Polizia a cavallo a Roma (LaPresse)

L'illuminista e il realista

La regola e l'eccezione

Sabino Cassese

Un anno vissuto sul filo di leggi ordinarie e norme speciali, in uno stato di emergenza continuo. Dinamica capacità di adattarsi alla realtà o vecchia abitudine italiana: non si fa nulla se non è urgente? Un dialogo 

Il viaggio è lungo. Le due persone sedute nel mio scompartimento hanno appena esaurito le loro conversazioni telefoniche. Si conoscono da tempo. Intessono un dialogo che merita di essere riferito, su un tema che sarebbe piaciuto agli illuministi francesi, quello della regola e dell’eccezione. Per questo, chiamerò l’uno l’illuminista, l’altro il realista.

 

L’illuminista. Non se ne può più di questa emergenza. È un accavallarsi di regole e di deroghe. Sembra di essere tornati al medioevo. Ci sono le norme ordinarie, quelle speciali, quelle straordinarie, quelle di emergenza, quelle temporanee. E questo stato di precarietà accentua la nostra cattiva abitudine: in Italia non si fa nulla se non è urgente, se non si esce dall’ordinario. Una nazione non può vivere continuamente nello stato di emergenza, deve riconquistare la normalità, se possibile più ordinata. 
Il realista. Ma tutto il mondo si è trovato in questa situazione. Non era previsto l’inizio e non si potevano prevedere i successivi svolgimenti.

 

L’illuminista. Emergenza non vuol dire uno stato permanente di incertezza. Poi, quando si è capito che siamo in presenza di una pandemia con più cicli, quelli che chiamiamo ondate, e che per fronteggiarla in maniera stabile è necessaria la vaccinazione, possiamo ancora dire che siamo in presenza di un fenomeno che “emerge”?
Il realista. L’ordinamento deve adattarsi alla realtà, per poter fronteggiare i pericoli che ne derivano. La sua resilienza sta proprio in questa capacità di adattamento dinamico, che si è realizzata modificando continuamente le norme o scegliendo le norme che più si addicevano al mutare delle situazioni concrete.

 

L’illuminista. Ma questo non spiega tutte le contorsioni che si sono registrate in quest’anno. Si prende una strada, poi la si abbandona per un’altra strada. Per esempio, per dichiarare lo stato di emergenza sono state adottate finora quattro delibere del Consiglio dei ministri del 31 gennaio, del 29 luglio, del 7 ottobre 2020 e del 13 gennaio 2021. Tutto questo in base all’articolo 24 del decreto legislativo 1 del 2018, per cui il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza di rilievo nazionale. Ma l’articolo 25 della stessa norma stabilisce che, una volta dichiarato lo stato di emergenza, si procede con ordinanze di protezione civile, in deroga a ogni disposizione vigente, con indicazione espressa delle norme a cui si intende derogare e con specifica motivazione. Ci si poteva aspettare, quindi, che venissero emanate ordinanze di protezione civile. Invece, sono stati adottati gli ormai famosi decreti del presidente del Consiglio dei ministri (dpcm), ben 24 dal 23 febbraio 2020 al 2 marzo 2021. Come si spiega questo cambiamento di rotta, rispetto alla legge sulla protezione civile?
Il realista. Probabilmente si è pensato che la pandemia fosse una calamità diversa dalle altre, più generale, che tocca una molteplicità di settori. Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo; ha quindi una competenza estesa a tutte le materie che comportano un intervento pubblico.

 

L’illuminista. Ma se si voleva far intervenire il governo, bisognava farlo nel modo prescritto dalla Costituzione, con un decreto-legge, lo strumento previsto “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Il decreto-legge avrebbe poi dovuto essere convertito entro 60 giorni in legge dalle Camere.
Il realista. Ma alla carenza dell’intervento parlamentare si è supplito, alla fine, con la “parlamentarizzazione” dei dpcm.

