Pierluigi Castagnetti e Sergio Mattarella (ANSA/PAOLO GIANDOTTI/UFFICIO STAMPA QUIRINALE)

Il Foglio weekend

Il portavoce occulto, ruolo clou delle trattative per il Quirinale

Francesco Cundari

Con la corsa al Colle torna l’esercito degli uomini ombra, uomini di fiducia e amici carissimi. Nonostante Twitter

C’è una differenza essenziale tra il lavoro del portavoce, che in teoria si limita a riportare la posizione ufficiale del leader, e il ruolo dell’amico, dell’uomo-ombra o dell’uomo di fiducia, che ne riporta il pensiero. “L’uomo di fiducia” era non per niente il titolo del libro autobiografico (nella forma di una lunga intervista con Giorgio Dell’Arti) di Ettore Bernabei, giornalista, direttore generale della Rai dal 1960 al 1974, dirigente delle partecipazioni statali, nonché uomo di fiducia di Amintore Fanfani. Personalità sfuggente e poliedrica, modello inarrivabile, cui sarebbe forse improprio accostare altro genere di fiduciari e porta-pensieri, dei quali pure la politica italiana è sempre stata ricchissima. Molti hanno cominciato come semplici portaborse, capi di gabinetto, segretari particolari. Per poi diventare leader essi stessi. Altri si sono limitati a diventare parlamentari, magari anche sottosegretari, pur continuando a inviare comunicati stampa, a correggere interviste e a rettificare interpretazioni del loro mentore. Di qui il bizzarro spettacolo di un dirigente di partito, non di rado pure parlamentare della Repubblica, che prende posizione in quanto portavoce di un signore che in quel momento non ha alcun incarico, né alcun partito di appartenenza, magari anche in polemica con il partito di appartenenza del portavoce. Incerti del mestiere.

 

Abituato a lavorare dietro le quinte, l’uomo di fiducia è però anzitutto l’uomo delle trattative. E in nessun momento assurge a maggiore importanza e visibilità – perché sì, ovviamente, esiste anche una visibilità degli invisibili, e anche una certa vanità dell’invisibilità – come nella corsa al Quirinale. Del resto, la principale analisi teorica dell’elezione presidenziale si deve al braccio destro di Giulio Andreotti, Franco Evangelisti, che alla fine del 1991 profetizzò: “Credo che Giulio perderà la guerra per il Quirinale. Parte troppo favorito. Ma chi parte favorito non arriva. Questa è la regola fissa”. La storia gli darà ragione. Non per niente, l’uomo-ombra destinato alla fama più duratura, ma una fama non invidiabile, è stato senza dubbio lui, Evangelisti, il braccio destro di Andreotti (un altro che, prima di diventare un leader, aveva cominciato allo stesso modo, ma al fianco di Alcide De Gasperi). Tanto irruento e sboccato, Evangelisti, quanto il suo capo era flemmatico e riservato. Si definiva “il San Paolo della fede andreottiana”. Ma non si occupava solo dei problemi dello spirito.

 

“Vuoi sapere la verità? La Dc governerà fino al Duemila perché so’ stronzi gli altri!”, confidava a Giampaolo Pansa nel 1985, nel momento decisivo di un’altra corsa al Quirinale, alla vigilia della trionfale elezione, al primo turno, di Francesco Cossiga. Poi aggiungeva: “No, non scrivere: stronzi. Scrivi: inetti. Così nessuno si turerà il naso” (Pansa riporterà puntualmente entrambe le versioni, ma Evangelisti non perderà il vizio di dire ai giornalisti anche cosa non scrivere). La sua non invidiabile nomea, però, resterà per sempre legata alla famosissima intervista a Paolo Guzzanti, uscita su Repubblica il 28 febbraio 1980, con cui l’allora ministro della Marina mercantile si rovinò la carriera.

Ministro Evangelisti, lei ha preso soldi dai Caltagirone?
“Sì, da Gaetano. lo sono amico di Gaetano Caltagirone, gli altri fratelli quasi non li conosco”.
Quanti soldi?
“E chi se lo ricorda. Ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: a Fra’, che te serve?”.

