(foto Ansa)

Simposio immaginario

La nuova mappa del potere

Sabino Cassese

Un misto di universalismo e nazionalismo, con  poteri che si affacciano e altri che escono di scena: effetti della pandemia. Dunque avremo più stato, più globalizzazione o un ritorno al locale? Dialogo a quattro voci

Nel breve volgere di un anno e mezzo, si sono verificati eventi che ripetono o rievocano alcuni dei maggiori rivolgimenti del passato. Sviluppatasi in Cina, l’epidemia è rapidamente diventata pandemia. Tutti i paesi del mondo hanno dovuto affrontare le stesse circostanze. Se i problemi erano eguali (prevenire e curare), le soluzioni sono state spesso divergenti o con tempistiche diverse. Esse hanno spesso richiesto la chiusura delle frontiere. Di qui un misto di universalismo e nazionalismo. Ora, nuovi poteri si affacciano, altri si indeboliscono o escono di scena. Come si riorganizzano le autorità pubbliche, gli organismi globali, gli stati, gli organi sub-statali? Sotto quali spinte? Quale è la nuova dislocazione del potere? Muove nella direzione della ri-statalizzazione (come affermano coloro che sostengono che ritorna in campo lo stato), oppure nel senso di un rafforzamento della globalizzazione, o almeno della ricerca di nuove forme di collaborazione a livello sovrastatale o, invece, è vero che il potere si sposta a livello più locale, regionale?


Una risposta a questi interrogativi è importante perché spesso, nel passato, accadimenti fondamentali non furono notati dai contemporanei. Ad esempio, quello che successe nel settembre del 476 d.C., cioè la caduta dell’impero romano d’Occidente, che era durato 1.303 anni, passò fra la totale indifferenza dei contemporanei – l’osservazione è di Lellia Cracco Ruggini, Come Bisanzio vide la fine dell’impero di Occidente, in La fine dell’impero romano d’Occidente, Roma, Istituto di studi romani, 1978, p. 72 – e l’importanza di quella cesura venne colta solo qualche decennio più tardi, tanto che un grande studioso come Arnaldo Momigliano ha scritto un saggio intitolato La caduta senza rumore di un impero nel 476 (in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie III, 3, 2, 1973, pp. 397-418). Per questo motivo, è importante sentire l’opinione di un globalista, di un europeista, di uno statalista e di un regionalista. 

GlobalistaLa grande nave Ever Given, che si è incagliata nel marzo del 2021 nel canale di Suez, è giapponese, ma di proprietà di una compagnia taiwanese, gestita da un’impresa tedesca, con equipaggio indiano, e si è bloccata in territorio egiziano. Già solo questo dovrebbe consentire di capire che la globalizzazione è un processo inarrestabile. Ma ci sono altri elementi per dimostrarlo. L’Organizzazione mondiale della sanità è stata un riferimento per tutti gli stati durante la pandemia e la stessa produzione dei vaccini, pur nazionale, ha avuto una destinazione mondiale, perché ha dovuto tener conto di una richiesta universale. Le unioni settoriali, di tipo governativo e di tipo non governativo, si sono moltiplicate. Organizzazioni transnazionali si trovano ormai dovunque e lo stesso fenomeno si ripete nel mondo della scienza, dove ogni disciplina ha una sua proiezione internazionale in quelle che vengono definite società epistemiche. La forza della globalizzazione è anche dimostrata dalla debolezza o dai fallimenti degli stati. Basta pensare alla rapidità con la quale è evaporato lo sforzo di alcuni degli stati più potenti del mondo, durato 20 anni, in Afghanistan.

Statalista: Macché globalizzazione! Sono le grandi potenze statali a dominare il mondo. È cambiato l’aspetto dimensionale. Mazzini, nell’800, poteva identificare nella dimensione nazionale (a quell’epoca 30-40 milioni di abitanti) la soglia minima per la formazione dello stato-nazione. Oggi le dimensioni sono necessariamente maggiori, anche perché bisogna tener testa alla rinascita della Cina, un impero piuttosto che uno stato, con alle sue spalle una durata superiore a quella dell’impero romano d’Occidente, una struttura multinazionale, ma ferreamente dominata, al centro, da una potente e meritocratica burocrazia (leggere Daniel A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, tradotto in italiano a cura della Luiss University Press, Roma, nel 2019, con una prefazione di Sebastiano Maffettone: un libro molto discusso e criticato, ma molto utile per avere una chiave per la comprensione della struttura pubblica cinese). Comunque, è lo stato che riprende piede. Due esempi simmetrici sono, in Italia, la normativa sulla “golden share” e quella in corso di esame sulla delocalizzazione. La prima introduce una barriera statale agli investimenti stranieri in Italia. La seconda introduce una barriera statale agli investimenti delle imprese italiane all’estero. Mi sembrano due ottimi esempi di colbertismo allo stato puro.
Europeista. Ma gli stati-nazione non bastano più. La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, fondata sui 193 stati membri, riflette poco la realtà del potere del mondo. Vi sono stati che non hanno struttura di nazione, perché composti da etnie o da governi regionali e vi sono stati che sono troppo piccoli per dimensione per poter interloquire in un mondo di giganti. Di qui sia l’importanza di unioni di stati a livello regionale, sia il carattere recessivo della reviviscenza di regionalismi subnazionali, come quello catalano o quello scozzese. Il vero vincitore, nella vicenda della pandemia, è stata l’Unione europea: ha emesso titoli di debito pubblico, (eurobond) e i fondi raccolti sono stati distribuiti in maniera diseguale tra gli stati membri. È diventata acquirente unico dei vaccini, poi distribuiti agli stati nazionali. In particolare, l’avere acquisito uno “spending power” ha enormemente rafforzato l’Unione europea. Quindi, con la pandemia essa ha fatto un salto in avanti, non un salto indietro, come molti dicono. Inoltre, non bisogna dimenticare quello che è stato acutamente osservato da Nicola Verola in un fondamentale libro intitolato Il punto di incontro. Il negoziato nell’Unione europea, edito dalla Luiss University Press nel 2020, che l’Unione europea è un insieme di negoziati, con un enorme intreccio di interessi, spesso divergenti, ma tenuti insieme da un interesse superiore, quello di non far cadere l’Unione.

Statalista: Ma se non ci fossero stati gli stati, come poteva essere fatta la vaccinazione e, prima ancora, chi poteva assicurare il rispetto delle complicate regole alle quali tutti abbiamo obbedito, durante il cosiddetto lockdown?

Regionalista: Il vero potere non va cercato né a livello sovranazionale, né a livello statale, bensì a livello locale, nella dimensione regionale. Le regioni non hanno deluso le aspettative. Hanno sopportato tutto il peso del contrasto alla pandemia, è a livello regionale che si sono registrati i maggiori successi. 

Statalista: Se la risposta di alcune regioni, tuttavia, è stata efficace, non lo è stata quella di altre regioni. In secondo luogo, la diversa velocità realizzativa e la diversa capacità amministrativa delle regioni, nonché la loro continua contrapposizione allo stato, hanno prodotto un forte lacerazione nel tessuto di organismi che sono definiti, in tutti i paesi, “nazionali”, proprio perché hanno due caratteristiche: sono a rete, diffusi sul territorio, e assicurano prestazioni essenziali per realizzare diritti fondamentali dei cittadini, che non possono essere differenziati zona per zona. Penso alla sanità, all’istruzione, nonché alla protezione civile e alla statistica. Gli anelli di congiunzione che dovrebbero assicurare uniformità di prestazioni nella rete sono venuti a mancare perché vi sono troppe asimmetrie tra le regioni e tra le regioni e lo stato, e perché vi è stata una assenza di quella solidarietà orizzontale che avrebbe potuto assicurare il tessuto connettivo di cui c’era bisogno per un’impresa nazionale a cui concorrevano sia poteri statali, sia poteri regionali. Bisogna quindi ricostituire il tessuto lacerato e questo non può essere fatto che a livello nazionale, per iniziativa dello stato. Un altro motivo della debolezza delle regioni è costituito dal fatto che i poteri pubblici più vicini ai cittadini sono i comuni ed è sui comuni che si scarica la richiesta dei servizi più essenziali da parte dei cittadini. Per questo, non si capisce perché vi sia stata tanta insistenza da parte dei presidenti delle regioni nel sottolineare che gli enti che essi gestiscono sono quelli più vicini al cosiddetto territorio, cioè alla popolazione. Inoltre, in tutto il mondo  acquistano importanza le grandi città: come nell’impero romano, erano le civitates che contavano. Due esempi: l’associazione di 200 città di 38 paesi, che coinvolge una popolazione di 130 milioni di persone, costituita nel 1986 con il nome “Eurocities”, e l’atto antisovranista firmato da molti sindaci di più città a Budapest il 16 settembre scorso. Infine, la storia e le tradizioni locali giocano un ruolo molto importante e quindi vi sono regioni amministrate meglio e regioni amministrate peggio, con conseguenze negative sulla fruizione delle prestazioni essenziali. Questo è un vero paradosso, perché proprio le istituzioni che dovrebbero assicurare l’uguaglianza sostanziale finiscono per essere causa di diseguaglianze.