 

L’illuminista. Ma, imboccata la strada della “parlamentarizzazione”, bisognava seguirla. Invece, il governo Draghi ha pensato bene di fare un altro sfregio al sistema italiano delle fonti del diritto. Il decreto legge del 1° aprile 2021, numero 44, al primo comma dell’articolo uno, dà forza di legge al contenuto di un decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 2 marzo precedente. Poi, al secondo comma, rende possibili determinazioni in deroga alle disposizioni dettate dal decreto, successivamente “legificato” con un nuovo tipo di atto, la deliberazione del Consiglio dei ministri. Mike Bongiorno avrebbe detto: allegria!
Il realista. Se la pandemia segue una strada tortuosa, bisogna mettersi per la stessa strada.

 

L’illuminista. Un’altra contorsione o deroga del nostro ordinamento riguarda proprio l’utilizzo della legge sulla protezione civile. Questa è stata dettata per eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo. Prevede la gestione e il superamento delle emergenze. Stabilisce la tipologia delle emergenze, nazionali e locali, nonché estere, ma non elenca tra le emergenze quelle sanitarie. La riprova di questo sta nel fatto che, a metà del percorso, il 7 ottobre del 2020, il decreto-legge 125 ha tardivamente incluso le emergenze epidemiologiche tra quelle disciplinate dalla protezione civile.
Il realista. Anche questa correzione di rotta è comprensibile, visto che era la prima volta che si sperimentava una pandemia. La correzione è avvenuta con un atto legislativo, che ha integrato la disciplina legislativa della protezione civile del 2018.

 

L’illuminista. Le faccio un altro esempio dell’andamento irregolare nella gestione della pandemia. La norma sulla protezione civile è prevista per calamità che richiedono mezzi e poteri straordinari, per limitati e predefiniti periodi di tempo. Stabilisce che la durata massima sia di 12 mesi, prorogabili solo una volta per altri 12 mesi. In tutto questo periodo prevede che vi siano “commissari” che operano “in regime straordinario”, e regola il “rientro nell’ordinario”. La dichiarazione dello stato di emergenza, invece, nel caso della pandemia, è stata fatta per periodi più brevi, ma che si stanno prolungando. Quando avrà un termine? Quelle proroghe sono state fatte con motivazioni molto singolari, come quella dell’acquisto di nuovi banchi monoposto per le scuole e di mascherine, come se uno Stato moderno, che vanta di essere una delle maggiori potenze industriali del mondo, avesse bisogno della dichiarazione dello stato di emergenza per svolgere attività ordinarie come queste. Le ripropongo la domanda: dopo un anno di contrasto alla pandemia, possiamo dire che questa è ancora un’emergenza? E’ ancora un evento imprevedibile? O non dobbiamo, invece, fronteggiarlo con la strumentazione ordinaria che ha uno Stato?
Il realista. Osservazioni molto giuste. Ma non tengono conto del “tempo dell’apprendimento”. Anche i governi debbono imparare dall’esperienza. E questa, nel caso specifico, è stata fatta sotto la pressione di eventi molto gravi.

 