Una battuta che sarebbe rimasta incollata a lui, e a un’intera classe dirigente, per i secoli dei secoli. Quarant’anni dopo, Guzzanti avrebbe raccontato sul Riformista anche un interessante retroscena sulle ragioni familiari (i genitori di Guzzanti conoscevano Andreotti sin dall’infanzia) per cui Evangelisti si era convinto che l’intervistatore non avrebbe scritto davvero quello che gli aveva detto, e sul bizzarro dialogo che ebbero l’anno successivo, quando il cronista propose all’ormai ex ministro di rivisitare con lui le origini della sua disgrazia giornalistica. “Dunque, me vorresti fare un’altra intervista e raccontare tutto quello che ho passato?”. Questa è l’idea, confermò Guzzanti. “Fammi pensare. Senti, Guzzà, c’ho pensato: ma vedi un po’ d’annà affanculo”.

 

Per una curiosa coincidenza, l’uomo di fiducia di Andreotti era stato compagno di classe di Tonino Tatò, il segretario particolare, uomo di fiducia, consigliere e plenipotenziario di Enrico Berlinguer. Intellettuale cattolico cresciuto alla scuola di Franco Rodano, molto ideologico e con un sentimento profondo delle implicazioni etiche dell’impegno politico, secondo i critici non di rado sconfinante nel moralismo e nel fanatismo, riesce difficile immaginarlo vicino di banco di Evangelisti. Come riesce difficile immaginare un messaggio di Evangelisti che cominciasse, come cominciava una nota di Tatò per Berlinguer del gennaio 1979, con le seguenti parole: “Ieri sera, a casa, solo, mi girava per la testa un vago ricordo di un passo del Machiavelli…” (seguiva trascrizione di lunghi passi dal XXV capitolo del Principe, con varie considerazioni a margine).

 

Eppure quel rapporto tra due pur così diversi “uomini di fiducia” tornerà utile, in particolare ai tempi della solidarietà nazionale e delle trattative tra Dc e Pci, come risulta dalle note in cui Tatò trascriveva fedelmente per il segretario le sue chiacchierate con Evangelisti. Ad esempio la telefonata del 3 febbraio 1978, in cui il braccio destro di Andreotti gli anticipa, con l’asciuttezza tipica del suo stile, l’esito della direzione democristiana, vale a dire che “i dorotei nella loro riunione si sono cacati sotto e hanno ‘ammorgiato’”, che “Bisaglia fa un sacco di giochi ma ce sta”. e che dunque, in conclusione, “a Tonì, è fatta, voi entrate nella maggioranza”. Da allora si capisce che tutto è cambiato: nella politica, nella comunicazione e anche nelle forme della diplomazia tra i partiti. Tutto, tranne una cosa. Se il Quirinale è infatti l’Everest di qualsiasi carriera politica, si capisce quanto sia importante il lavoro degli sherpa: in una campagna elettorale in cui il candidato praticamente non può parlare, diventa imprescindibile, di conseguenza, il ruolo di chi parla per lui. Di chi è chiamato a portarne la voce anche laddove lui non può permettersi di comparire, e ancora di più il ruolo di chi ne porta i pensieri, compresi quelli che l’interessato non può dire nemmeno a se stesso.

 

E poi ci sono, come sempre, i portavoce loro malgrado. Quelli di cui i cronisti più esperti seguono puntualmente le mosse e decifrano faticosamente ogni dichiarazione, proprio perché si suppone dicano quanto il leader pensa, ma non può dichiarare apertamente. O almeno così si usava, in tempi in cui i leader politici si adeguavano ad altre liturgie, avevano forse altri freni inibitori, e di sicuro non avevano Twitter. Ma certo, oggigiorno, a quale vecchio cronista salterebbe mai in mente di prendere sotto braccio il collega più giovane, indicargli qualche grigia figura rincatucciata in un angolo di Montecitorio, e bisbigliare: “Lo vedi? Lui dice quello che Renzi pensa, ma non può dire”. E quando mai Matteo Renzi – o Matteo Salvini, o Carlo Calenda, o dite voi chi preferite – si sarebbe trattenuto dal dire qualcosa che pensava, a proposito di compagni di partito o avversari, conduttori televisivi o capi di stato stranieri?

