Giuseppe Conte (Ansa)

Quasi quasi mi faccio partito

Francesco Cundari

Da Berlusconi a Segni, da Antonio Di Pietro a Giuseppe Conte. La tentazione della politica è mettersi in proprio

Dai primi anni Novanta a oggi il fenomeno ha assunto una certa regolarità: dipenda dalla crisi dei partiti, dall’affermarsi della società dello spettacolo, dal modo tutto particolare in cui le due cose si sono intrecciate in Italia, sta di fatto che nella vita di un personaggio pubblico che acquisti un minimo di popolarità, prima o poi, arriva sempre il momento in cui qualcuno – gli amici, gli osservatori, i rivali – comincia a mormorare, poi a ripetere ad alta voce, infine a gridare ogni cinque minuti: “Vuole farsi un partito”.

 

Dal pubblico ministero divenuto famoso per le sue inchieste all’economista chiamato a salvare la patria dalla crisi finanziaria, dal politico di lungo corso tentato di mettersi in proprio al principiante catapultato dal caso alla guida del governo, chi prima e chi dopo, ciascuno a un certo momento ha dovuto fare i conti con le aspettative dei seguaci e i timori dei rivali, e prendere una decisione.

 

Modello irraggiungibile, e causa d’infinite illusioni nei futuri e meno fortunati epigoni, è ovviamente Forza Italia, invenzione di Silvio Berlusconi, il pioniere che ha scritto il copione e fissato per sempre regole, formule e lessico del nuovo ruolo: l’annuncio della “discesa in campo”, il crescendo di sondaggi inverosimili sulla sua popolarità e su quella della sua ancora inesistente formazione (sembra incredibile, oggi, ma prima di lui in politica di sondaggi non parlava praticamente nessuno, e non è che stessimo tanto peggio), la posa dell’imprenditore – nel suo caso, ma sarebbe andato benissimo anche per il magistrato, il professore, il tecnico – “prestato alla politica”.

Con tutto il classico repertorio del partito personale, proprietà privata del leader, detentore del marchio e padre padrone della sua creatura, allora motivo di infinite polemiche, oggi (purtroppo) regola assai più che eccezione dell’intero sistema politico. Ed è significativo che uno dei primi a seguirla, quella regola, sia stato proprio Antonio Di Pietro, che pure sull’antiberlusconismo avrebbe fondato tutte le sue fortune politiche, dopo l’improvviso abbandono della magistratura, la breve tentazione di accettare il posto da ministro (agli Interni) offertogli proprio da Berlusconi, quindi l’elezione alle suppletive del Mugello con il centrosinistra, i sei mesi appena alla guida del dicastero dei Lavori pubblici nel primo governo Prodi, le nuove dimissioni e infine, nel 1998, la fondazione del suo partito personale, ovviamente oggetto di anticipazioni, sondaggi e retroscena sin da quando “il pm simbolo di Mani Pulite” era ancora in magistratura: l’Italia dei valori. Fondato il 21 marzo 1998 a Sansepolcro (il paese, in questo caso, non la piazza) e affondato da un’inchiesta di Report, quando si dice la nemesi, il 28 ottobre 2012, data in cui comincia di fatto la sua marcia da Roma (intesa come sede del parlamento, in cui non riuscirà più a entrare).

 

Curiosamente, praticamente nello stesso momento, al termine del 1993, vale a dire proprio mentre il pubblico ministero Antonio Di Pietro assurge al massimo della popolarità, prendono forma i due esempi più estremi del fenomeno di cui stiamo parlando, nell’ampio spettro che va dal clamoroso successo di Forza Italia, inizio della trentennale avventura politica berlusconiana, al clamoroso fiasco di Mario Segni

 

Se infatti quello del Cavaliere di Arcore resterà per sempre come il punto di riferimento, l’irraggiungibile modello aspirazionale, l’asintoto del politico (e del partito) autoprodotto, per torme di imprenditori e per ogni altro genere di personaggio deciso a “prestarsi alla politica” (e che in gran parte la politica non ha tardato a restituire alla società, all’economia e in qualche caso anche alle patrie galere), all’estremo opposto Mario Segni rappresenterà a lungo il monito, l’esempio da non ripetere, il caso d’insuccesso più travolgente e spaventoso. 

 

Proprio lui: l’eroe eponimo dei referendum che avevano dato avvio alla demolizione della deprecata Prima Repubblica. Dalla prova generale del 1991, con il quesito su un dettaglio apparentemente minore come la preferenza unica (quello che Bettino Craxi sottovalutò con il suo celebre ”Italiani, andate al mare”, dichiarazione a cui sarà impiccato, prima ancora degli avvisi di garanzia e di tutti gli scandali successivi), fino all’assalto decisivo del 1993, compiuto con i referendum maggioritari che scardineranno definitivamente la repubblica dei partiti, avviando la stagione del bipolarismo di coalizione.

