Matteo Salvini a Pontida nel 2018 (foto LaPresse)

I moderati per Pontida

Salvatore Merlo

Salvini prepara la piazza mentre la coalizione (Cav. compreso) tenta di riformattarlo. “Ora basta nemici”

Roma. “Il centrodestra è condannato a stare insieme”, dice Nello Musumeci, nel tono calmo di chi sa che la politica non è soltanto Instagram e Twitter. “Siccome nella nazione, fra la gente, il centrodestra è maggioranza morale, sarebbe davvero un suicidio non tradurre questo comune sentire di gran parte degli italiani in una rappresentanza di progetto politico (prima) e di forza parlamentare (dopo)”. E insomma, per il presidente della Sicilia – che l’anno scorso fu invitato da Matteo Salvini alla festa leghista di Pontida, “ma quest’anno non vado” – esiste una formula: la moderazione, la contaminazione con il centro, la capacità di articolare un linguaggio che non sia sempre e soltanto estremista. “La forza del centrodestra”, ripete Musumeci, “riposa nella logica di mettere assieme forze cosiddette moderate e forze che appaiono più radicali”. E non è certo un caso se ieri Salvini ha incontrato a Milano Silvio Berlusconi (il 27 ottobre si vota in Umbria e a fine gennaio in Emilia-Romagna), e se con il Cavaliere ha rinsaldato un accordo persino sulla legge elettorale (maggioritaria) che porterà anche Forza Italia in piazza il 19 ottobre contro il governo. Come pure non è un caso che il capo della Lega stia preparando un discorso di “prospettiva” – almeno così dice chi ci ha parlato – da pronunciare domenica a Pontida. Un discorso moderato? Veramente politico? Difficile immaginare Salvini che tra i vapori della Bassa non si abbandona alle iperboli. Pontida è luogo dalla vocazione guerriera e spettacolare, alimentata da gestacci, crocifissi, sfilate di miss, salsicce e braciole…

 

 

Eppure dicono che adesso Salvini stia scoprendo – forse perché messo nelle forzate condizioni di scoprirlo – come in certi momenti siano soltanto gli altri quelli che ti salvano; e per questo occorre essere, se non pacati, almeno disposti a riconoscere che si dipende un bel po’ dall’altrui disponibilità. “Fin qui ci siamo fatti soltanto nemici. In Europa, in Russia, negli Stati Uniti… e persino in Italia”, mormorava l’altro giorno Lorenzo Fontana, l’ex ministro, l’uomo che più di chiunque altro ha contezza dell’occasione perduta mesi fa quando saltò il negoziato con il Ppe per l’elezione di Ursula von der Leyen. Quando la Lega si scoprì isolata, sterilizzata con il suo napoleonico eppure inutile 33 per cento di voti. E allora domenica, tra le bandiere e i 250 pullman da tutta Italia, Salvini tenterà di risalire le scivolose pareti della politica. “I sacri vangeli li lasciamo al loro posto”, ha detto alla radio, “tirerò fuori un’idea”.

 

 

I suoi collaboratori, almeno quelli meno sbrigliati, pensano che si debba dare una calmata. Persino Riccardo Molinari, il capogruppo alla Camera, qualche giorno fa ammetteva che “prendere il 33 per cento dei voti ma non poterli utilizzare perché sei rimasto isolato è un paradosso”. E insomma: meglio prendere un po’ meno alle elezioni, ma poi incidere sulla realtà. I voti si prendono per esercitare potere, “non sono pennacchi”, rideva Roberto Maroni a cena con amici, mentre Giorgia Meloni sintetizza la caduta di Salvini definendolo “un situazionista”, cioè uno che le spara grosse e poi diventa vittima dei suoi stessi petardi. Ma pare che il situazionista abbia capito. “Però non deve modificare se stesso”, dice Musumeci, ben sapendo che non si può guarire da se stessi. “L’importante”, spiega quest’uomo che appartiene a una destra misurata e perbene, “è mettere insieme tutti i soggetti che si richiamano a una comune matrice alternativa alla sinistra. Anche le liste civiche, i movimenti locali e territoriali. Tutto per una solida alternativa di governo”. Cose che finora Salvini ha rifiutato, ritenendole polverose. “Non ho nostalgia del passato”, diceva.

 

 

Finché appariva invincibile, i dubbi sulle sue decisioni rimanevano confinati nei corridoi muti di Via Bellerio. Ma adesso qualcosa si è rotto, come un diaframma. E così domenica Salvini salirà sul palco sapendo che tutti ne soppeseranno i toni e le smorfie, gli accenti, per intuire se per caso – come sospettano alcuni – si sia spezzato l’incantesimo. E insomma non potrà permettersi d’essere fiacco com’è stato nei suoi ultimi discorsi durante la crisi di governo. Né tuttavia potrà ripetere parole d’ordine e disordine (sull’immigrazione e l’economia) che si sono svuotate di senso. “Tirerò fuori un’idea”, ha promesso. E chissà che non si trasformi, l’ex Truce.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.