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La politica ha un costo, ma come si finanzia? Urge un modello anti populista

David Allegranti

Le indagini sui finanziamenti illeciti e alcune domande sui giusti metodi per pagare i politici. Esperti a confronto

Roma. Ma per evitare problemi di scontrini, accuse di presunto finanziamento illecito ai partiti, sia in versione lombarda (citofonare Marco Bonometti e Lara Comi) sia in versione “oro da Mosca”, non sarebbe meglio rivedere l’idea secondo cui la politica debba essere a costo zero e senza intervento dello Stato? Oppure, non si possono trovare forme di compromesso fra pubblico e privato? 

  

Max Weber intitolò uno dei suoi testi più famosi “La politica come professione”. Praticamente un manifesto: la parola Beruf in tedesco ha un doppio significato, vuol dire sia “vocazione” sia “professione” (e le professioni per forza di cose sono retribuite, altrimenti può permettersele solo il notabilato). Per i populisti di oggi invece non c’è alcuna professionalità nella politica, anzi. Anni di propaganda antipolitica (e di argomenti e pretesti forniti anche dalla classe dirigente, che ha naturalmente le sue responsabilità) hanno prodotto la disaffezione nell’opinione pubblica che conosciamo. “Per me non sono ‘sprechi della politica’ ma ‘costi della democrazia’. Ed è giusto sostenerli anche in una prospettiva liberale. Un liberale può permettersi di valutare con il buonsenso del padre di famiglia una qualche forma di reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti, come una assicurazione contro il cattivo governo, ovvero un mezzo per garantire libertà più importanti”, dice al Foglio il professor Luca Verzichelli, docente di Scienza Politica all’Università di Siena, autore di “Vivere di politica. Come (non) cambiano le carriere politiche in Italia” (Mulino).

  

Nel 2013 fu il governo di centrosinistra di Enrico Letta ad abolire con il dl 149 i rimborsi elettorali e, dice Verzichelli, “strategicamente è stato un errore, anche se fu un intervento necessario in un’ottica di bilancio, con il populismo che stava montando e dopo che il ‘salva Italia’ di Monti aveva introdotto un mood per cui tutto era diventato una spesa inutile. Questo però è ciò che succede quando la sinistra fa la destra e insegue il populismo sul suo stesso terreno”. Secondo Verzichelli il finanziamento pubblico “non è il male assoluto ma lo può diventare se si fonde insieme a forme patologiche di moltiplicazione della dipendenza delle burocrazie dei partiti dalle risorse pubbliche. Personalmente penso che la legge del 1974 fosse meglio anche del rimborso elettorale, perché i rimborsi possono essere gonfiati, come è avvenuto, e possono far spendere molto di più”. 

  

Oggi più che mai, dice Verzichelli, “servirebbe una legge organica sui partiti per attuare l’articolo 49 della Costituzione, in modo da poterli regolamentare e finanziare come succede in Germania dove c’è una regolazione ferrea per chi vuole accedere ai finanziamenti. D’altronde, si danno i soldi al terzo settore e agli ospedali privati, perché non darli ai partiti che pure dovrebbero contribuire al bene pubblico alla democrazia?”. In caso contrario non si potrebbe pensare - invece di reintrodurre una forma diretta e integrale di finanziamento pubblico - a un sistema misto fra pubblico e privato, dove il privato viene regolamentato? “Da liberale dico che dobbiamo stare attenti con le donazioni in un paese con un’alta propensione all'evasione fiscale. Non vorrei passasse una cultura delle donazioni interessate o un modello all’americana in cui i Public Action Committees, i Pac, possono essere molto selettivi e poco trasparenti, grazie a prestanomi da usare all’occorrenza. Comunque, l’esperienza ci insegna che anche una forma mista non sarebbe disdicevole, ancorché contraria al mood pauperista attuale”.

 

Mattia Diletti, docente di Scienza Politica all’università La Sapienza, uno dei fondatori di “Ti candido”, di cui Il Foglio si è occupato in questi giorni, è convinto che “il finanziamento pubblico tornerà per lo stesso motivo per cui si introdusse negli anni Settanta con la legge Piccoli, cioè uno scandalo. Bisognerà arrivare al dibattito preparati, e secondo me le strade sono due. O si introduce un meccanismo che affami la bestia, per il quale comunque i partiti devono procacciarsi del denaro anche fuori dal finanziamento pubblico, costretti quindi ad avere un rapporto con la società (un’ipotesi plausibile è quella di dare tot soldi pubblici a fronte di tot soldi che si riescono a raccogliere con le donazioni, premiando chi ha più donatori, non chi fa più soldi) oppure l’alternativa, più irrealistica ma che io preferirei, è quella del modello tedesco”.

 

Ovvero? “Una parte del finanziamento passa attraverso le fondazioni di partito che svolgono funzioni sociali, di formazione e volontariato, e che hanno funzioni vere di studio, certificato. Questo prevede che esistano partiti organizzati, ma al momento questo non è il caso dell’Italia. Il lavoro che abbiamo fatto con ‘Ti candido’ è quello di trasformare il denaro in una forma di partecipazione; la donazione diventa partecipazione a un progetto e responsabilizza il candidato e l’eletto”. Il problema, dice Diletti, è che se non hai i partiti organizzati come è il caso italiano “i partiti diventano un modello in franchising per cacicchi locali e deboli federatori nazionali. I partiti invece devono diventare una coalizione sociale”.

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  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.