Bettino Craxi (foto LaPresse)

Craxismo e soldi: appunti per gli ipocriti

Giuliano Ferrara

Per fare, bisogna avere. Per comandare, occorre disporre. Se non te ne occupi, lo farà l’avversario

Sempre lì si torna, Craxi e i soldi. Ciascuno ha diritto di ricordare di Bettino la politica, il carattere, perfino la vita privata, e ovviamente i sentimenti personali di chi gli era vicino per destino familiare o compagnonnage. Vent’anni dopo la memoria, come ha ricordato il leale Ugo Intini ieri, è selettiva: è un diritto di memoria, più che un dovere, l’evocazione di Craxi per come fu e per come lo si immagina. Io ricordo la sua disordinata, sfrenata passione per il denaro. Al secondo incontro personale, in casa di un mio congiunto, mi guardò sornione, me che ero allora da esule recente del Pci praticante a Reporter e destinatario di un’offerta di articolista per l’Europeo, e mi disse brusco: “Come stai a quattrini? Hai problemi?”. Superai l’imbarazzo dicendogli che me la passavo benone, gli stipendiucci anni Ottanta cominciavano a funzionare, e la mia fuga dal Partito comunista, anni prima, era stata protetta austeramente dalla mia meravigliosa famiglia.

  

 

Per Bettino il denaro era l’alfa e l’omega delle relazioni di potere. Era uno strumento decisivo. In questo quel capo politico, che di relazioni di potere appunto si occupava, non era particolarmente originale. Per fare, bisogna avere. Per comandare, occorre disporre. Se non te ne occupi, se ne occuperà il tuo avversario, interno o esterno al tuo partito. Devi intercettare il denaro prima che lo intercettino altri. E parliamo ovviamente di denaro in nero, esposto alla malversazione, al profittatore, al mediatore infido, come all’onesto e riservato lavoratore della fureria o della cucina politica. E la tua nomea di uomo più o meno forte, dunque incisivo, serio, responsabile, anche in rapporto ai finanziatori irregolari o illegali del sistema, che ipocritamente non ha mai previsto il fund raising all’americana, cioè il vero termometro dell’attivismo e del successo politici, questa nomea si consoliderà o si sfarinerà a seconda della tua disinvoltura e capacità di accumulare. Rubli, dollari, scissioni, piani casa, partecipazioni statali, cedolari secche, atlantismo, sindacalismo, apparati, boom, trasformazione e radicamento istituzionale della Repubblica, libertà per i polacchi e i cileni: tutto fu anche determinato da quello strumento stercorario, di cui tutti fecero uso, dai notabili del giro democristiano, senza eccezione alcuna (il grande e drammatico Aldo Moro, per esempio), fino ai notabili socialisti, da Nenni a Pertini a Mancini, fino ai notabili della rivoluzione comunista internazionalista, da Togliatti a Berlinguer compreso.

 

Per tanti motivi Bettino adorava gli ex comunisti, e aveva fissato la sua residenza romana, quella delle monetine, nell’albergo di uno di loro, uno dei migliori, Eugenio Reale. A lui piaceva l’ordine, la disciplina e la funzionalità dell’accaparramento politico come altra faccia della milizia politica, della strategia e della tattica, della solidarietà interna e internazionale, della commisurazione dei fini e dei mezzi. La tradizione comunista, che alla fine solo gli ex comunisti suoi amici esotericamente per lui rappresentavano, pianificava la tesaurizzazione politica affidata invece, in ambito socialista in particolare, alle aleatorie parabole di persone, gruppi, professionisti della società civile, in un caotico, spesso, e rutilante gioco di numeri al pallottoliere del finanziamento. Se ne occupava, tanto da far dire a quel cinico di Agnelli che alla fine era un uomo d’affari, perché sapeva bene che non era questione soltanto di tirare su un palco, di affittare una sala, affiggere manifesti, di pagare gli stipendi dell’apparato, anche quello, ma era soprattutto questione di promesse, di azione esperta sulle debolezze e sui bisogni umani, e sulla vanità che è sempre in fiera anche nei momenti alti della politica creativa. 

 

Con i quattrini si vincevano i congressi, si consolidavano le leadership, si impediva agli altri di tagliarti la strada e fotterti, si coagulava un blocco imprenditoriale e sociale tra industrie banche cooperative, si faceva integralmente politica, erano il complemento necessario delle buone idee, della capacità morale di unire per uno scopo forze sufficienti a realizzarlo.

 

 

Craxi non era affatto un corrotto, al massimo pasticciava dentro a questo mondo e progetto tutto politico, quelle di corruzione personale sono accuse derisorie affidate da anni a penne penosamente quattrinare. Uno degli articoli fatali di questo giornale fu il resoconto proprio nei primi giorni di uscita del Foglio di una intervista al magistrato D’Ambrosio capo del pool di Mani pulite, un duro di procura che escluse l’interesse personale di Bettino dal novero delle occorrenze in tutta la sua storia di politico. E fece scandalo. Diritto di memoria anche quello. Il denaro è corrotto e corruttivo in sé, questo si sa, eppure la corruzione c’entrava niente con il craxismo. Berlusconi fu il suo tycoon, perché gli altri avevano i loro e la televisione privata fu l’alternativa a quella di Bernabei.

 

Il senso di ingiustizia per come fu liquidato il miglior politico e l’ultimo della fase finale della Repubblica, che si respirerà domani nella cerimonia degli addii di Hammamet, sentimento comprensibile, non è passibile di trasformarsi in vittimismo delle mammolette. Che il convento fosse povero quando i frati erano ricchi può essere stato vero, nell’immaginifica versione che ne diede a un certo punto il leale Formica, ma l’Abate e i suoi sodali, e questo Formica lo sapeva, governavano il caos per generare l’ordine politico, il disegno, la giusta relazione di potere in relazione a fini importanti, decisivi, di pratica politica e di trasformazione.

 

 

Sono cose difficili da spiegare, da elaborare, perché il trucco machiavellico banale e volgare dell’ideologia benpensante vuole che la politica sia il regno puritano dei fini disinteressati, quando in quel regno si affermano solo mostruosità e crudeltà e nichilismi, come dimostra tra l’altro tutta la storia del Novecento, laddove la politica democratica, liberale, socialista, cattolica e riformista resta ancorata alla miseria strumentale di un metodo che non respinge la natura umana dal suo orizzonte. Sono passati vent’anni dallo scandalo, e si conferma nel tempo passato da allora quello che era stato vero sempre e sempre lo sarà nel tempo futuro: dove c’è potere di realizzare progetti e idee c’è il problema del denaro e degli altri strumenti utili a produrre un risultato, e chi dispone meglio di questi strumenti, sempre distribuiti più o meno ingiustamente quali che siano le regole, migliori o peggiori, ha partita vinta, ciò che negano solo gli ipocriti e gli ignoranti, che è il nostro caso.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.