Matteo Salvini (foto LaPresse)

Giustizia, Ilva e lavoro: le follie gialloverdi che la Lega s'illude di correggere

Valerio Valentini

Dalla prescrizione al dl dignità: la vana convinzione leghista di rimediare ai guai

Roma. L’avevano liquidata con una battuta, i leghisti, quella mezza mostruosità che pure avevano deciso di ratificare approvando insieme agli alleati grillini la sospensione della prescrizione. “Tanto dopo le europee si rifaranno i conti”, sogghignava in Transatlantico all’epoca – era il dicembre scorso – il sottosegretario alla Giustizia del Carroccio, Jacopo Morrone, mentre i deputati del M5s festeggiavano fuori da Montecitorio il varo dello “Spazzacorrotti”, con tanto di cartelli in mano (“Attenzione: cambiamento in corso”) e coreografiche scenette sotto la regia della Casalino & Associati. La convinzione di Matteo Salvini era che prima dell’entrata in vigore di quella norma, a gennaio 2020, ci sarebbe stata la possibilità di detonare il marchingegno forcaiolo a cinque stelle, grazie a una nuova fantasmatica riforma della giustizia. Che ora invece – dopo l’ennesimo Cdm conclusosi con un “salvo intese”, come “salvo intese” guarda caso era stato licenziato, il 6 settembre 2018, anche lo “Spazzacorrotti” – rischia di non arrivare, o comunque di non avere quegli effetti correttivi che nella Lega auspicavano.

 

 

E forse allora si capirà che le sciocchezze si pagano, e tanto più caramente si pagano quelle approvate da un governo schizofrenico e confusionario, che pertanto dimostra tutta la sua inaffidabilità quando promette di rimediare ai danni che esso stesso deliberatamente produce. E’ successo anche con l’Ilva, il cui stabilimento di Taranto vivacchia ancora nell’incognita di un possibile abbandono, visto che Luigi Di Maio si è intestardito sulla rimozione dell’immunità penale, inserendo nel decreto “crescita” – licenziato pure quello, manco a dirlo, “salvo intese” – un articolo che di fatto spinge i nuovi gestori di ArcelorMittal a tirarsi indietro dopo il 6 settembre. 

 

 

La Lega ha votato quel provvedimento, con tanto di parere positivo espresso dai suoi esponenti in Parlamento, salvo poi annunciare, all’indomani del via libera di fine giugno, che “rimedieremo col primo decreto utile”. E invece a poco più di un mese dalla pronosticata chiusura, quel “decreto utile” non è saltato fuori, nella trafila concitata della chiusura dei lavori delle Camere, e così al Mise stanno pensando, nientedimeno, che a un “decreto crescita bis” da approvare in tutta fretta – e magari, perché no?, “salvo intese” – a inizio settembre, proprio a ridosso della scadenza. Non a caso Arcelor, nelle comunicazioni agli analisti finanziari delle scorse ore, ha provato a scoprire il bluff, garantendo di aver ricevuto rassicurazioni dal governo sull’imminente varo di una nuova legge che ripristini l’immunità e chiamando Di Maio a scoprire le sue carte. Cosa che il ministro dello Sviluppo ha fatto via Twitter col solito garbo che lo contraddistingue quando affronta delicate questioni industriali: “Quella norma mostruosa non tornerà mai più. Chi è responsabile della morte sul lavoro di un operaio o decide di non mantenere gli impegni presi sugli adeguamenti ambientali, d’ora in poi pagherà. Sempre. Se ne facciano tutti una ragione”. Il che, certo, ricorda i toni utilizzati con Atlantia qualche giorno prima della resa su Alitalia, e fa dunque pensare che alla fine, nella consueta scombiccherata corsa contro il tempo, Di Maio accetterà di scendere a patti anche con Arcelor. Ma ieri sorprendeva lo spaesamento con cui i leghisti osservavano all’ennesimo pasticcio del Mise quasi con l’aria degli spettatori passivi, loro che invece s’erano impegnati a giocare un ruolo decisivo nella risoluzione del garbuglio tarantino.

 

Alla stessa impotenza, poi, gli esponenti del Carroccio sembrano condannati anche su un’altra questione su cui pure avevano garantito di sistemare i guai causati dalle bizzarrie grilline. Era il 17 giugno, infatti, quando Claudio Durigon annunciava come imminente l’approvazione di un disegno di legge destinato a rimediare alle storture causate dal “decreto dignità” in merito all’introduzione delle causali per il rinnovo dei contratti a termine. E però subito è scattata la controffensiva grillina, che ha immediatamente difeso il provvedimento tanto caro a Di Maio e, in via ufficiosa, lasciava intendere al sottosegretario leghista al Lavoro di essere pronta a cercare anche l’appoggio del Pd, in commissione, pur di scongiurare l’assalto del Carroccio. E così, a distanza di un mese e mezzo, quel testo resta fermo tra le scartoffie della commissione Lavoro della Camera, bloccato dai veti posti dalla pattuglia grillina, a dispetto di chi, anche tra i sindacati, invocava degli interventi di correzione rapidi. “Servono modifiche mirate, che non stravolgano il decreto”, dice al Foglio Luigi Sbarra, segretario generale aggiunto Cisl. “Si tratta – aggiunge – di affidare alla contrattazione collettiva, anche di secondo livello, l’individuazione di causali ulteriori oltre a quelle di legge, in modo da poter coniugare le esigenze di flessibilità con la necessità di contrastare gli abusi. E sarebbe stato importante apportare queste correzioni prima della pausa estiva”. E invece ieri l’ufficio di presidenza della commissione Lavoro ha definito il calendario, e della discussione di questo disegno di legge correttivo non è stata fatta alcuna menzione, neppure in vista della ripresa delle attività parlamentari di settembre.