 

Piccola nota per i lettori più giovani: è vero, ho parlato sbrigativamente di referendum maggioritari, come se un quesito potesse proporre una nuova legge elettorale, mentre sappiamo che la Costituzione prevede solo referendum abrogativi, ma spiegare come e perché il principio da allora in poi è stato sistematicamente aggirato, cioè violato, con un sapiente gioco di ritagli e pressioni extra-legali ci porterebbe troppo lontano (diciamo per brevità che i costituzionalisti e gli altri studiosi di sistemi elettorali saliti allora agli onori delle cronache stanno alla crisi della Prima Repubblica dei primi anni novanta come i virologi stanno alla pandemia del 2020).

 

Figura laterale della Dc – figlio d’arte, d’accordo, ma di un artista passato ai libri di storia per vicende non proprio gloriose, come quelle del piano Solo e del golpe De Lorenzo – Segni balza improvvisamente in primo piano, raccogliendo le firme e organizzando le truppe per quella che poteva apparire come la più insulsa, donchisciottesca e fallimentare delle battaglie, e che invece si rivelerà la breccia capace di far crollare un intero sistema. Del resto, il muro di Berlino è crollato da poco più di un anno, tra il referendum sulla preferenza unica e quelli per il maggioritario esplode l’inchiesta Mani Pulite sulla corruzione politica, nel 1992 ci sono le stragi di mafia in cui vengono assassinati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: tutto insomma sembra convergere verso una crisi di sistema. 

 

In ogni caso, che si tratti di fiuto, fortuna o semplici coincidenze – il seguito della storia, a onor del vero, porterebbe a escludere le prime due ipotesi – in quel breve e concitatissimo volgere di anni, tra la crisi della Prima e la nascita della Seconda Repubblica, Segni è di gran lunga il politico più popolare d’Italia, al quale non c’è partito o nascente coalizione di partiti che non si offra in sposa, portandogli in dote come minimo la candidatura alla guida del governo (lo so, la Costituzione non prevederebbe neanche questo, ma se volevate un corso di diritto costituzionale non sono la persona qualificata, e per la maggior parte delle persone qualificate vale la parentesi precedente, quindi se tenete davvero a queste cose il mio fraterno consiglio è di emigrare). 

 

Non c’è giornalista, conduttore televisivo, corsivista che non ripeta, quasi fosse scontato, che l’80 per cento degli italiani vorrebbe Segni presidente del Consiglio (i primi sondaggi politici cominciavano così la loro brillante stagione). Per farla breve, quando infine l’eroe dei referendum del l’91 e del ‘93, al centro di tutte le possibili combinazioni politiche, dopo avere lasciato la Dc, dopo avere fatto nascere e poi abbandonato Alleanza democratica, si deciderà a fondare il Patto Segni, con cui si presenterà alle elezioni del 1994, le prime con il nuovo sistema elettorale con collegio uninominale, in alleanza con il Partito popolare, si fermerà al 4 per cento come partito e al 16 come coalizione (dietro il centrodestra berlusconiano e l’alleanza progressista occhettiana), perdendo persino nel suo collegio di Sassari. Subendo così anche l’onta di riuscire a entrare in parlamento soltanto grazie al recupero in quella quota proporzionale da lui giudicata un inaccettabile cedimento alle forze della reazione (non per niente la sua avventura riformatrice era cominciata nella Lega per il collegio uninominale voluta da Marco Pannella, dal quale si separerà però poco dopo, a quanto racconterà in successive interviste, per non dover fare le riunioni con Cicciolina, l’ex pornostar eletta in parlamento con i radicali: perché un democristiano, alla fine, resta sempre un democristiano).

 

Se questo dunque è lo schema generale, divenuto la norma sin dai primi anni novanta, da quando cioè l’esplosivo miscuglio di maggioritario (segnismo), giustizialismo (dipietrismo) e televisione (berlusconismo) ha espiantato i tradizionali partiti di massa dal nostro panorama politico e favorito la proliferazione di partiti personali, negli ultimi tempi se ne è venuta affermando una variante tutta particolare, con le sue regole specifiche, le sue formule e le sue liturgie: il Partito di Riserva.