L’illuminista. Le mie critiche non si fermano qui. Perché si è fatto ricorso alle norme sulla protezione civile, se nel nostro ordinamento vi sono disposizioni, sia di legge ordinaria che della Costituzione, che regolano epidemie e casi eccezionali? Il testo unico delle leggi sanitarie del 1934 contiene più norme sulle epidemie. La legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale del 1978 prevede espressamente che il ministro che si chiama ora della Salute può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente in materia d’igiene e di sanità pubblica con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parti di esso comprendenti più regioni. Lo stesso possono fare i presidenti delle giunte regionali nelle singole regioni. Quindi, in presenza di eventi imprevedibili, sono disponibili  provvedimenti di carattere straordinario  di durata temporanea. Anche la Costituzione prevede specifici interventi in casi eccezionali: per esempio, in materia di libertà personale (articolo 13) e di indebitamento (articolo 81). Regola anche separatamente casi nei quali bisogna provvedere con urgenza, sotto la pressione della necessità. Anche la Corte costituzionale si è pronunciata in materia nel 1956 e nel 1995, stabilendo che gli strumenti eccezionali devono rispettare il principio di legalità, devono essere proporzionati, temporanei; che la legge deve disciplinare i poteri amministrativi, definendoli nel contenuto, nei tempi, nelle modalità di esercizio. Comunque, lo strumento c’è: il decreto-legge. Invece, si è fatto abbondante ricorso ai decreti del presidente del Consiglio dei ministri (dpcm) quasi che questi fossero provvedimenti normativi, naturalmente dell’esecutivo. Ancora una volta, così, il governo si è contraddetto, perché un dpcm in una materia di competenza concorrente, come la sanità, non può essere un regolamento dal momento che l’articolo 117.6 della Costituzione dispone che la potestà regolamentare nelle materie di competenza concorrente spetta alla regione. Allo Stato la potestà regolamentare spetta soltanto nelle materie di competenza esclusiva dello Stato stesso.
Il realista. Begli argomenti, ma molto astratti. Tutti i regimi derogatori, speciali, eccezionali, in Italia finiscono in gloria, cioè con diverse regole, straordinarie, di contabilità. Le norme del 2018 sulla protezione civile prevedono che, una volta dichiarato lo stato di emergenza, ci si possa servire del fondo per le emergenze nazionali. Inoltre, lo stato di emergenza è servito a portare nelle mani del presidente del Consiglio dei ministri le competenze in materia di intervento, proprio perché la struttura della protezione civile è incardinata a Palazzo Chigi.

 

L’illuminista. Non mi fermo qui nelle critiche a questo sistema doppio, triplo, quadruplo, di norme. L’emergenza ha suggerito anche altre disposizioni, di carattere temporaneo. Per esempio, il decreto-legge numero 76 del 2020 prevede che la responsabilità, ai fini dell’intervento della Corte dei conti,  è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. Questa norma dovrebbe servire a limitare l’intervento della Corte dei conti in materia di responsabilità ai soli fatti dolosi e a quelli omissivi (anche se la Corte dei conti stessa si è affrettata a dimostrare che la limitazione è più apparente che reale). Domanda: se si ritiene che l’intervento della Corte dei conti sia troppo ampio, perché è stata adottata una norma che si applica soltanto fino al 31 dicembre del 2021? Si ripropone qui una domanda generale. Perché ricorrere a norme derogatorie, speciali, eccezionali, invece di modificare quelle ordinarie, in modo da non creare due, tre, quattro regimi diversi, quando si riconosce che questi sono stati tutti adottati per abbandonare un regime ordinario troppo rigido e pesante? E l’altro caso di una norma del 2019, secondo la quale l’amministratore pubblico che vuole escludere la colpa grave deve richiedere il visto e la registrazione della Corte dei conti? Così abbiamo un nuovo tipo di amministrazione a geometria variabile, con controlli a richiesta dell’amministrazione. Non c’è una regola, ma tante procedure, determinate dalle richieste.
Il realista. Lei sottovaluta l’utilità che può avere, per l’amministrazione, il disporre di regimi diversi, in modo da adattarli alle diverse realtà che si presentano.

 

L’illuminista. E lei sottovaluta le complicazioni che derivano alle amministrazioni straordinarie. Pensi, ad esempio, alla Cassa per il mezzogiorno che era una organizzazione straordinaria. Una delle sue ragioni di crisi fu proprio dovuta al fatto che l’amministrazione ordinaria lentamente si ridusse. Alla fine del secolo scorso si dovette sopprimerla, salvo lasciare in vita alcune sue propaggini, come il Formez. Lo stesso pericolo corre il Piano nazionale di ripresa e resilienza oggi. Questo finanzierà molte iniziative, organi, dipendenti pubblici. Dopo il 2026, quando cesseranno i finanziamenti della “Next Generation Eu”, che cosa succederà? L’amministrazione ordinaria sarà capace e avrà i mezzi per accollarsi compiti prima svolti dall’amministrazione straordinaria?
Il realista. Ha fatto un esempio che mostra proprio l’utilità delle strutture straordinarie dello Stato, perché, per 15 o 20 anni, la Cassa per il mezzogiorno ha contribuito notevolmente allo sviluppo del Sud.

