C'è da augurarsi che quello di Genova diventi un modello per la ripartenza italiana (foto LaPresse)

E' ora che lo stato si fidi dei suoi cittadini

Claudio Cerasa

Cosa vuol dire fare come la Svizzera? Le energie del paese si possono sbloccare solo non facendo più sentire gli italiani dei furfanti fino a prova contraria. Ecco la vera manovra che serve al governo: non fare più dell’immobilismo l’unica forma di legalità consentita

In tempi di grave crisi economica, tempi come quelli che purtroppo stiamo vivendo, la parola “fiducia” tende a diventare una parola più importante del solito. E quando un paese già molto indebitato è costretto a risolvere i suoi problemi indebitandosi ancora di più ha solo una possibilità di affrontare il futuro senza rischiare il collasso e quella possibilità coincide con la capacità di alimentare un sentimento di fiducia: indebitarsi più del dovuto non è un dramma, in una stagione pandemica, a condizione però che coloro che accettano di scommettere sul tuo debito pubblico, continuando ad acquistare titoli di stato, abbiano la certezza che lo stato onorerà i suoi impegni. La parola fiducia però, specie in tempi di grave crisi economica, è una parola con la quale uno stato deve fare i conti anche per una ragione diversa, e molto importante, che a certe condizioni può essere persino più decisiva di una manovra finanziaria: la capacità di uno stato di liberare le migliori energie non facendo più sentire i suoi cittadini e i suoi imprenditori come dei furfanti fino a prova contraria.

 

Sotto questa prospettiva, il concetto di fiducia assume una dimensione diversa che si sposta dall’idea di dover trasmettere fiducia all’idea di doversi fidare dei cittadini. Il ragionamento in questione diventa improvvisamente concreto se si prova a mettere a fuoco quello che si presenta oggi come il principale ostacolo per la ripresa del nostro paese: la presenza di una burocrazia asfissiante, ostaggio di una repubblica giudiziaria fondata sulla cultura del sospetto, che, facendo di ogni cittadino un furfante fino a prova contraria, ha contribuito a trasformare l’immobilismo nell’unica forma di legalità consentita. E’ anche per questo che negli ultimi giorni il sistema di finanziamento garantito a favore di imprese e partite Iva danneggiate dall’emergenza coronavirus non è riuscito a decollare: se l’aiuto offerto alle imprese di cui già si conosce la difficoltà economica può essere interpretato come il tentativo di posticipare un dissesto – e può essere dunque considerato come un concorso in bancarotta preferenziale o in bancarotta semplice – ci si può stupire che i soldi che dovrebbero arrivare ai cittadini faticano ad arrivare?

 

E’ anche per questo che molti imprenditori oggi sono fortemente tentati dal ritardare il ritorno alla nuova normalità: se il prossimo decreto del governo confermerà ciò che è stato già previsto nel decreto “Cura Italia”, ovverosia che il contagio da Covid-19 di un lavoratore può essere configurato come infortunio sul lavoro con tutte le conseguenze anche di carattere penale per il capo di un’azienda, ci si può stupire del fatto che alcuni industriali per non rischiare la pelle scelgano di restare chiusi più a lungo del dovuto? E’ anche per questo che trovare oggi le mascherine non è così semplice come lo potrebbe essere in paesi con una burocrazia più efficiente: in un paese in cui la cultura del sospetto prevale sullo stato di diritto può succedere quello che stiamo vedendo in questi giorni ovverosia che la fissazione di un prezzo imposto di 0,50 euro da parte di un commissario finisca per inibire di fatto la vendita a molti distributori, esponendoli a problemi amministrativi e a rischi penali.

 

E’ anche per questo che buona parte della classe dirigente italiana si augura che il modello snello di burocrazia seguito per ricostruire il ponte di Genova diventi un modello meno straordinario e più ordinario: in un paese in cui i tempi di realizzazione delle infrastrutture sono di circa 3 anni per opere inferiori ai 100 mila euro e più di 15 anni per le grandi opere (oltre 100 milioni di euro); in cui le attività delle conferenze dei servizi, i controlli della Corte dei conti e i ricorsi al Cipe contribuiscono a far consegnare circa il 54 per cento delle opere in ritardo sui tempi; in cui ogni tentativo della politica di velocizzare la realizzazione di un’opera può essere configurata come se fosse un abuso di ufficio; in un paese in cui succede tutto questo può stupire che le uniche opere consegnate in tempo e persino in anticipo siano quelle fatte in deroga che permettono cioè ai coordinatori dei lavori di muoversi con assoluta e totale libertà potendo per l’appunto derogare, a partire dal codice degli appalti, tutte le norme dell’ordinamento italiano, a esclusione di quelle penali, e ponendo come unico paletto i princìpi inderogabili dell’Unione europea e quelli costituzionali?

 

Nella prossima manovra del governo ci saranno probabilmente molti soldi, molte iniziative importanti, molte misure fondamentali, molte idee di buon senso, ma ciò che una classe dirigente con la testa sulle spalle dovrebbe capire con una certa urgenza è che per avere un paese capace di fare quello che molti di noi hanno visto accadere in Svizzera in questi giorni, dove i prestiti alle imprese vengono erogati con grande rapidità, nel giro di 24 ore, occorrerebbe avere un paese disposto a pacificarsi con i suoi cittadini attraverso una grande rivoluzione più culturale che finanziaria: deregolamentare provando a fidarsi, prevedendo al posto di lacci e lacciuoli preventivi che imbavagliano tutto semplicemente sanzioni molto pesanti per chi imbroglia. Non ci può essere alcuna ripresa se non si creano tutte le condizioni necessarie a evitare che l’immobilismo continui a rappresentare, in Italia, l’unica forma di legalità consentita. Ma se c’è una lezione che il nostro paese può trarre dalla stagione della pandemia è che l’Italia ha una comunità matura, disciplinata, pronta a rischiare e a liberare le sue energie a condizione che vi sia uno stato disposto a fare quello che oggi non sembra avere ancora intenzione di fare: semplicemente fidarsi dei suoi cittadini. Verrebbe da dire: se non ora, quando?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.