Matteo Renzi (foto LaPresse)

“La politica non è vendetta”. Renzi si ferma sulla soglia della sfiducia a Bonafede

Matteo Renzi

Italia viva vota contro le mozioni presentate dal centrodestra e da +Europa. L'ex premier: “Non è il giustizialismo che ci guida, ma la giustizia. Se c'è un sospetto, chi è pulito non si deve dimettere”

Signor presidente, signor presidente del Consiglio dei ministri, signor ministro della Giustizia, onorevoli colleghi, credo che se votassimo oggi, secondo il metodo che ella, signor ministro della giustizia, ha utilizzato nella sua esperienza parlamentare, nei confronti dei membri dei nostri governi, lei oggi dovrebbe andare a casa: Angelino Alfano, Federica Guidi, Maria Elena Boschi, Maurizio Lupi, Luca Lotti, Claudio De Vincenti. Ma noi non siamo come voi!

  

 

  

Signor ministro, mi auguro che questa vicenda che l'ha colpita – e sulla quale non ho dubbi, anche per conoscenza personale, nel dire che lei tutto è, tranne che una persona avvicinabile dalla mafia – la possa far riflettere, innanzitutto dal punto di vista personale, e possa far riflettere i colleghi del MoVimento 5 Stelle. Essere additati ingiustamente, andare sui giornali, costringere le proprie famiglie a stare sui giornali e a subire l'onta di un massacro mediatico fa male. Passi la notte a pensare che è colpa tua, se le persone a te vicine, le persone che ami, stanno male.

 

Vi invito soltanto a fare una riflessione personale su questi temi e poi vengo alla politica, perché è la politica ciò che ci guida, non il populismo, non sono i sondaggi, ma i dati. I sondaggi ti dicono quanto sei simpatico, i dati ti dicono quanto sei competente. Non è il giustizialismo che ci guida, ma la giustizia. Siccome partiamo dalla politica, nell'annunciare che voteremo contro le mozioni di sfiducia, riconosciamo al centrodestra e alla senatrice Bonino di aver posto dei temi veri. Occorre, anche in momenti di difficoltà, riconoscersi reciprocamente e dire che le vostre mozioni non erano strumentali. Lo faccio, dicendovi che non le voteremo. Non le voteremo per motivi politici e in primis per ciò che ha detto il signor presidente del Consiglio.

 

Il presidente del Consiglio dei ministri ha detto con chiarezza che, ove vi fosse stato un voto, di una parte della maggioranza, contrario all'operato del ministro o favorevole alla mozione di sfiducia, egli ne avrebbe tratto le conseguenze politiche. Quando parla il presidente del Consiglio, si rispetta istituzionalmente e si ascolta politicamente. Credo che lei si assuma una responsabilità, signor presidente del Consiglio, ma noi la seguiamo, perché in un Paese che conta circa 31.000 morti, che ha l'11 per cento di deficit stimato per quest'anno, che vede il debito pubblico andare verso il 160 per cento del pil, in cui la disoccupazione è prevista, per la fine dell'anno, al 15 per cento, chi di noi si ritiene un patriota istituzionale, chi di noi crede alla ragion di Stato, rispetta ciò che dice il presidente del Consiglio, se fa parte della maggioranza.

  

 

  

Da questo punto di vista, lo dico condividendo larga parte delle riflessioni della senatrice Bonino. Non lo dico quindi con un giudizio di merito, su cui arriverò tra un attimo, ma lo dico per un fatto politico e, mentre lo dico, riconosco al presidente del Consiglio di avere, negli ultimi giorni, dato dei segnali importanti. Abbiamo molto apprezzato la sua posizione sull'imposta regionale sulle attività produttive (Irap), abbiamo molto apprezzato la sua battaglia di legalità a fianco del ministro Bellanova e abbiamo apprezzato l'accelerazione sulle riaperture. Tuttavia, signor presidente del Consiglio, c'è ancora molto da fare, perché nel momento in cui ella decide di porre tutto il peso della sua autorevolezza politica a fianco del ministro della Giustizia, di certo non lo fa per una stima personale o professionale che pure noi, dai tempi di Firenze, ricordiamo, ma lo fa per un fatto politico. Noi dobbiamo essere conseguente con lei e dirle, signor presidente del Consiglio, che se il ministro della Giustizia ci avesse ascoltato, nel mese di febbraio 2020, sul Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), ciò che è accaduto sulle scarcerazioni non sarebbe avvenuto.

E dirle, signor presidente del Consiglio, che a noi non interessa un sottosegretario; a noi interessa che si sblocchino i cantieri e che si sblocchino velocemente. Se noi non sblocchiamo i cantieri, quel 15 per cento di disoccupazione si avvia verso il 18 o il 20.

 

 

E dirle, signor presidente del Consiglio, che quando noi portiamo delle idee non stiamo, come dice qualche suo zelante collaboratore, cercando la visibilità (anche perché spesso sono idee che portano una visibilità negativa), ma stiamo cercando di affermare dei concetti. In quest'Aula – lo rivendico, signor presidente – quando ho chiesto, in tempi non sospetti, di pensare alla riapertura delle scuole, ho sentito i mugugni non solo degli altri gruppi, ma persino del mio gruppo. Tuttavia posso dire oggi, a distanza di un mese, che se noi consideriamo la scuola la prima cosa da chiudere, prima delle funivie, e l'ultima da riaprire, dopo i pub, noi diamo un segnale diseducativo ai nostri figli, un messaggio sbagliato alle nuove generazioni.