 

L’illuminista. Le faccio un altro esempio: il codice dei contratti pubblici prevede che vi siano opere ordinarie, opere “urgenti”, opere rese necessarie dall’“estrema urgenza”, opere di “somma urgenza”. Sulla distinzione si sono affrettate a discettare sia la giurisprudenza dei giudici ordinari e amministrativi, sia l’Autorità nazionale anticorruzione, scrivendo pagine che possono essere spiegate soltanto come eredità spagnolesca. Il vicepresidente dell’Associazione dei costruttori ha dichiarato che “le norme in materia di lavori pubblici sono solo ormai un guazzabuglio” e gli ha fatto eco il vice-ministro per le Infrastrutture, chiamandole “un labirinto” (Il Sole 24 Ore del 25 marzo scorso).
Il realista. Ma occorre riconoscere che, nella realtà, si presentano casi di questo tipo, di opere ordinarie, di opere necessarie  con urgenza, e di opere che è sommamente urgente realizzare.

 

L’illuminista. Consideri soltanto quali sono le conseguenze di tanti regimi d’eccezione, che sostituiscono la regola. Spesso essi occupano uno spazio più ampio di quello  occupato dalla regola: quindi, l’eccezione diventa la regola. Lasciano all’amministrazione una discrezionalità che confina con l’arbitrio. Sembrano voler limitare le scelte degli uffici pubblici, mentre ne aumentano le possibilità di scelta. Riferendosi al fascismo, Piero Calamandrei scrisse che era un regime a doppio fondo. Oggi dovremmo dire che abbiamo regimi a doppio, triplo, quadruplo fondo, sostanzialmente ipocriti. Un insieme di sistemi paralleli. Inoltre, più si regola, per indirizzare e contenere gli uffici pubblici, più si è costretti a fare ipotesi e contro – ipotesi e sotto – ipotesi, per tener conto di una realtà molto complessa. Insomma, si produce l’effetto di ridare alla pubblica amministrazione quella libertà di manovra che si voleva eliminare e, negli uffici pubblici retti dagli infingardi, di bloccare.
Il realista. Non le sembra di rimanere prigioniero del mito dell’unità del diritto, quando la società, i poteri pubblici, la globalizzazione spingono nella direzione della pluralità dei diritti?

 

L’illuminista. L’esistenza di più diritti, in vista dell’emergenza, dell’urgenza, dell’eccezionalità delle situazioni (e le loro varianti), è cosa  ben diversa dal pluralismo giuridico. Una delle più grandi conquiste della modernità è l’uniformità normativa: pensi al codice napoleonico. Vogliamo tornare all’ordine giuridico medievale? Il pluralismo contemporaneo comporta una coralità di apporti, non la differenziazione. L’ha scritto molto bene la Corte europea dei diritti dell’uomo in una sentenza del 13 febbraio 2003 nel caso “Refah Partisi”, pronunciandosi contro la pluralità di sistemi legali, che avrebbe diviso in sezioni la società. Aggiungo che un diritto diviso in tante regole diverse non è forte, ma debole: pone da solo le premesse della sua scarsa forza. Inoltre, corpi normativi troppo frammentati si aggiungono alle frammentazioni territoriali e finiscono per dividere le società.
Il realista. Ma è proprio questa frammentazione che ha consentito allo Stato italiano di andare avanti. L’idea nittiana degli enti pubblici, non è anch’essa ispirata all’idea della frammentazione? Dove non funziona uno Stato, non è utile avere anche un parastato?

