L'ad della Rai Fabrizio Salini (foto LaPresse)

Le due ipotesi sulle quali si attorciglia il nuovo debole equilibrio Rai

Valerio Valentini

Per sostituire la governance della tv pubblica servirebbe un atto d'imperio del ministro Gualtieri. Che però in caso di azzeramento del cda si esporrebbe a possibili ritorsioni legali dei consiglieri defenestrati

Roma. Ci sono circostanze in cui le reazioni di chi ascolta fanno più rumore delle parole di chi parla. E così ieri pomeriggio, quando è arrivata la presa di posizione di Fabrizio Salini (“L’eventualità che io mi dimetta è del tutto esclusa”), in parecchi, tra i corridoi di Viale Mazzini e quelli di Montecitorio, hanno reagito con un’alzata di sopracciglio. Quasi che quel chiarimento, giunto dopo giorni di enigmatico silenzio dell’ad della Rai, venisse interpretato come il segnale di un quadro politico che fatica a ricomporsi, e dunque a definire i termini di un’operazione tra le più delicate che esistano, e cioè dare un nuovo assetto alla tv pubblica. “Quel che è certo - dice un vecchio dirigente Rai - è che quando cambiano gli equilibri politici, a Viale Mazzini o ci si adegua o ci si ammutina”. E dunque la stranezza, semmai, sta nell’indolenza con cui la maggioranza giallorossa, ribaltato il tavolo del grilloleghsmo, abbia assistito, per quasi un anno, alla progressiva paralisi di quella che si pretende “la più grande industria culturale del paese”. E al tempo stesso si comprende l’estrema resistenza di chi, all’improvviso, vede l’entropia della politica rimettersi in moto in maniera scomposta. Per questo Salini indugia, tentenna, cerca una soluzione che possa garantirgli una fuoriuscita dignitosa, ora che si sente scaricato perfino da quel Luigi Di Maio che nei colloqui privati ne disconosce la paternità. S’era parlato di Netflix come possibile approdo, o magari di una ricollocazione interna alla Rai. Ma ci sarebbe anche un’altra via d’uscita, che ha il nome di una città australiana ma che in realtà fa riferimento a un’azienda britannica: la Freemantle, colosso della produzione televisiva che anche in Italia sforna format di successo, che poi è la vera passione di Salini. 

 

 

“Ma il paradosso - s’infervora allora Michele Anzaldi, membro di Iv nella commissione di Vigilanza - è che qui se ne andrebbe l’ad, che è comunque espressione di un partito di maggioranza come il M5s, e resterebbe il presidente di stampo leghista: e cioè quel Marcello Foa che a detta di tutti, dal Pd ai grillini, non è ritenuto un presidente di garanzia, e che nella storia della Rai resterà per essere stato il primo presidente mai ricevuto al Quirinale, per via delle ingiurie che scriveva sui social all’indirizzo del capo dello stato”. Sì, perché la soluzione più raffazzonata rischia di essere anche l’unica che una politica debole, priva di visione e di coraggio quando si parla di Rai, voglia prendere in esame. E cioè una sostituzione apparentemente indolore dell’ad, lasciando invariato il resto della governance. Del resto, si tratterebbe di reclutare un manager disposto ad assumere un incarico di un solo anno, quello che manda alla conclusione del mandato di Salini, col tetto al compenso di 240 mila euro, e soprattutto capace di districarsi nel ginepraio sconclusionato e balcanizzato che è ormai il cda. Uno insomma come Nicola Claudio, magari, che oltre a essere presidente di Rai Cinema è anche direttore della governance e già a capo della segreteria del cda, dunque avvezzo agli equilibrismi e alle mediazioni necessarie. 

 

 

Salvo che non si ponga una questione di genere: e a quel punto la scelta potrebbe ricadere su Eleonora Andreatta, direttrice di Rai Fiction, figlia di quel Beniamino padre spirituale della sinistra Dc e dunque cara a una larga fetta del Pd, ma con buona reputazione anche presso il grillismo di governo; oppure su Maria Pia Ammirati, già vice direttrice di Rai 1 e ora a capo della sezione Teche.

 

Federico Fornaro, capogruppo di Leu alla Camera e membro della Vigilanza, prova a sottrarsi al tritacarne del totonomi. “Il punto vero è che un’eventuale uscita di scena di Salini determinerebbe, a un anno dalla sua scadenza naturale, una oggettiva necessità di cambiamento dell’intero cda, a cominciare dal presidente Foa. Alla Rai, specie in una fase come questa, serve visione: e sarebbe nell’interesse dell’azienda, dunque, avere un nuovo vertice aziendale (ad, presidente e cda) con davanti a sé una prospettiva triennale e non il fiato corto di qualche mese”. Servirebbe, però, un atto d’imperio del governo, e in particolare del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che però, malignano alcuni, in caso di azzeramento del cda si esporrebbe poi a possibili ritorsioni legali dei consiglieri defenestrati anzitempo. “E però sarebbe l’unica soluzione per chiudere questa sciaguratissima stagione della tv pubblica”, dice Giorgio Mulè, rappresentante forzista in Vigilanza. “Del resto, Gualtieri vuole affermare il principio dello stato azionista: perché dovrebbe rifiutarsi proprio in un’azienda dove ‘azionista’ il governo lo è per legge, come la Rai?”.

Di più su questi argomenti: