IL FOGLIO DEL WEEKEND

L'autobiografia di Di Maio: come sbarazzarsi del vaffa e abbracciare Machiavelli

Andrea Minuz

Come Luigi Di Maio abbatte, uno dopo l’altro, i miti del populismo. Ambizioni e delusioni della politica in un’autobiografia scritta a 35 anni. C’è un vecchio democristiano intrappolato nel corpo di un giovane grillino

Politici, cuochi, brigatisti, eroi dello sport, procuratori della Repubblica. La tentazione dell’autobiografia non è mai stata così irresistibile. Alla fine c’è cascato anche Giggino. Uno dei pochi che poteva rivendicare sin qui un primato invidiabile: rispetto a Salvini, Meloni, Renzi, Casalino, già opzionato per un film, o Dibba, con la sua valanga di reportage e inchieste, Di Maio non aveva ancora pubblicato un libro. Ma ecco questo, “Un amore chiamato politica”, subito il più venduto su Amazon, davanti a Calamandrei, a cavalcare l’onda di una travolgente “Nouvelle Vague” politico-libresca. A raffica, uno dopo l’altro, sono usciti l’avventurosa vicenda ministeriale di Toninelli, la “strana vita” di Prodi, il bestseller, “Io sono Giorgia” e ora “il primo libro di Luigi Di Maio”, come dice la pubblicità. Con quel “primo” che suona subito minaccioso, lasciando intendere un seguito, una serie, magari una docufiction su Amazon Prime, come Totti, i Ferragnez, Verdone. 


Un’autobiografia a trentacinque anni? Certo. Perché stupirsi? Nell’epoca in cui chiunque si autocelebra con una voce su Wikipedia dopo due raccolte di poesie in self-publishing, chi è stato tre volte ministro, al centro della vita politica italiana degli ultimi anni, con una pandemia globale in mezzo, scrive un’autobiografia. Churchill, che era assai precoce e aveva il demone della scrittura, la pubblicò a cinquantasei anni. Ma Giggino è già “postumo di sé stesso”, avrebbe detto Andreotti. E’ stato bibitaro, webmaster, azionista del Movimento, sguaiato populista di piazza, filovenezuelano, antieuropeista, poi moderato, centrista, negoziatore, proeuro, applaudito a Cernobbio e ora in prima fila per la terza dose. Una bella storia italiana. Del resto, in questo libro si difendono le ragioni inoppugnabili del trasformismo, vanto e non onta dell’Italian way of life. Perché “Un amore chiamato politica” è il racconto del passaggio all’età adulta: un giovane di provincia alla ricerca dell’Onestà, le sue “illusions perdues” e la scoperta del meraviglioso mondo della democrazia parlamentare. Bastava guardarlo da Gruber l’altra sera. Lei col sopracciglio alzato, molto scortese, quasi infastidita. Invece lui, Di Maio, non si scomponeva. Gruber faticava a capire che le autobiografie in politica si scrivono non perché si abbia qualcosa da dire, tantomeno per raccontare il “dietro le quinte” del Palazzo, come vorrebbe farci credere Di Maio, neanche fosse Aaron Sorkin, ma per completare, rifinire, aggiustare la propria immagine. “Viviamo nell’epoca in cui i politici sono parodia sui social”, scrive Guia Soncini a proposito di “Un amore chiamato politica”, “è giusto lo siano anche nei libri”.


L’immagine, in questo caso, è quella di un politico già “vecchio”, navigato, impolverato. Trasformato dagli ingranaggi del groviglio istituzionale in un democristiano intrappolato nel corpo di un giovane grillino. Di Maio ha due anni in più di Mattia Santori ma sembra suo padre. Se nel nostro star system la sardina incarna il mito del “supergiovane”, destinato a diventare un cinquantenne col frisbee, il cerchietto, la felpa, sempre in partenza per l’Erasmus, Di Maio è “il giovane vecchio”. L’archetipo di un’italianità profonda, rassicurante, tradizionale anche quando vuole essere rivoluzionaria. Avesse avuto la voce da tenore, poteva diventare il quarto membro del Volo, probabilmente il leader. Giacca e cravatta da cresima, modi pacati, “grande amore”. Ecco perché uno scrive un lungo post su Facebook che si intitola “Chi è Mattia Santori” e l’altro pubblica un’autobiografia, anche se il lessico è sempre quello (“per mesi lo hanno insultato, deriso, odiato, amato, snobbato, altri ancora, invece, sono scesi con lui in Piazza per inseguire un grande sogno” è la bio di Santori, potrebbe essere il libro di Di Maio). “Un amore chiamato politica” è ricolmo di frasi che cadono giù come macigni. Sentenze lapidarie, à la Jep Gambardella (“io non sono stato un semplice testimone, io posso raccontarvi come è andata veramente. E oggi ho deciso di farlo”). Sfoggia un italiano con pretese auliche, come a vendicare con frasi da “immaginifico” tutti quei congiuntivi sbagliati (“presi contezza che la mia strada era giusta”, “sentivo un peso ciclopico sulle mie spalle”). Tutto nella vita di Giggino appare già scritto. Tutto è segno, rivelazione, folgorazione. “Posso dire di aver sempre cercato la politica, ma anche che la politica è sempre venuta a cercarmi”. E alla fine si sono trovati. Ecco Di Maio che riceve la telefonata con l’annuncio della sua elezione alla Camera. Subito lo sguardo gli cade “su una riproduzione dell’agenda rossa di Borsellino”. Allora pensa a “la rabbia sociale, le urla, i diritti reclamati, i doveri necessari, l’altruismo”, quindi chiama il papà. Perché, come in ogni “bildungsroman” che si rispetti, la carriera folgorante di Di Maio figlio è anche un grande riscatto di ciò che non è riuscito a Di Maio padre, “convinto missino con un forte senso dello Stato”, candidato tre volte al consiglio comunale, mai eletto. Invece Giggino parte in quarta. Un piccolo Mozart degli organi collegiali, destinato a diventare “il più giovane vicepresidente della Camera della storia repubblicana”. 


Eccolo subito rappresentante di classe, “rieletto per ben quattro anni”, poi “rappresentante provinciale degli studenti napoletani”, poi “consigliere di facoltà a Ingegneria informatica”, poi a capo di un’associazione studentesca di Giurisprudenza, messa su “in contrapposizione ai vecchi partiti universitari” (la casta!), quindi “presidente del Consiglio degli studenti”. “Erano tutti convinti che mi sarei ricandidato, invece decisi di fermarmi”. E’ la genesi del “vincolo dei due mandati”, pilastro ideologico del M5s. Ma tutte queste cariche a raffica sono ben poca cosa di fronte agli insegnamenti ricevuti al liceo, vero luogo iniziatico, cardine di ogni storia italiana. Gli americani che ce l’hanno fatta hanno il mito del campus. Il racconto della vita di Mark Zuckerberg comincia a Harvard. Di Maio si forgia, naturalmente, nel liceo classico. Il “Vittorio Imbriani” di Pomigliano D’Arco. Racconta Giggino che la folgorazione fu innescata da Antonio Cassese, professore di Storia e Filosofia, uno molto “comunista”, come deve essere ogni professore di Storia e Filosofia nella buona e nella cattiva scuola: sono gli Antonio Cassese che cambieranno questa società in una società più giusta. Col professor Cassese, primo di una lunga serie di mentori, Di Maio scrive e gira un cortometraggio sulla Resistenza a Pomigliano, legge molto Hegel, “discute dell’elogio della Democrazia di Atene”, organizza lotte e scioperi, “ma di pomeriggio”, perché “la mattina andava a scuola”. Poi c’è Vincenzo D’Onofrio, “professore di latino e greco”, non come Cassese, “communista cosìììì!” (direbbe il Mario Brega di “Un sacco bello”), ma “socialista come non se trovano più in giro”. Chissà perché. “E’ stato grazie a loro che fin dai tempi della scuola ho deciso di affacciarmi alla politica”. Con quel verbo (“affacciarsi”) che evoca già il “balcone del popolo”, l’ammucchiata festosa, le bottiglie di spumante per celebrare l’abolizione della povertà, da cui ora però Di Maio prende le distanze. 


Quando si iscrive alla Facoltà di Ingegneria capisce subito che non fa per lui, però fa in tempo a creare l’“Associazione di studenti di ingegneria”. Finisce fuoricorso, poi molla. Ma ha in serbo un capolavoro di acrobazia dialettica, assai poco hegeliano, molto napoletano, probabilmente appreso dal professor Cassese, che tirerà poi fuori nelle interviste a venire: “Non ho conseguito la laurea perché sono diventato vicepresidente alla Camera a 26 anni, e mai avrei approfittato del mio ruolo per andare a fare gli esami”. Onestà! Ma non fatevi ingannare dalle recensioni distratte. In pochi lo dicono, ma “Un amore chiamato politica” è anche una grande, formidabile abiura del populismo. Non un “arrivederci”. Un addio. Addio alla “controinformazione” che “in gran parte poggia i suoi pilastri su teorie piuttosto discutibili” e “notizie non verificate” (Giggino ora preferisce la stampa e l’opinione pubblica habermasiana, baluardo dell’establishment democratico). Addio all’improvvisazione e allo sciagurato mito della purezza e della spontaneità (“ho compreso che ogni politica ha bisogno di una scuola, che l’umiltà e lo studio vincono su ogni tipo di improvvisazione”, che “avere un’opinione non equivale ad alcun grado di conoscenza” che “ci sono cose che non sono opinabili”: sembra Burioni e invece è Di Maio, lo stesso che pochi anni prima applaudiva i guru delle scie chimiche e dell’olio di colza in qualche Meet Up del Movimento). Quello stesso Di Maio ora scrive: “Quando presiedi Montecitorio la differenza non risiede in quel che devi dire ma nell’autorevolezza con cui lo dici, nello spirito istituzionale che sia trasmettere”. Quando Billy Wilder era in crisi guardava una scritta sopra la sua scrivana: “Come lo farebbe Lubitsch?”. Giggino scrive: “Quando mi trovo in situazioni difficili mi pongo sempre la stessa domanda: cosa avrebbero fatto i nostri Padri Costituenti?”. Di sicuro, non una votazione su Rousseau. 


E addio allora anche ai complotti ai danni del popolo, all’inaccessibilità del Potere, alle “dittature”, a Bilderberg: “Se la democrazia non esiste”, dice Di Maio, “come è stato possibile che centinaia di cittadini comuni (lui compreso) entrassero in Parlamento?”. Ecco la domanda chiave, il perno attorno a cui ruota tutto. “Non puoi fare politica pensando che la democrazia non esista”. Non può essere “sempre colpa degli altri”. “Non basta dire uno vale uno”, ed è “pericoloso lasciar credere che chiunque possa occuparsi della cosa pubblica”. Da non crederci. Dal Vaffa Day a Machiavelli in tre mosse. Bellissime – lasciando perdere anacoluti, aggettivi ampollosi, frasi fatte – le scene iniziali a Montecitorio. Di Maio guarda i suoi colleghi grillini, tutti appena entrati nel “Palazzo”, come lui. Li ascolta parlare e matura “l’idea che a ricoprire ruoli cruciali e di visibilità debbano essere persone capaci, o perlomeno avvezzi a quel ruolo”. Crollano, insomma, uno dopo l’altro, tutti i baluardi dell’ideologia populista. Fino al grande affondo finale. Quasi un nuovo manifesto politico degli ex populisti diventati grandi: “La sincerità con la politica ha un rapporto piuttosto controverso”. Non siamo ancora a “governare è far credere”, ma ci stiamo arrivando a piccoli passi. E’  un indubitabile ma gigantesco salto in avanti, una presa di coscienza, l’arrivo dell’età adulta, con tanto di elogio della competenza. 


Basta con le virtù incontestabili del “popolo”, il rovesciamento del “sistema”, l’autogestione, il pauperismo, un’idea negativa del potere come colpa, vergogna, “grande disegno” sempre oscuro, sempre oppressivo. Giggino ora si sente “il Macron italiano”, come recita il titolo di un capitolo del suo libro. Così, “Un amore chiamato politica” è anche ricco di pentimenti. Quello, ad esempio, per il celebre “impeachment” a Mattarella, minacciato da Di Maio tra una diretta Facebook dallo sgabuzzino e un’ospitata da Fazio. Un errore. “La più grossa sciocchezza politica che io abbia mai fatto”. Però ha avuto anche il grande merito storico di spingere milioni di italiani a cercare per la prima volta su Google “impingement”. Scritto così, pronunciato alla Malgioglio. E Casaleggio? E Grillo? Due “punti fermi”, certo. Ma del secondo emerge soprattutto la voglia di vendetta televisiva, del primo il grande fiuto da talent scout. E’ lui che mette insieme, scopre e lancia la coppia perfetta, Dibba e Di Maio, i Walter Matthau e Jack Lemmon del Movimento. “Fu Gianroberto, contro ogni attitudine e previsione, a spingerci ad andare in televisione. Era convinto che fossimo i più adatti”. Siamo all’inizio del 2013, l’anno dello “Tsunami tour”, definito nel libro una “forma artistica e provocatoria” (cioè una bella cazzata). “C’è un orientamento a non andare nei talk show. Io lo condivido: sono solo delle fiction”, dice Di Maio nel 2013. Ma è lì che nasce il progetto politico di un candidato premier costruito come un algoritmo per gestire il ribaltamento di posizioni dell’M5s nel flusso televisivo. 


Verso la fine dello stesso anno, Di Maio diventa uno dei tre parlamentari autorizzati a farsi intervistare in televisione, tra i primi cioè a poterlo fare senza essere cacciati. Arriva persino l’endorsement di Monti: “Di Maio è un raffinato borghese dotato di una compiuta articolazione intellettuale”, scaraventando in un lontanissimo passato i congiuntivi e il golpe in Venezuela. Una storia davvero esemplare. Quasi un film di Frank Capra. Con la politica raccontata non come un miraggio, un’illusione, un cumulo di menzogne e corruzioni. Ma come l’unico, vero ascensore sociale che funziona in Italia. Insieme ad “Amici” di Maria De Filippi.

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