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Piano con l'ecobonus

Carlo Stagnaro e Edoardo Zanchini

Un incentivo che supera il valore delle opere diventa regalo e distrae risorse da altre finalità più urgenti

Un bonus del 110 per cento per chi investe in efficienza energetica. La promessa lanciata dai Ministri Stefano Patuanelli e Riccardo Fraccaro (che inizialmente avevano addirittura fissato l’asticella al 120 per cento) è solo apparentemente un paradosso matematico. L’idea nasce dalla volontà di rilanciare cantieri che oggi procedono troppo lentamente, mandando un segnale forte al settore delle costruzioni e alle famiglie. In teoria tutto bellissimo, se non fosse che il nostro paese sta attraversando uno dei momenti più difficili per l’economia e per il bilancio dello stato con un debito monstre che, secondo le previsioni di primavera della Commissione europea, arriverà al 160 per cento del pil. E, dunque, adelante cum juicio. Qual è infatti il senso di mettere completamente a carico dello stato interventi privati, dentro le case e nei condomini, in un paese che nei prossimi anni avrà difficoltà a garantire il funzionamento di ospedali, scuole, infrastrutture?

 

Non vogliamo mettere in dubbio l’interesse pubblico che esiste a sostenere questi interventi, ma oggi grazie alla riduzione dei costi delle tecnologie nella maggior parte dei casi basterebbero detrazioni molto più basse. Il miglioramento delle prestazioni energetiche delle abitazioni produce sia benefici diretti per chi effettua l’investimento, sia esternalità positive a favore di tutti. E’ ragionevole che la fiscalità compensi queste ultime, anche perché il Piano energia e clima adottato a gennaio assegna alla riduzione degli sprechi nei consumi civili una grande parte nella nostra strategia di decarbonizzazione. Ma non si può chiedere ai contribuenti di pagare due volte il costo degli interventi, addirittura con un credito d’imposta superiore al loro valore nominale.

 

L’ecobonus esiste dal 2007 e, pur avendo subito diversi cambiamenti nel tempo, richiede oggi di essere ripensato. Ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di canalizzare meglio le risorse, non quello di trasformare un premio già generoso in una rendita bella e buona. Già oggi l’Italia mette a disposizione gli incentivi più vantaggiosi al mondo, che arrivano al 75 per cento di detrazione fiscale, ed è stata anche introdotta la cessione del credito per aiutare chi non ha liquidità sufficiente da anticipare. Se i cantieri non partono la ragione non può dunque essere che mancano i soldi. Semmai, la complessità delle procedure, le difficoltà di accesso al credito da parte delle famiglie, la burocrazia non aiutano. Non si può pensare di cavarsela spingendo il credito d’imposta fino al 110 per cento. Bisogna impegnarsi a identificare e rimuovere gli ostacoli esistenti.

 

Abbiamo, insomma, l’obbligo di essere efficienti non solo nel consumo di energia, ma anche nell’utilizzo dei soldi pubblici. Questo obbligo diventa ancor più pressante nel momento in cui teniamo conto della condizione in cui ci troviamo, e dell’importanza che le decisioni assunte all’inizio della Fase 2 post coronavirus avranno nel determinare la qualità della ripresa economica. In questa prospettiva, l’ecobonus, più che incrementato, andrebbe ripensato con l’obiettivo di massimizzarne gli effetti. Negli scorsi anni, esso ha sostenuto oltre 4 milioni di interventi di vario tipo per un valore complessivo di circa 41,7 miliardi di euro di cui 24,1 miliardi detraibili, favorendo anche l’emersione di molto lavoro nero. Sappiamo però che è stata una politica relativamente poco mirata, almeno se guardiamo al costo sostenuto dalla collettività per tonnellata di CO2 abbattuta, proprio perché slegata da qualsiasi misura della riduzione effettiva dei consumi. Infine, sappiamo che il suo impatto è stato perlopiù regressivo: a usufruirne sono stati soprattutto i proprietari di immobili con disponibilità a spendere, quindi persone con redditi e patrimoni ben superiori alla media. La buona notizia è che i tempi di rientro di questi investimenti si riducono in tutto il mondo grazie alle innovazioni nei materiali e nell’organizzazione dei cantieri. Non solo, oggi è possibile anche calcolare quanto ogni intervento permette di ridurre i consumi nelle abitazioni, generando un vantaggio per chi vi abita oltre che contribuendo a una riduzione dell’inquinamento e delle emissioni.

 

La sfida sta qui, nel capire che non tutti gli interventi sono uguali: bisognerebbe distinguere (e premiare di più) quelli – sia privati che pubblici - che generano maggior beneficio sociale. In nessun caso l’incentivo dovrebbe superare il valore delle opere, anche perché a quel punto diventa un regalo e distrae risorse da altre finalità ugualmente (o più) importanti. Per esempio la riqualificazione energetica di scuole e ospedali o un grande piano di sostituzione dell’illuminazione pubblica, che potrebbe generare – in tempi brevi – importanti riduzioni della spesa pubblica oltre che dei consumi energetici e delle emissioni. L’edilizia scolastica, in particolare, sta emergendo come uno dei potenziali ostacoli (ma anche dei potenziali volani) della ripartenza: dovendo mettere mano agli immobili per garantire il distanziamento sociale, sarebbe assurdo non tagliare gli sprechi di energia. Ciò può implicare un maggiore costo dell’investimento iniziale: sarebbe assurdo trovare la coperta troppo corta da questo lato, perché la si è lasciata troppo lunga dall’altro.

 

Proprio per queste ragioni, caro ministro Patuanelli, è necessario che ogni proposta di utilizzo delle risorse pubbliche sia fatta oggetto di analisi scrupolose e pubbliche: tutti hanno diritto di capire la ratio dei provvedimenti, verificare quali e quanti benefici ne derivano e valutare in tal modo se si è fatto buon uso dei denari dei contribuenti.

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