilibrio dei poteri e di tutto il sistema. Un’alternativa di fondo che Spadolini mostrava di avere ben chiara in mente quando confidava a Scotti di avere già preparato un discorso “a metà tra Einaudi e Gronchi”. Il Quirinale di De Nicola e di Einaudi era stato davvero “la nicchia di un alto simbolo e basta”, come aveva scritto infatti Indro Montanelli sul Corriere della sera (5 maggio 1962), per poi aggiungere: “Il Quirinale, con loro, aveva alcunché di monastico e di contemplativo. Con Gronchi diventò uno strumento di potere”. E infine: “Fondata od infondata che sia, si è avuta nel paese l’impressione che, appena ci è salito un democristiano, il Quirinale è sceso: è sceso, voglio dire, nella mischia”.

 

L’importanza di individuare per tempo il profilo adatto non significa che poi le cose vadano sempre come previsto, ovviamente. Così il primo presidente a essere eletto direttamente alla prima votazione, con la bellezza di 752 voti su 1011 grandi elettori, Francesco Cossiga, si rivelerà anche il più divisivo e conflittuale, detentore del record di leggi rinviate al parlamento (ventidue), nonché quello andato più vicino a vedersi mettere sotto processo per attentato alla Costituzione, autore tra l’altro di un memorabile e assai polemico non-discorso di fine anno (tre minuti in tutto, record anche questo), nel 1991: “Parlare non dicendo, tacendo anzi quello che tacere non si dovrebbe, non sarebbe conforme alla mia dignità di uomo libero, al mio costume di schiettezza, ai miei doveri nei confronti della Nazione”. Destinato a passare alla storia come il “picconatore”, Cossiga si dimetterà sei mesi prima della scadenza, il 25 aprile dell’anno successivo. Commento di Montanelli: “Oggi è la Festa della Liberazione. Si dimette Francesco Cossiga”.

 

Ma probabilmente nessun errore di valutazione si rivelerà fatale come quello compiuto da Bettino Craxi su Oscar Luigi Scalfaro, cui assicurò i voti dei socialisti (dando così un gran dolore a Spadolini) nella convinzione che l’allora presidente della Camera, che era stato a lungo ministro dell’Interno nel suo governo, non gli avrebbe negato l’incarico e forse lo avrebbe anche difeso nella difficile stagione aperta dall’inchiesta Mani Pulite, partita solo pochi mesi prima. Com’è noto, le cose andranno in modo molto diverso. E’ anche degno di nota il fatto che Scalfaro fosse il principale e più aperto avversario di Cossiga all’interno della Democrazia cristiana. A conferma di una sorta di curiosa legge del pendolo, che ha spesso portato all’elezione, di volta in volta, se non del principale rivale, quanto meno di un presidente che rispetto al predecessore incarnasse una concezione del ruolo radicalmente diversa. E’ vero che, come tutti ricordano, l’elezione di Scalfaro avvenne sull’onda del terribile choc per la strage di Capaci, che rese necessario porre fine immediatamente al lungo stallo in cui il Parlamento si era infilato (si era arrivati ormai alla sedicesima votazione). E’ la famosa partita a scacchi raccontata da Paolo Cirino Pomicino (e immortalata in una scena del Divo da Paolo Sorrentino). “Se c’è la candidatura di Andreotti, la mia non esiste”, dice Forlani. “Se c’è la candidatura di Forlani, la mia non esiste”, risponde Andreotti. E Pomicino conclude: “Ho capito, sono candidati tutti e due” (notevole in proposito anche il ricordo di Claudio Martelli, raccontato ieri al Corriere della sera, con Andreotti che qualche giorno dopo gli dice: “Davanti alla candidatura di Forlani io mi sono fatto doverosamente da parte, ma ora che è tramontata non credo sia ingiustificata la mia”; e Martelli che pensa: “Ma la candidatura di Forlani l’hai fatta tramontare tu, con i tuoi franchi tiratori…”).

 

Ad ogni modo, come ricorda Scotti, l’esito ultimo di quella partita non era poi così imprevedibile. Quando appena due mesi prima i deputati eleggono Scalfaro presidente dell’Assemblea di Montecitorio, infatti, Cossiga chiama Forlani e gli dice: “Arnaldo, hai eletto il presidente della Camera che sarà anche il nuovo Capo dello Stato”. La ragione è semplice, almeno a sentire Scotti: “Ogni elezione presidenziale è stata guidata da processi politici, al di là del frastuono circostante. Ogni presidente è stato eletto con una logica politica, non ad personam. Einaudi è stato il presidente del centrismo, Pertini è stato eletto coralmente perché dovevamo uscire dalla vicenda Moro con una figura ‘alta’. Ma anche Scalfaro è preparato da lontano: scalzare Cossiga e la sua concezione presidenzialista. Ero presidente dei deputati dc e alla fine di ogni seduta arrivava l’attacco di Scalfaro contro le esternazioni di Cossiga. Poi ne ha preso il posto...”. Ma può anche darsi che tante ricostruzioni siano figlie delle stesse inimicizie che segnarono a suo tempo le battaglie di allora, e continuino a confondere le acque. Perché il gioco dei profili è prima di ogni altra cosa un gioco di specchi. Come è inevitabile che sia, specialmente nella corsa al Quirinale, l’unica campagna elettorale al mondo che si vinca stando nascosti (il che non vuol dire inerti). Del resto, si sa che da sempre, e tanto più ai tempi dei social network, proprio a questo serve il profilo: a nascondere le facce.

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