Globalista: Alcuni fenomeni si ripetono a più livelli. Anche nella dimensione globale c’è sempre un problema di ottimo equilibrio tra un minimo di uniformità e il rispetto della molteplicità e della diversità. Lo stesso problema si è posto negli stati: in Francia e in Germania per secoli vi sono state costellazioni di poteri locali, più o meno tenuti a freno da regole generali uniformi imposte dalle necessità militari e finanziarie.

Statalista: Ma per i governi settoriali globali (commercio, lavoro, ambiente, sanità, uso degli oceani, eccetera) è facile dettare principi e standard, difficile farli rispettare, e ancora più difficile renderli coerenti con quelli dettati dagli altri regolatori globali settoriali. Mancano regole di secondo livello, cioè regole sulle regole.

Globalista: In alcune aree, questa difficoltà è superata stabilendo legami, “linkages”: un sistema di regole fa riferimento a un altro sistema di regole, e viceversa (ad esempio, gli standard dettati dall’Organizzazione mondiale del commercio debbono andar d’accordo con quelli fitosanitari dettati da altre autorità globali). Così norme globali si rafforzano reciprocamente, traendo vigore ed efficacia concreta l’una dall’altra.

Statalista: Ma non riescono a perdere la loro debolezza di fondo, prodotta dalla legittimazione solo indiretta, attraverso gli stati, e dall’eccessivo ricorso a procedure di tipo giudiziario, che sono necessariamente caso per caso, lente, interstiziali, incrementali.

Globalista: Vorrei introdurre una nuova prospettiva, quella che il grande storico francese  Fernand Braudel chiamava la  “longue durée”. Questi mutamenti nella dislocazione dei poteri non si producono sul tempo breve. Vanno valutati sulla lunga durata. Organi globali, imperi, stati, regioni, nascono, si sviluppano, decadono nell’arco di un lungo spazio di tempo e, quindi, questa analisi deve tener conto di qualcosa di più del dell’ultimo anno e mezzo. Per questo oggi molti studiosi si interrogano su perché le istituzioni falliscono. 

Regionalista: Questi interrogativi sono prevalentemente rivolti allo stato. Basta ricordare il libro di Daron Acemoglu e di James Robinson, intitolato Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità e povertà,  uscito negli stati Uniti nel 2012 e tradotto in italiano nel 2013 per i tipi del Saggiatore e quello successivo degli stessi due autori, intitolato La strettoia. Come le nazioni possono essere libere, uscito negli Stati Uniti nel 2019 e pubblicato in Italia nel 2020 sempre dal Saggiatore. Quindi, bisogna partire dalla obsolescenza dello stato. La regione rappresenta il futuro, non è piccola come il comune, non è grande come lo stato. Ha quindi le dimensioni  adatte a raccogliere la domanda delle collettività. Può essere più facilmente valutata dalle collettività territoriali.

Globalista: Se lo stato è in crisi, la regione è ente di dimensioni troppo ridotte per essere presente e far sentire la propria voce in un mondo sempre più comunicante. Inoltre, per tornare all’argomento della decadenza, non si riflette abbastanza sui cicli di vita dei poteri pubblici. Faccio un esempio. Nello stesso anno, il 1776, venne dichiarata l’indipendenza degli Stati Uniti dall’impero britannico, Edward Gibbon pubblicò il libro famoso sul declino e la caduta dell’impero romano e Adam  Smith il suo libro ancora più famoso sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Bisogna ricordare che i due studiosi britannici, uno scozzese, l’altro inglese, autori di quei libri, si conoscevano e ambedue si ponevano lo stesso interrogativo. Gibbon redasse la sua storia – ha scritto Arnaldo Momigliano nel suo dotto e acuto saggio Edward Gibbon fuori e dentro la cultura italiana, in La fine dell’impero romano d’Occidente, Roma, Istituto di studi romani, 1978, p. 11 e seguenti – quando l’Inghilterra stava perdendo il suo impero in America e scrisse in una lettera che il declino dei due imperi, quello britannico e quello romano procedeva di pari passo. Diderot, nel suo messaggio del 1778 agli insorti americani, osservò che tutte le cose del mondo sono destinate ad avere una nascita, un periodo di vigore, una decrepitezza e una fine. Una  visione forse un po’ troppo deterministica, ma confortata da molte esperienze vissute nella storia del mondo. È importante accertare le logiche interne che hanno eroso le grandi accumulazioni di potere. Come è noto, Gibbon pensava a più cause, il cristianesimo, la formazione di un esercito professionalizzato, la sua divisione in milizia di palazzo e milizie confinarie, la situazione morale dell’impero romano, la degradazione dei commerci e l’incremento delle tasse.

