L'accademese di Conte. Come parla il presidente del Consiglio

Carmelo Caruso

Il suo passato lo tradisce, ma lo protegge. Pomposo e solenne, il premier usa termini che “fanno fino” ma a volte finiscono per far sorridere. “La sua lingua è costretta a raffinarsi ancora”, dicono i linguisti

Ha promesso di prendersi “cura delle parole”, ma poi ha iniziato con il latino, proseguito con un po’ di inglese e ieri, Giuseppe Conte, più parlava e più si piaceva, ma forse rischiando di non farsi capire. Nuovamente premier, Conte ha dichiarato alla Camera di essere “mosso dal primario obiettivo del perseguimento dell’interesse” e che, grazie al lavoro, il cittadino sarà un essere “pieno iure” mentre l’Italia “una smart nation” e i giovani non se ne andranno perché avranno motivi per rimanere “hic optime”. Mesi prima aveva invece annunciato che “il clima era di un dialogo costruttivo, ma la trattativa oggettivamente complicata” e dunque “per varie ragioni non pienamente rispondenti” era costretto a “tornare a questo consesso”.

 

I linguisti hanno iniziato a studiare il codice di Conte e c’è chi come Massimo Arcangeli ne individua già le diverse età perché “rispetto alla lingua del Conte I, il Conte II alza l’asticella e strizza l’occhio al nuovo alleato di governo, il Pd. La sua lingua è costretta a raffinarsi ulteriormente”. Ordinario di Linguistica Italiana presso l’università di Cagliari, Arcangeli dirige un osservatorio permanente che studia le parole dei leader politici. Per Castelvecchi ha pubblicato “Il Renziario”, un dizionario sulla lingua di Matteo Renzi, “e in passato, con i miei colleghi, ci siamo concentrati sulla lingua di Silvio Berlusconi. In futuro pubblicheremo uno studio su quella di Beppe Grillo, il Grillario”.

 

E però, adesso c’è Conte, il premier che parla per un’ora e mezza (50.776 battute) e che promette di riformare anche il lessico (“sarà mite e sobrio”) e non più quello degli scorsi mesi che “non è stato rispettoso”. È tornata l’antilingua di Italo Calvino ovvero mai dire con tre parole chiare e semplici ciò che si può dire con dieci, complicate e oscure? “Sicuramente è un lessico di retroguardia e inverte un processo che era iniziato con Berlusconi continuato con Renzi e infine accentuato con Salvini. Con Conte non è tornata l’antilingua, ma è evidente che ci sia una cura maggiore per le sfumature. Cerca di recuperare un pizzico di complessità che sa essere stata sostituita da un ragionare senza ragionare. Forte è in lui l’identità di professore”.

 

Conte non solo non la dimentica, ma a volte la esaspera e la lingua si arrampica fino all’inedito “coagulare un tavolo”. Parlano così i professori? “È vero che il rischio è recuperare inutili formalismi. Ci sono alcune parole che sono tessere lessicali, spie di una lingua inutilmente pomposa. Ma non è burocratese. Possiamo invece chiamarlo ‘accademese’ ”. Qual è la differenza con il politichese? “Il politichese è astratto mentre l’accademese è pomposo e solenne. Conte usa termini che si direbbe “fanno fino” e che a volte finiscono per far sorridere. Io credo tuttavia che la sua non sia ricerca ma eredità, il bagaglio che continua a portarsi dietro dall’università: non riesce o forse non vuole liberarsi. Il suo passato lo tradisce, ma lo protegge”.

 

Arcangeli ha anche esaminato il linguaggio non verbale di Conte e dunque il movimento delle mani così come il suo vestire. “Ha fatto dell’aplomb la sua cifra personale ed è stato un modo per evidenziare una speciale alterità. Nel linguaggio di Berlusconi c’era l’eco del marketing, in quello di Renzi c’era l’anglismo esagerato. In Conte c’è l’eco dei saggi universitari. Quando si ascolta Conte viene da pensare alla lingua della Dc, ma in realtà non parla come Amintore Fanfani e il suo lessico non è irto come quello di Aldo Moro”. Il pericolo non è sempre l’oscurità? “Il pericolo è forse il latinorum. Quando non è utilizzato nel giusto contesto si rivela soltanto inappropriato. Ma Conte sa di rivolgersi a due pubblici diversi”. Per Arcangeli, il vocabolario manierato di Conte non è altro che il tentativo di rivolgersi all’élite che parla la sua stessa lingua e che vuole essere rassicurata. “I politici dimenticano che c’è la piazza, ma anche un ceto colto, finanziario che nelle parole di Conte ritrova una grammatica, regole e vecchio mondo. È quella élite che disprezza la comunicazione rude di Matteo Salvini o l’inglese di Renzi. Conte ha recuperato lo snobismo” pensa sempre Arcangeli.

 

Da mesi, il professore seziona i testi del premier con l’occhio studioso del filologo ed è convinto, anzi, già annusa un’evoluzione, un ribaltone lessicale. “Il Pd è un partito che ha una caratura diversa rispetto alla Lega. Il premier ne è consapevole e non a caso si sta già servendo di parole care alla sinistra”. Ieri ha citato la filosofa Hannah Arendt e poi ha fatto sue le parole del socialista Giuseppe Saragat, “fate che il volto di questa repubblica sia un volto umano”. Vuole prendere la tessera del Pd? “Si trova già a suo agio con questo partito perché gli riconosce complessità, capacità argomentative maggiori”. Non è che vuole fare soltanto il furbo? “Infatti lo promuoviamo con la sufficienza. Gli riconosco però un merito. Sta recuperando parole desuete”. Ieri era ‘esiziale’! “Può costringere la politica e il giornalismo a inseguire la sua lingua”. Dobbiamo iniziare a parlare e scrivere come il “professor, avvocato, Giuseppe Conte? “Di questi tempi non è altro che un buon augurio”.

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