Foto Claudio Furlan/LaPresse

Dopo Tim, Generali: più mercato, meno cavilli

Claudio Cerasa

Perché l’Italia dei capitali coraggiosi ha un conto aperto con Mediobanca. Battaglie da serie tv

La formidabile stagione dei capitali coraggiosi illuminata dalla manifestazione di interesse su Tim messa in campo tre giorni fa dal fondo americano Kkr (operazione da 33 miliardi di euro) è una stagione all’interno della quale si trovano tasselli diversi, apparentemente scollegati l’uno dall’altro ma uniti tutti da un vettore che sembra essere diventato il principale motore delle trasformazioni economiche del nostro paese: il mercato.

 

È il mercato, come abbiamo scritto ieri, ad aver dato una sveglia a Tim, e anche al governo, e sarà il mercato a costringere Draghi a prendere una decisione definitiva su una questione annosa che riguarda il futuro della rete unica. La partita di Tim, per dimensioni, per valori, per storia e per simbologia,  in questi giorni ha giustamente catturato l’attenzione di molti osservatori e la presenza di un governo interessato non a benedire un’operazione ma a ricevere garanzie è una scelta che potrebbe andarsi a riproporre tra qualche settimana quando il mondo finanziario italiano si ritroverà a fare i conti con una partita ben più importante di quella di Tim e che riguarda il futuro di Generali.

 

Per la prima volta nella sua storia, Generali si trova al centro di una battaglia vera, senza esclusione di colpi, che vede protagonisti due blocchi duramente contrapposti. E la battaglia è interessante da mettere a fuoco non solo perché si avvicina sempre di più il giorno in cui verrà presentato il prossimo piano industriale del Leone di Trieste (15 dicembre) ma anche perché più passa il tempo e più si capisce cosa c’è davvero in ballo nel risiko di Generali.

 

Primo punto: chi sono i protagonisti della battaglia di Generali? Due squadre. Nella prima squadra, c’è Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, che controllando con Mediobanca il 12,82 per cento di Generali è il primo azionista della compagnia assicurativa più importante d’Italia. Al suo fianco, Nagel ha la De Agostini (che, pur essendo in uscita da Generali, ha l’1,44 per cento e mantiene il diritto di voto alla prossima assemblea) e un pacchetto di azioni (che corrispondono a un ulteriore 4,43 per cento del capitale sociale di Generali) che in modo smaliziato l’ad di Mediobanca ha scelto di affittare (chiedendo una mano a Bnp Paribas che ha organizzato il prestito titoli per conto di alcune importanti istituzioni finanziarie tra cui l’assicurazione Axa) per poter avere a disposizione un 17,25 per cento del capitale di Generali (che sommato a De Agostini fa circa il 18,6 per cento).

 

Nella seconda squadra giocano insieme Francesco Gaetano Caltagirone (secondo azionista di Generali con il 7,2 per cento), il gruppo Del Vecchio (5,7 per cento) e la Fondazione Crt (1,2 per cento). E il patto a tre (che vale circa il 14 per cento di Generali) viene osservato con interesse da un altro gruppo importante che è quello dei Benetton, che ha il 3,9 per cento di Generali.

 

Al centro della contesa non c’è una semplice richiesta di nuovi equilibri ma c’è la richiesta, da parte di Caltagirone e Del Vecchio in primis (che vogliono portare il patto anti Nagel a quota 18 per cento), di dare a Generali lo sprint necessario per poter competere alla pari con le grandi compagnie assicurative d’Europa.

  
La strategia di Caltagirone e Del Vecchio parte da alcuni dati di realtà che riguardano non i risultati raggiunti anno su anno da Generali (nei primi nove mesi del 2021, l’utile di Generali è salito di 2,25 miliardi) ma il confronto di Generali con le altre compagnie di assicurazioni europee. Generali, oggi, capitalizza in Borsa circa 29 miliardi di euro (Tim, per capirci, circa 9 miliardi), ma i suoi competitor europei (competitor che negli anni Novanta avevano un valore non troppo distante da quello di Generali) viaggiano su ritmi diversi. Axa (della cui holding di controllo nel 1990 Generali deteneva il 40 per cento) oggi in Borsa vale cinquanta miliardi. Cinquanta miliardi vale anche Zurich. Ottanta miliardi vale Allianz. Dieci anni fa, un’azione di Axa valeva 13 euro, oggi ne vale 25. Dieci anni fa, un’azione di Allianz valeva 65 euro, oggi ne vale 204. Dieci anni fa, un’azione di Zurich valeva 199 franchi, oggi ne vale 394. Dieci anni fa, un’azione di Generali valeva 12 euro, oggi ne vale 18.