 

È prevedibile che con il passare del tempo simili ruoli cadranno in disuso. E così, probabilmente, anche gli sgradevoli equivoci che alle volte frettolose attribuzioni hanno ingenerato. Come poteva capitare, per esempio, ai tempi di Giorgio Napolitano, con le note di Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci e fino agli ultimi anni della sua vita corsivista puntuto e indefesso, ma anche, come sapevano bene tutti i giornalisti del paese, uno degli amici più stretti del presidente. Così come è capitato in questi anni con le dichiarazioni – o anche con i tweet – di Pierluigi Castagnetti, attribuiti con tanta facilità a Sergio Mattarella che a volte lo stesso Castagnetti ha avuto a dolersene, al punto da rifiutare di parlare del tutto, nei momenti particolarmente delicati, proprio per evitare il rischio che le sue personali opinioni venissero scambiate per un comunicato del Quirinale.

 

Certo però il suo tweet del 25 agosto 2019, nel pieno delle trattative sulla formazione del nuovo governo, dopo la caduta dell’esecutivo gialloverde, non poteva passare inosservato, forse anche per quella curiosa scelta di usare il maiuscoletto a mo’ di titolo: “LA LEZIONE DI BERLINGUER.  Nel 1976 Berlinguer (che avrebbe preferito Moro) accettò Andreotti, perché riteneva che sono i programmi e non le persone il terreno e lo strumento della discontinuità”. Un messaggio che i giornali interpretarono subito come un altolà al segretario del Pd, Nicola Zingaretti, apparentemente intenzionato a chiedere un cambio a Palazzo Chigi. Come è noto, finirà che Zingaretti non solo accetterà che sia ancora Conte a guidare il governo, ma pochi mesi dopo arriverà a definirlo “punto fortissimo di riferimento” di tutti i progressisti, e alla successiva crisi di governo impegnerà il suo partito sulla linea esattamente opposta, o Conte o le elezioni, perdendo anche questa volta (se poi l’evoluzione sia da attribuire al fatto che nel frattempo avesse studiato la lezione di Berlinguer, o che non l’avesse capita, bisognerebbe chiederlo a Castagnetti, ma comunque è un’altra storia).

 

Quello che è certo è che, con l’aprirsi di un’altra corsa al Quirinale, inevitabilmente, il ruolo di portavoce ufficiali e portavoce occulti, uomini ombra, uomini di fiducia e amici carissimi è destinato a crescere, ancora una volta. Nonostante tutto e nonostante Twitter. Del resto, c’è chi il portavoce lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, ma il vero uomo di fiducia lo fa solo per passione, indipendentemente dal ruolo ufficiale, passato, presente o futuro. “Mai stato deputato, o senatore, o ministro?”, chiedeva Dell’Arti a Bernabei, proprio all’inizio della loro lunga conversazione. “Mai”, rispondeva l’ex direttore della Rai. Non gli interessava, diceva, aggiungendo che glielo avevano offerto tante volte e altrettante aveva declinato. “Non è ambizioso?”, domandava allora l’intervistatore. “Sì, però non in quel modo”.

 

Antonio Maccanico, segretario generale della presidenza della Repubblica con Sandro Pertini e poi per i primi due anni con Francesco Cossiga, quindi presidente di Mediobanca, poi ancora più volte ministro e sottosegretario (e anche presidente del Consiglio incaricato per un breve e sfortunato tentativo prima delle elezioni del 1996), il 16 dicembre 1979 scriveva nei suoi diari (pubblicati dal Mulino con il titolo “Con Pertini al Quirinale”, a cura di Paolo Soddu): “Noto questa frase che mi sembra colga un aspetto vero del nostro tempo: ‘ipertrofia di mezzi e atrofia dei fini’”. Si tratta – informa una nota – della perifrasi di un’osservazione di Paul Ricoeur sulla società dei consumi: “Avvertiamo ogni giorno più vivamente la contraddizione tra la crescente razionalità dei nostri mezzi e l’evanescente razionalità dei nostri fini”.

 

Non stupisce che una simile considerazione abbia colpito un uomo nella posizione di Maccanico, che peraltro aggiungeva a quella, nella stessa giornata, un’altra citazione interessante, questa volta di Camus: “L’uomo che ama la verità deve cercare l’amore nel matrimonio, cioè l’amore senza illusioni”. Evangelisti probabilmente non leggeva Camus, ma forse l’avrebbe apprezzata lo stesso.