Dirlo non è fare polemica o cercare lo 0,1 per cento in più di consenso; dirlo significa fare politica. Noi rivendichiamo il diritto, in quest'Assemblea, di dirle che la seguiamo sulla sua valutazione politica, ma vi chiediamo un'assunzione di responsabilità.

 

Vengo al secondo punto per il quale non votiamo a favore delle mozioni. Esso ha a che fare, signor ministro della Giustizia, con il rapporto tra garantismo e giustizialismo. Signor ministro, noi ci conosciamo da qualche anno e lei sa perfettamente che non è mai stato neanche immaginabile, per lo meno da parte mia, che una vendetta potesse essere servita su un vassoio così d'argento: ella attaccato dai giustizialisti. Peraltro non entro nel merito delle discussioni, ma siccome più di uno in quest'Aula ha citato il giudice Di Matteo, cui va il nostro rispetto e l'augurio di buon lavoro, permettetemi, per aver vissuto una certa pagina di storia di questo paese, di esprimere un pensiero affettuoso al senatore, presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano: lui sa perché e voi sapete perché.

Il fatto che qualcuno mugugni sul presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano vi qualifica per quello che siete e non vi fa rendere ragione dell'importanza di alcuni passaggi storici in questo Paese. Ma de minimis non curat praetor.

 

 

Vengo al punto, invece. Signor ministro, avrebbe mai potuto immaginare – visto che ci confrontiamo da qualche anno, lei e io, a Firenze come a Roma – una occasione di vendetta così chiara? Ma lei e io – tutti noi – abbiamo un compito: spiegare alle nuove generazioni che la politica non è vendetta. Non si fa politica con un risentimento personale. Non si fa politica pensando di affermare una legge del taglione, dell'occhio per occhio, dente per dente. I ragazzi che ci seguono e che seguono questo dibattito sappiano, signor ministro della Giustizia, che certe sue espressioni sul giustizialismo ci hanno fatto male. Lei, nel gennaio 2016, in un'intervista ad Annalisa Cuzzocrea, diceva che, se c'è un sospetto, anche chi è pulito si deve dimettere. No, signor ministro. Se c'è un sospetto, chi è pulito non si deve dimettere. Bisogna rifiutare la cultura del sospetto, quella che faceva dire a Giovanni Falcone che “la cultura del sospetto non è l'anticamera della verità: la cultura del sospetto è l'anticamera del khomeinismo”. Questo diceva Giovanni Falcone nel 1991.

 

Termino proprio su questo, perché mi piace pensare che, essendo nel mese di maggio, in cui tra qualche giorno ricorderemo ancora una volta il sacrificio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca e dei ragazzi della scorta, lei e io, signor ministro, non eravamo neanche diciottenni e molti di noi, in quest'Aula e forse anche fuori, hanno scelto il corso di laurea in giurisprudenza perché hanno visto in quella fase un momento terribile per la vita del paese. Ci siamo iscritti a giurisprudenza perché pensavamo che quello fosse un modo per dire che rifiutavano la cultura di morte che la mafia stava esprimendo. Erano gli anni in cui facevamo l'esame di maturità, avevamo sedici, diciassette, diciotto anni. Eravamo sconvolti di fronte al fallimento dello Stato. Ecco perché io non posso credere che qualcuno immagini che Alfonso Bonafede abbia stretto un qualche rapporto con la mafia. Contemporaneamente, però, voglio dire a tutti noi che quella battaglia contro la cultura mafiosa non ci deve vedere divisi.

 

Termino ricordando un fatto personale. Noi siamo garantisti, sì, ma – mi rivolgo agli amici del centrodestra – non vuol dire che siamo buonisti. Essere garantisti significa rispettare le regole e i diritti dei cittadini.

Quando però nel 2016, mentre ero presidente del Consiglio, l'allora Guardasigilli, il bravo Guardasigilli Andrea Orlando venne a dirmi: “Abbiamo un problema, Matteo, sta morendo Bernardo Provenzano; ci viene chiesto di farlo morire a casa” e ipotesi identica si verificò l'anno successivo a proposito di Totò Riina, con un altro presidente del Consiglio, l'onorevole Gentiloni, e sempre con il ministro Orlando, noi che siamo per la giustizia, non per il buonismo, abbiamo preso l'impegno di garantire a Bernardo Provenzano e a Totò Riina il massimo delle cure possibili perché noi eravamo, siamo e saremo lo Stato. Bernardo Provenzano e Totò Riina, però, sono morti in carcere perché quello era il loro posto e questo non è buonismo, è giustizia.

  

Signor ministro, sulla questione delle scarcerazioni c'è stata troppa superficialità da parte del Dap. Signor Ministro, sulla questione della prescrizione, del processo penale, del processo civile, c'è ancora molto da fare.

Signor Ministro, faccia il Ministro della giustizia, non il Ministro dei giustizialisti e vedrà che ci avrà al suo fianco.

Di più su questi argomenti: