Zingaretti voleva un congresso camomilla ma ha dato la RedBull alle correnti

Salvatore Merlo

Non galleggia, ma aleggia. Tra governo e Pd, il segretario ottiene sempre il contrario di ciò che vorrebbe. È il “Metodo Zinga”

Roma. Poiché non esercita la leadership “galleggiando”, ma “aleggiando”, come dicono persino i suoi amici, ecco che dopo la scissione renziana Nicola Zingaretti aveva proposto una specie di congresso al suo Pd agitato e tormentato anche dalla convivenza con i grillini. Una mossa aleggiante, appunto. Non proprio un congresso infatti, ma un “percorso congressuale”, diceva Zingaretti, un po’ carne un po’ pesce, in pratica una “cosa” per far decantare, sopire, sfogare i malesseri senza, tuttavia, nessuna reale conseguenza. Solo che, come spesso gli capita, le cose attorno a Zingaretti cominciano in un modo e finiscono in un altro. Dice per esempio Matteo Orfini, uno dei capi della minoranza: “Per quanto ne so io il congresso serve ad eleggere il segretario”. E Andrea Orlando è nato per questo.

  

Tra sorrisetti e smorfie, in Parlamento i deputati del Pd ormai da tempo maneggiano espressioni come “metodo Zinga”, che consisterebbe, in pratica, nell’operare con una certa sistematicità – pur senza mai troppo esporsi – in base a previsioni e orientamenti puntualmente smentiti dai fatti. Ovvero quella capacità rabdomantica di ottenere il contrario dell’obiettivo che ci si era prefissati in origine riuscendo tuttavia a farsi talmente remoti, distaccati, silenti, presenti eppure assenti, da far dimenticare a tutti persino di aver mai pensato il contrario di quello che poi è in realtà accaduto. D’altro canto Zingaretti non voleva un governo con i grillini (pur senza mai averlo detto esplicitamente), e poi si è fatto un governo con i grillini. Non voleva Giuseppe Conte a Palazzo Chigi (pur senza averlo mai detto esplicitamente), e Giuseppe Conte è rimasto a Palazzo Chigi. Aveva cercato di tenere fuori almeno Luigi Di Maio (pur senza averlo mai detto esplicitamente), e Di Maio è ovviamente diventato ministro degli Esteri. Sicché, adesso, quando lui fa capire (ma quasi non lo dice) che gli piacerebbe per esempio una riforma elettorale di tipo maggioritario, ecco che tutti sono sicuri che si farà il proporzionale. E la stessa cosa vale ovviamente per il congresso del Pd.

 

Era una manovra concordata con Dario Franceschini per tenere buona la minoranza, una specie di rito collettivo in modello Pci, quasi un congresso a tesi, chiacchiere e organigramma bloccato, e sta invece diventando un frullatore pazzo di idee e ambizioni dentro a quella stessa maggioranza “a canne d’organo”, come dice Goffredo Bettini, che aveva scommesso su Zingaretti segretario neanche sette mesi fa. E infatti le canne d’organo sono improvvisamente al quanto disallineate, al punto che Franceschini, preoccupato per gli effetti sulla stabilità del governo che tanto gli sta a cuore, vorrebbe adesso riavvolgere il nastro, ritappare la bottiglia, acchiappare uno per uno i buoi fuggiti dalla stalla. Ma… “serve un congresso vero”, diceva ieri Andrea Orlando, sul portone di Montecitorio, con l’aria del giocatore sapiente che raccoglie infine il frutto di una serie di mosse infallibili. Un congresso che preveda anche l’elezione del segretario? “Un congresso vero elegge anche il segretario”, ripeteva l’ex ministro della Giustizia, il cinquantenne ligure che ha rifiutato un posto al governo per occuparsi del Pd, il vicesegretario considerato l’ultimo “figlio del partito”, dove per partito si intende il Pci di Giorgio Napolitano e di Emanuele Macaluso, niente meno. Orlando, dunque, il predestinato, quello capace di muoversi con sicurezza nei cunicoli sotterranei che ancora collegano il partito eterno, capace di risvegliare un antico richiamo della foresta. Ma adesso anche Maurizio Martina si agita, con i suoi, poi pure i giovani turchi di Matteo Orfini, e il correntone che fu (è ancora?) di Matteo Renzi, insomma i ragazzi intorno a Luca Lotti e Lorenzo Guerini, che sfogliano la margherita dei loro segretari possibili in campo riformista: Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo che sarebbe la sorpresa estranea alla nomenclatura, poi Dario Nardella, il sindaco di Firenze, e Simona Bonafè, l’europarlamentare che già si sarebbe dovuta candidare contro Zingaretti al congresso di marzo prima che gli umori di Renzi cambiassero.

 

In mezzo a tutto questo caos che allude al principio di un principio (o al principio della fine), c’è lui: Zingaretti. Aleggiava sulle correnti con fare sedativo, voleva procedere con piedi di felpa e a fil di terreno, con un volatile zig zag, troncare e sopire, accontentare e sorridere, ma poiché il “metodo” è forse insmentibile, ecco che le correnti placide sono diventate un fiume esondato, chi dormiva si è svegliato, i pacifici si sono armati, e ora il congresso da lui evocato quasi piomba sul segretario, con un pezzo di carbone in mano, pronto a cancellarlo con un frego.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.