   

Gli avversari di Mediobanca, che a esclusione di Crt in questi anni hanno immesso circa 8 miliardi in Generali e che chiedono la sostituzione dell’attuale amministratore delegato di Generali che si chiama Philippe Donnet, sono convinti, in presenza di una discontinuità reale in Generali e attraverso una campagna di espansione verso mercati che in questi anni hanno presidiato prevalentemente i competitor di Generali (in Cina e negli Stati Uniti), di poter far valere il titolo della compagnia assicurativa circa il 50 per cento in più rispetto a oggi (vaste programme tutto da realizzare), trasformando Generali  in una società capace eventualmente di poter dar vita in Europa a fusioni alla pari.

 

Ma la strategia dei teorici della discontinuità (strategia che ovviamente dovrà misurarsi con la realtà progettuale) ha di fronte a sé alcuni problemi non da poco che potrebbero complicare i piani. Il primo problema è la decisione assoluta da parte di Nagel di trasformare la battaglia di Generali nella battaglia della vita. Generali, per Mediobanca, è una piccola gallina dalle uova d’oro, due terzi del bilancio di Mediobanca derivano dai dividendi di Generali e di Compass (un importante istituto di credito). E in una fase storica in cui la banca d’affari (il cui primo azionista privato si chiama Del Vecchio, autorizzato dalla Bce a salire al 20 per cento di Mediobanca, e dove un altro azionista di peso è Caltagirone, che di Mediobanca ha il 3 per cento) sconta una centralità nel mercato italiano inferiore rispetto al passato (Unicredit non c’è più, Fininvest è uscita, Bolloré pure, Pirelli anche, Mediolanum resta lì, con il suo 3,3 per cento, e l’unica tra le grandi aziende italiane a sostenere l’azione di Nagel è una importante società di nome Monge, attiva nel settore degli alimenti per cani e gatti, che ha l’1 per cento di Mediobanca) si capisce bene che per Nagel perdere il controllo di Generali significherebbe dover certificare la fine di una stagione.

 

Per questo, per arrivare pronta alla sfida del 29 aprile del 2022, quando verrà convocata l’assemblea per il rinnovo del cda, Mediobanca ha fatto tre mosse spregiudicate.

Primo: affittare le azioni necessarie per poter contrastare il patto costruito da Caltagirone e Del Vecchio (le azioni affittate da Mediobanca scadranno però due mesi dopo quel cda e se dovessero essere decisive per la vittoria della lista sponsorizzata da Mediobanca per Generali ci sarebbe il rischio di avere una maggioranza virtuale).

Secondo: cercare la maggioranza in quel consiglio usufruendo dei diritti di voto di un azionista in uscita come De Agostini (non una grande iniezione di fiducia però avere un azionista che sceglie di dare fiducia a una società mentre sceglie di disimpegnarsi da quella società).

Terzo: cercare di allargare la sua base di partenza presentando non una lista targata Mediobanca ma una lista del consiglio.

 

 Direte: cos’è una lista del consiglio? E’ una lista che verrà presentata a nome dell’attuale consiglio d’amministrazione, e non a nome di un singolo azionista, grazie a una procedura approvata dal cda di Generali lo scorso 27 settembre, senza incontrare il favore dei consiglieri vicini a Caltagirone e Del Vecchio.

 

Sembra una questione tecnica (una procedura di scelta del cda di questo tipo in passato è stata adottata anche da Unicredit e Tim) ma in realtà non lo è. E su questo fronte, il secondo azionista di Generali, Caltagirone, ha chiesto alla Consob di esprimersi su due punti dirimenti. Primo: la legittimità o meno che un board in scadenza possa proporre una lista per un nuovo cda (tema: il 13 per cento degli azionisti di Mediobanca è rappresentato da alcuni fondi di investimento che in passato, nei rinnovi del cda, hanno votato la lista di Assogestioni, e che ora potrebbero portare i propri voti sulla lista del consiglio facendo arrivare la linea Nagel vicina al 30 per cento). Secondo: la legittimità o meno che la lista presentata dal consiglio possa essere votata anche da alcuni azionisti di Generali che giocano una doppia partita (tema: un fondo di investimento che gestisce una parte del risparmio di Generali su incarico dell’attuale management ha o non ha qualche conflitto nel votare per una lista proposta da un consiglio che attualmente è anche fornitore di quel fondo?).

 

Se la partita di Tim vi sembra appassionante, e lo è, la partita di Generali (he ha in pancia 468 miliardi di investimenti, di cui 176 miliardi di obbligazioni governative e oltre sessanta miliardi sono titoli di stato italiani e che in questo momento è uno dei grandi gioielli d’Italia), lo sarà  ancora di più. E se gli avversari di Caltagirone e Del Vecchio avranno la forza di rispondere alla sfida di mercato non con un’iniezione di cavilli, come appare finora, ma con un’iniezione di innovazione, per Generali il futuro, grazie alla stagione dei capitali coraggiosi, potrebbe essere più roseo rispetto a come lo è oggi.

 

 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.