 

L’illuminista. Guardi l’altra faccia della medaglia. La pubblica amministrazione non è stata riformata proprio perché si è sempre fatto ricorso a surrogati, ad alternative. Se invece di costituire tanti corpi fuori e intorno allo Stato, si fosse riformato lo Stato, non sarebbe stato meglio? Noi oggi ci ritroviamo non con uno, ma con due, tre Stati diversi, con due o tre, e qualche volta quattro o cinque, complessi di norme sullo stesso oggetto. E’ il dominio della “ad-hoc-crazia”; a ogni intoppo, una soluzione diversa. Solo per aggirare le difficoltà, perché le forze potenti della conservazione, e talora la potentissima forza dell’inerzia,  non consentono di modificare le regole generali, si moltiplicano quelle speciali.
Il realista. Discorsi teorici. Anche la politica, prima tenuta insieme dalle grandi ideologie, che assicuravano anche gerarchie di valori, oggi non fa programmi generali, raccoglie sentimenti (anche contraddittori) della società, li fa valere, li “canonizza” in norme.

 

L’illuminista. Anche questo è un aspetto negativo del mondo contemporaneo: abbandonata la piramide a favore della rete, ora si abbandona anche la rete a favore dell’arcipelago (per i due primi modelli, mi riferisco a un’opera ben nota, di dieci anni fa, De la pyramide au réseau ? Pour une théorie dialectique du droit, di due notissimi studiosi belgi, François Ost e Michel Van de Kerchove, edito dalla loro università, Facultés Universitaires Saint-Louis Bruxelles - F.U.S.L). Nell’arcipelago non c’è comunicazione, solo  frammentazione. Per il pubblico, la cittadinanza, poi, questa frammentazione si presenta come un labirinto incomprensibile, un intrico di linee e di macchie di colore, molto simile a un quadro di Jackson Pollock.
Il realista. Basterebbe modificare la Costituzione e prevedere a livello costituzionale norme che riguardano l’emergenza, oppure le situazioni eccezionali, come hanno fatto molte costituzioni moderne.

 

L’illuminista. Si farebbe ancora peggio. Basta pensare all’esperienza recente dell’Ungheria e dell’Algeria. Si aprirebbe la strada a un uso promiscuo di concetti come emergenza, urgenza, eccezionalità, consentendo interventi dell’esecutivo. La Costituzione italiana del 1948 prevede poteri in casi specifici in cui si possono operare interventi per necessità e urgenza. Ad esempio, l’articolo 13, in materia di libertà personale, dispone che si  possa intervenire con provvedimenti amministrativi provvisori “in casi eccezionali di necessità ed urgenza”, oppure l’articolo 77, dove, con la stessa dizione, si consente al governo di legiferare in via provvisoria, ricorrendo ai decreti legge.
Il realista. Tutte ciance. Restiamo con i piedi per terra. Perché crede che tante persone ripetano che occorre seguire l’esempio del ponte di Genova?

 

L’illuminista. Ha fatto proprio l’esempio sbagliato. A parte tutti gli altri motivi per i quali non è replicabile l’esempio di Genova, se si segue l’esempio di un modello eccezionale, si rinuncia per sempre a modificare le procedure ordinarie. Se le procedure ordinarie fossero esse stesse rapide, che bisogno ci sarebbe di procedure eccezionali o derogatorie? Ogni norma derogatrice, eccezionale, urgente, è un segno di impotenza a modificare le regole, quelle che dovrebbero funzionare ogni giorno.
Il realista. Lei, quindi, vorrebbe procedure rapide che consentano di affrontare sia le circostanze ordinarie che quelle straordinarie.

 

L’illuminista. Sì, come il principio di eguaglianza richiede che vi sia una legge uguale per tutti, allo stesso modo, lo stesso principio richiede che vi sia una legge per tutti i casi simili. Visto che stiamo per arrivare, e che la nostra conversazione è divenuta di passo in passo più generale, le ricorderò le battute finali di un’opera molto nota di un illuminista, Denis Diderot, del 1773, Entretien d’un père avec ses enfants ou du danger de se mettre au-dessus des lois: “Mon père, c’est qu’à la rigueur il n’y a point de lois pour le sage… - Parlez plus bas… - Toutes étant sujettes à des exceptions, c’est à lui qu’il appartient de juger des cas où il faut s’y soumettre ou s’en affranchir. - Je ne serais pas trop fâché, me répondit-il, qu’il y eût dans la ville un ou deux citoyens comme toi ; mais je n’y habiterais pas, s’ils pensaient tous de même”.

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