 

Mentre infatti nei casi sopra ricordati, con la parziale ma peculiarissima eccezione di Segni, il nuovo partito coincideva con l’ingresso in politica, qui il processo si inverte. Qui è il politico affermato – e più che affermato: già leader di partito, se non direttamente presidente del Consiglio – che comincia a proiettare su sostenitori e rivali, alleati e avversari, ora come promessa ora come minaccia, la “tentazione” di farsi un “suo partito”. 

 

Vedi il caso di Mario Monti, che con Segni non ha in comune solo il nome di battesimo: anche lui accolto da sondaggi che lo danno all’80 per cento, da giornalisti che arrotondano volentieri a cento, da partiti di destra e di sinistra che gli fanno la ola. Corteggiato da tutti, ma in particolare dal centrosinistra di Pier Luigi Bersani, che si immolerà fino all’ultimo nel sostenerlo a Palazzo Chigi, anche Monti deciderà infine di farsi il suo proprio partito, Scelta civica, che si presenterà in coalizione assieme a varie formazioni centriste (“Con Monti per l’Italia”). Con i risultati che tutti ricordano, e se voi adesso non ve li ricordate avete pure le vostre ragioni, considerato che non ne è rimasta traccia (né del partito, né della coalizione).

 

Forse però il vero caso di scuola di Partito di Riserva è quello di Matteo Renzi. Dall’inizio della sua scalata ai vertici del Pd, dalle prime polemiche innescate dalla sua clamorosa intervista sulla “rottamazione” del gruppo dirigente alla sua sconfitta alle primarie con Bersani nel 2012, e via via per tutto l’arco della sua rapidissima carriera, non si contano i sodali, gli ammiratori, gli analisti politici, i cantanti, gli attori e gli sceneggiatori che hanno profetizzato, temuto, implorato che pure lui, una buona volta, mollasse i democratici per farsi “il suo partito”. Tutti convinti, persino tra i più accesi disistimatori (che peraltro nella fase ascendente della rottamazione erano pochini assai), che una volta libero dalle pastoie del vecchio apparato, dalle insidie delle mai abbastanza demonizzate correnti, il giovane rottamatore avrebbe preso il volo. In nome della disintermediazione, dell’uomo solo al comando, della leadership. Fatto sta che con il Pd Renzi è arrivato al 40 per cento (peraltro nell’unica tornata elettorale con sistema rigorosamente proporzionale e nessuna coalizione di mezzo, le europee del 2014, ma questa è un’altra storia) e quando infine si è deciso a farsi il suo partito, Italia viva, non è detto che raggiunga lo 0,4.

 

E poi, naturalmente, c’è il caso di Giuseppe Conte, che di questa tradizione riassume in sé, a suo modo, cioè paradossalmente, tutti gli elementi fondamentali: giustizialista, come Di Pietro, eppure avvocato; alla guida di un partito-azienda, come Berlusconi, eppure al tempo stesso in guerra con l’azienda suddetta (a cui vorrebbe sfilare il partito); popolarissimo in tutti i sondaggi, come Segni, ma ancora da testare alle elezioni; insediato direttamente a Palazzo Chigi per la sua prima esperienza, come Monti, ma pure lui deciso a proseguire la corsa con un suo partito. Populista e sovranista con i gialloverdi, europeista e riformista con i giallorossi, padre dei decreti sicurezza con Matteo Salvini, punto di riferimento di tutti i progressisti con Nicola Zingaretti, padre nobile e ora rifondatore del grillismo con Vito Crimi, e chissà quanti dei suoi primi compagni di strada.

 

Perché qui, come sempre, sta l’inghippo. Quanto il “neomovimento” di cui l’Avvocato del popolo ha parlato giovedì sera in streaming sia simile al vecchio, salvo il non trascurabile dettaglio dell’addio a Davide Casaleggio, alla Casaleggio Associati e all’associazione Rousseau, e quanto invece non sia a tutti gli effetti il suo partito personale, di cui tanto si è favoleggiato e sondaggiato in questi mesi, non è ancora chiaro. Quel che è chiaro, perché lo ha ripetuto e spiegato lo stesso Conte, è il senso della promessa – “Io ci sono, io ci sarò” – formulata all’indomani della crisi del suo governo.

 

“Non voleva essere una minaccia – ha spiegato infatti giovedì ai parlamentari Cinque stelle collegati con lui – voleva essere il chiaro senso di un impegno, anche perché, dietro questa affermazione, non c’era in realtà un’idea precisa sul mio esserci, essere con voi, ma avvertivo netta l’intuizione, la intima convinzione che un mio impegno personale in politica non poteva che partire da questa esperienza comune, da questa fruttuosa collaborazione”. E che sia stata una collaborazione fruttuosa nessuno può onestamente metterlo in dubbio. Tutto sta a capire, come sempre, per chi.