Regionalista: Penso anch’io che sia il momento di studiare i cicli e i loro tempi, perché i cicli diventano più rapidi, lo spazio influenzato dai cicli di sviluppo e decadenza, le cause di questi fenomeni, le attese per l’inizio di nuovi cicli. Solo così si possono identificare quelli che gli tedeschi chiamano “Wendepunkte”, i punti di svolta. In quest’ambito, il ciclo delle regioni collocate negli stati nazione europei è nella fase iniziale.

Globalista: Ma, a loro volta, i cicli possono riguardare intere zone del mondo. Una intervista di Silvio Berlusconi al Giornale del 18 agosto scorso faceva riferimento alla “rassegnazione dell’Occidente”. Un articolo pubblicato sullo stesso quotidiano da Augusto Minzolini, il giorno prima, faceva riferimento specifico al famoso libro di Oswald Spengler sul Tramonto dell’Occidente e Carlo Bastasin nel 2019 ha scritto un libro intitolato Viaggio al termine dell’Occidente. La divergenza secolare e l’ascesa del nazionalismo (Luiss University Press). Da un secolo viene segnalato il tramonto dell’Occidente (Michela Nacci ha esaminato tutta la letteratura nel suo volume Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Torino, Loescher, 1982). Si tratta quindi di un’accelerazione di tendenze già evidenziate.

Statalista. Non si può negare che vi sia, in tutti i paesi, una tensione crescente tra due forze che vanno in direzioni opposte. Da un lato, verso l’alto, la verticalizzazione del potere. Dall’altro, verso il basso, la partecipazione popolare. La prima è prodotta da molti fattori, a partire dallo sviluppo di organismi sovranazionali nei quali può partecipare solo una persona in rappresentanza di uno stato, a finire con la dissoluzione quasi dovunque dei partiti politici, che sono diventati amebe (basta ricordare i continui rinvii, che fanno le forze politiche italiane, dei loro congressi, oppure l’inesistenza di una vera e propria organizzazione di partito, oppure il ricorso alla “agorà”, cioè la piazza, che è il riconoscimento dell’inesistenza del partito). La seconda è prodotta dai movimenti populisti che rinnegano la democrazia rappresentativa e propugnano forme di democrazia diretta (ad esempio, un ampliamento del ruolo e del ricorso al referendum). Dove possono trovare un equilibrio queste due forze, che spingono in direzioni opposte, se non nello stato?

 

Regionalista: Tirare una conclusione da queste diagnosi è molto difficile. Questo mondo dominato dalle asimmetrie e da interessi convergenti e divergenti, incerto sul peso che avranno nel futuro i vari poteri pubblici nel mondo, condurrà a una fase di passaggio in cui saranno prevalenti le “Politikverflechtungen” studiate dal sociologo tedesco Fritz Sharpf. Il futuro prossimo, quindi, vedrà un intreccio di  politiche integrative a più livelli, dove, come scrive Nicola Verola, la politica diviene “prolungamento dell’azione amministrativa” (questa osservazione è a p. 171 del libro sopra citato). Si decide collegialmente, partendo dal basso piuttosto che dall’alto, negoziando, con alcuni protagonisti che svolgono il ruolo di orchestrazione, ma debbono contare su bravi orchestrali. Questo presenta tutti i vantaggi della cooperazione e della continuità crescente delle politiche, a condizione che prevalga sempre l’interesse di fondo a cooperare e con gli svantaggi di una incerta dislocazione dei poteri.

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